Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Al liceo scientifico “Leonardo da Vinci” di Firenze negli anni 1945-50

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Nel settembre 1945, superato l’esame finale della terza media, mi ero inscritto al liceo scientifico Leonardo da Vinci. Esistevano nel comune di Firenze tre licei classici fondati addirittura nel secolo precedente, ma mi attraeva quella scuola meno conosciuta. I licei scientifici erano nati nel 1923 con la riforma del filosofo Giovanni Gentile, allora ministro dell’istruzione. Il regime fascista aveva deciso che alla scuola italiana era necessaria un’impronta scientifica. Ne furono istituiti 37 in Italia di cui uno a Firenze. Gentile fu ucciso dai partigiani nel 1944.

Nonostante il nome altisonante, il Leonardo da Vinci era un edificio piuttosto modesto situato al termine di via Masaccio, una lunga via alla periferia nord della città, parallela alla ferrovia Firenze- Roma. Le prime classi erano circa 10 con un numero di studenti inferiore a 200, la sede era comunque inadeguata e dovevamo fare turni pomeridiani. Mancava la biblioteca, la palestra aveva dimensioni ridotte, le esercitazioni si svolgevano nel cortile della scuola,

 

Negli anni successivi l’interesse per questo tipo di scuola aumentò progressivamente: nel 1957 il Leonardo da Vinci venne trasferito in una sede più idonea e ne furono costruiti altri due, il Guido Castelnuovo nel 1967 e l’Antonio Gramsci nel 1972, eguagliando il numero dei licei classici della città. I tre licei scientifici da allora ebbero diverse centinaia di studenti ciascuno.

Una nota triste riguarda il mio vecchio liceo; dopo essere stato la sede di una compagna telefonica statale, l’edificio è ora completamente abbandonato.

Ricordo volentieri gli anni del liceo, non solo perché furono gli anni della gioventù, ma anche per il confronto con i precedenti: i cinque delle elementari vissuti in pieno periodo fascista e i tre della scuola media contrassegnati dalla guerra. Anche gli studi universitari furono piuttosto deludenti con lunghi periodi di studio a tavolino, gli esami vissuti nello spazio di pochi minuti, i docenti lontani, la pratica clinica ridotta.

Ovviamente non mancarono esperienze, eventi ed incontri positivi, ma l’“atmosfera” degli anni di liceo 1945-1950 è rimasta unica, anche per la corrispondenza con gli anni della liberazione alla fine del secondo conflitto mondale.

Nel 1945 a Firenze si stavano ancora rimuovendo le macerie dovute ai bombardamenti alleati e alle distruzioni operate dai tedeschi in ritirata nell’estate del 1944, il pane era ancora razionato. Tuttavia si avvertiva il diffuso desiderio di vivere l’acquistata liberta, si aprivano ovunque locali da ballo, la partecipazione alla vita civile, e in particolare a quella politica, era intensa.

La nostra classe rifletteva la situazione sociale del momento, così come nei decenni successivi: mio figlio ha frequentato il liceo scientifico, sempre a Firenze, negli anni ’70 ha vissuto le lotte studentesche, mio nipote, sempre al liceo scientifico della provincia di Firenze, negli anni 2013-2018, con una società disinteressata alla politica, ha studiato in una classe attenta solo ai risultati scolastici.

Occorre comunque sottolineare che un aggregato di individui formatosi casualmente come una classe scolastica, può avere caratteristiche proprie e comportamenti anche indipendenti dalla società circostante. I miei compagni provenivano da famiglie modeste, con temperamenti abbastanza diversi, ma erano molto vivaci. Negli ultimi due anni furono inserite anche tre studentesse, persisteva il pregiudizio che il sesso femminile non fosse idoneo per le materie scientifiche.

In quel periodo si stavano svolgendo eventi che hanno cambiato la storia del nostro Paese: le elezioni per l’Assemblea costituente per redigere la nuova carta costituzionale del 1946, le prime dopo la dittatura fascista, il referendum con il successo della repubblica nello stesso periodo. Nel dicembre del 1947 fu approvata la Costituzione e nel 1948 si svolsero le elezioni politiche: i partiti erano in piena azione, il dibattito politico era acceso.

Nella nostra classe l’interesse per la politica metteva in secondo piano il rendimento scolastico, circolavano continuamente le “schede”, foglietti nei quali ciascuno scriveva il voto e alla fine delle lezioni si effettuava lo scrutinio. Le elezioni venivano ripetute più volte e davano risultati diversi mostrando l’incertezza delle nostre scelte. Non ricordo voti per i movimenti neofascisti.

Lo sport era l’altro interesse dominante. Il calcio era praticato in modo quasi compulsivo, si elaboravano in classe le formazioni delle squadre e al termine delle lezioni. Quasi ogni giorno, nelle strade e nelle piazze adiacenti alla scuola, allora completamente deserte, si svolgevano le partite con una pallina di cencio, vestiti e zaini messi a terra costituivano i pali delle porte.

Anche lo sport assumeva colore politico: il tifo per i due grandi campioni del ciclismo di allora, Fausto Coppi e Gino Bartali, divideva la classe sulla base di criteri discutibili. La squadra calcistica del Torino era considerata espressione del proletariato, la Juventus emanazione della classe dirigente e del capitalismo. Il 15 maggio 1949 fu un giorno molto triste, nella sciagura aerea di Superga avevano perso la vita i giocatori del grande Torino. Tutti i banchi della classe furono coperti con un giornale rosa, la Gazzetta dello Sport che riportava la terribile notizia, e quel giorno non facemmo lezione.

I rapporti tra noi studenti erano sempre cordiali e collaborativi, con alcuni l’amicizia proseguiva al di fuori della scuola, non c’erano tracce di bullismo, ma abbondavano bonarie prese di giro e l’uso di soprannomi. Uno di questi, tuttavia, ci procurò un rimorso tardivo: avevamo soprannominato Buchenwald (come il campo di concentramento nazista) un ragazzo molto magro, sorvolando sul significato tragico della parola. Inoltre, per risibili motivi estetici, fu snobbata una ragazza di nome Spizzichino che frequentò la nostra classe per un breve periodo. In seguito venimmo a conoscenza che una famiglia ebrea con quel cognome era stata deportata dal ghetto di Roma, e sterminata nei lager.

Nell’ultimo anno l’incontro con alcuni docenti riaccese l’interesse sia per le materie letterarie che scientifiche: la rivoluzione francese illustrata da un brillante professore di storia, le liriche dei Les Fleurs du Mal di Baudelaire evocate con passione dalla insegnante di lingue, il fascino della matematica superiore con le sue derivate, integrali e il concetto d’infinito presentati da un tranquillo professore di matematica.

Un’insolita iniziativa del professore di lettere ci fece sentire protagonisti: invitò dei volontari a fare una relazione alla classe dalla cattedra su uno scrittore o poeta italiano. Due scelsero Verga e Leopardi, io il Carducci che mi attraeva per l’impegno storico: era la prima volta che parlavo ad un pubblico sia pure composto dai compagni.

Si avvicinava il temuto esame di maturità, ma il significato semantico della parola maturità ci confortava: con la maggiore età avremmo potuto partecipare alla vita civile ed ai mutamenti che sentivamo in atto nel nostro Paese. Era inoltre necessario conoscere la storia contemporanea che ci avrebbe anche evitato i rimorsi di cui sopra: dovevamo sapere come e a che prezzo era stata conquistata la libertà che aveva consentito la vita spensierata di quegli anni.

 

Alberto Dolara

 

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