Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Un libro di Cofrancesco su Isaiah Berlin

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Dino Cofrancesco, professore emerito di Storia delle dottrine politiche all’Università di Genova, ha dedicato un nuovo volume a un pensatore che gli è sempre stato molto caro: Isaiah Berlin.

Il libro s’intitola Isaiah Berlin. Il pluralismo preso sul serio e, come indica il sottotitolo, è il tema del pluralismo a costituire il filo rosso dell’opera.

Com’è noto, Berlin è uno dei massimi esponenti del liberalismo contemporaneo, e ai più viene spontaneo pensare che un liberale debba essere per forza anche un pluralista, ma Cofrancesco dimostra che, per quanto possa sembrare strano, le cose non stanno proprio così.

È interessante riportare che cosa afferma Isaiah Berlin a proposito delle concezioni - come per esempio il marxismo - le quali hanno in comune l’idea che esistano soluzioni definitive ai problemi dell’umanità, che sia possibile scoprirle e, con una dose sufficiente di altruismo, realizzarle sulla terra. Egli ci racconta che, in gioventù, aveva molto meditato sulle opere di alcuni scrittori russi, e in primo luogo su Guerra e pace di Tolstoj.

Iscrittosi in seguito all’Università di Oxford, aveva poi ritrovato queste stesse idee nelle opere di molti filosofi, anche se v’erano notevoli differenze sia sul modo in cui tali soluzioni potevano essere scoperte, sia sui mezzi che occorreva porre in atto per realizzarle. Platone, ad esempio, pensava che una élite di saggi dovesse essere investita del potere di governare gli altri - i meno dotati - attenendosi a schemi dettati dalle giuste soluzioni dei problemi.

 

I razionalisti del ’600, dal canto loro, ritenevano che le risposte fossero rintracciabili grazie a una speciale applicazione del “lume della ragione” di cui tutti gli uomini sarebbero in quanto tali dotati. Gli empiristi del ’700 sostennero invece che i nuovi metodi scoperti dalle scienze naturali erano in grado di introdurre un ordine anche nella sfera sociale, ordine suscettibile di essere formulato in termini esatti. Berlin afferma:

«Ad un certo punto mi resi conto che tutte queste concezioni avevano in comune un ideale platonico. Mi resi conto, in primo luogo, che, come nelle scienze, tutte le domande autentiche dovevano avere una e una sola risposta vera, tutte le altre essendo necessariamente errate; in secondo luogo, che doveva esserci una via attendibile e sicura per pervenire alla scoperta di queste verità; in terzo luogo, che le risposte vere, quando fossero state trovate, dovevano necessariamente essere compatibili tra loro e formare un tutto unico, perché una verità - e questo lo sapevamo a priori - non può essere inconciliabile con un’altra

Questo tipo di onniscienza era la soluzione del puzzle cosmico. Nel caso della morale, potevamo allora immaginare come doveva essere la vita perfetta, fondata su una vera conoscenza delle regole che governavano l’universo. D’accordo, forse potremmo non arrivare mai a questa condizione di conoscenza perfetta, ma anche se non eravamo capaci di arrivare alle risposte vere o, in sostanza, al sistema ultimo che le abbracciava tutte, le risposte dovevano esistere - altrimenti le domande non erano reali e fondate.

Al summenzionato ideale platonico Berlin contrappone le concezioni di due filosofi che lo hanno profondamente influenzato, Vico e Herder, secondo i quali ogni società possiede una propria visione della realtà, e le visioni variano di volta in volta, passando da un assetto sociale a quello successivo.

Non esiste, in altri termini, una scala ascendente che porti dagli antichi ai moderni. Non si tratta tanto di relativismo culturale e morale, quanto di “pluralismo”, secondo il quale sono molti e differenti i fini cui gli esseri umani possono aspirare, senza che vengano meno la razionalità e la capacità di comprendersi. È dunque il pluralismo dei valori a costituire il tratto distintivo della storia umana.

Da ciò segue che le “soluzioni finali” esistono soltanto nella mente dei filosofi, giacché lo studio della società mostra che ogni soluzione crea situazioni nuove le quali, a loro volta, generano nuovi bisogni, nuovi problemi e nuove domande. Il filosofo inglese sa benissimo che il quadro da lui delineato può sembrare “insipido” se paragonato a quelli tracciati dagli utopisti.

E tuttavia, rammentando che l’uomo è intrinsecamente fallibile, giudica di gran lunga preferibile ricorrere ai cosiddetti “trade offs”, alle concessioni reciproche, piuttosto che avventurarsi sul pericoloso sentiero che conduce a stabilire una scala di valori assoluti: la ricerca della perfezione gli sembrava una ricetta, una via obbligata che porta allo spargimento di sangue; e le cose non migliorano se a dettare la ricetta è il più sincero degli idealisti, il più puro dei cuori.

Non è mai esistito un moralista più rigoroso di Immanuel Kant, ma anche lui, in un momento di folgorazione, disse: “Dal legno storto dell’umanità non si è mai cavata una cosa dritta.»

Berlin riconosce senz’altro a Marx - e a Hegel - il merito di aver in fondo compreso che non esistono verità perenni, in quanto gli orizzonti umani mutano con il procedere dell’evoluzione storico-sociale.

Ciononostante, Marx si fa comunque imprigionare dai sogni di perfezione terrena e di redenzione globale, ragion per cui egli finisce col postulare una vittoria finale della ragione, vittoria che avrebbe condotto ad un’armoniosa collaborazione universale e all’inizio della “storia vera”.

Come notò Berlin, la libertà negativa - libertà “da” qualcosa - non è sufficiente, e per fondare su basi adeguate la convivenza civile occorre abbinarla alla libertà positiva (libertà “per” fare qualcosa). In secondo luogo, il primato della politica è giustificato dalla constatazione che il politico riceve, negli ordinamenti democratici, la propria investitura direttamente dal corpo elettorale, il quale può sovranamente decidere chi inviare in parlamento e chi no.

La storia della filosofia diventa a questo punto una serie ininterrotta di ridescrizioni volte a mutare - il che non significa necessariamente migliorare - l’immagine che gli uomini hanno di se stessi in una determinata epoca o in un certo contesto culturale, e va da sé che il susseguirsi delle immagini, e dei linguaggi che le esprimono, è spiegato dalla necessità del cambiamento culturale e dall’obsolescenza cui vanno incontro tutti i prodotti umani.

Come afferma lo stesso Berlin, se si considera illusoria la pretesa di risolvere in modo definitivo i conflitti di valori, “non foss’altro perché alcuni valori ultimi possono essere incompatibili tra loro, e che la nozione stessa di un mondo ideale in cui essi si trovino riconciliati è un’impossibilità concettuale (e non meramente pratica), allora, forse, il meglio che si possa fare è tentare di promuovere una qualche specie di equilibrio, fatalmente instabile, tra le diverse aspirazioni di gruppi differenti di esseri umani”. Si potrà quindi parlare di un’immagine “migliore” rispetto a un’altra, senza però scordare che tale aggettivo deve essere relativizzato ad un contesto che dal flusso del tempo acquista il suo vero significato.

Per farla breve, un vero liberale è sempre disposto a riconoscere che anche i suoi avversari possono avere ragione su qualche punto, e sarà quindi disponibile a dialogare con loro per quanto distanti siano i valori che essi difendono. Cofrancesco fa comunque notare che Berlin approdò a tali conclusioni solo dopo aver abbandonato la filosofia analitica per dedicarsi a pensatori da essa assai distanti quali Giambattista Vico e Johann Gottfried Herder.

 

Michele Marsonet

 

 

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