La spia russa
La sua traduzione in forma letteraria è avvenuta nella tipologia cosiddetta del ‘romanzo saggio’, di cui sono magnifici esempi la Recherche di Marcel Proust o l’Uomo senza qualità di Rober Musil. Non si tratta di saggi (di storiografia o di altra disciplina), poiché mescolano il vero alla finzione narrativa, però a differenza del romanzo storico tradizionale dei grandi classici ottocenteschi si prefiggono una descrizione d’una realtà sociale anche se metamorfosata con l’invenzione e la soggettività, per usare una metafora ritraendola come un pittore e non un fotografo. La narrativa di Chmet ritorna con la memoria alla società jugoslava che ella aveva conosciuto dall’interno ed in questo è accostabile, con tutte le differenze necessarie, alla casistica dei romanzi saggi della dissidenza sovietica, come ad esempio i celebri Una giornata di Ivan Denisovič di Aleksandr Solženicyn oppure I racconti di Kolyma di Varlam Tichonovič Šalamov. L’intreccio combina ed armonizza una pluralità di frammenti di vita vissuta, fornendo al lettore un quadro organico e comprensibile. L’autrice ha scritto una trilogia ambientata nella vecchia Jugoslavia titina: L'abisso socialista. Memorie di una ex jugoslava, uscito nel 2021; La primavera di Zagabria, pubblicato nel 2022; infine La spia russa, dato alle stampe in questo 2025. Il romanzo si dipana sulla vicenda di Giulio Dalmasso, giornalista piemontese che è mandato in Jugoslavia quale corrispondente. La sua è una discesa agli inferi, in cui i viaggi del giornalista percorrono una serie di gironi infernali popolati da schiere d’infelici dannati e da demoni crudeli ed ingannatori. Dalmasso incontra alcuni membri della vecchia aristocrazia e borghesia privati di ogni bene e ridotti ad un’esistenza marginale quali timorosi servitori. Gli operai sono ex contadini strappati forzatamente dalle campagne ed abbruttiti da una fatica bestiale loro imposta. Le classi rurali, la maggioranza della popolazione, appaiono stravolte sia fisicamente dalla malnutrizione, sia moralmente dalla distruzione delle loro comunità tradizionali e dal forzato tentativo di cancellare la loro mentalità. Al di sopra di tutti questi si muove la camarilla del partito comunista, volgare, incolta, tracotante ed ipocrita, immersa nel lusso con beni acquistati in Occidente. Due sinistre divinità dominano la Jugoslavia: la povertà ed il terrore. La miseria è generalizzata, con carenza praticamente di tutto: cibo, acqua, case, lavoro. Basti dire che una merce scarsa e desideratissima in Jugoslavia erano le calze di nylon, prodotto comunissimo e di basso prezzo in Italia. Ad ogni tappa della discesa agli inferi si apprende di carcerati, torturati, uccisi, sino a massacri su larga scala condotti con sadismo fra sevizie gratuite e stupri sistematici prima di gettare le vittime, ancora vive, dentro a profonde cavità. La polizia politica è onnipresente con agenti, spie, informatori, infiltrati. Il ritratto da incubo della tirannia di Josip Broz assume nella penna di Chmet tratti allucinatori, poiché i personaggi agiscono ingannando e mentendo, consapevoli sia della propria menzogna sia dell’altrui, come se fossero costretti a recitare una parte in cui non credono affatto. La falsità s’accompagna al nichilismo, con l’assenza di etica imperante nella nomenklatura interessata unicamente al proprio ‘particulare’, al proprio potere e, spesso, alla propria sopravvivenza fisica in un contesto di rivalità e diffidenze universali. Il protagonista Dalmasso vanamente cerca di guadagnarsi rispetto e fiducia in un ambiente a priori ostile per la sua italianità. Con acuta osservazione psicologica, agli slavi del Sud (gli jugoslavi appunto) viene attribuito un complesso d’inferiorità nei confronti dell’Italia, paese con una storia di gran lunga più antica ed importante. Questo per compensazione si traduce in un misto d’invidia ed odio verso gli italiani. L’inimicizia radicata presso i comunisti jugoslavi contro gli invisi ‘latini’ viene però mascherata da doppiezza. È paradigmatica in questo l’azione della polizia politica, che sebbene non sia apertamente nominata è riconoscibile nell’Udba, erede della ancora più famigerata Ozna a cui uno storico con una biografia parallela a quella di Chmet (italiano cresciuto in Jugoslavia, trasferitosi in Italia), quel William Klinger assassinato forse proprio per la sua produzione storiografica scomoda per i seguaci di Tito, dedicò un saggio in cui la definiva ‘terrore del popolo’. Il romanzo è anche una storia di spie, da cui il titolo, dove personaggi enigmatici ed ambigui, capaci di doppio o triplo gioco, tessono le loro tele. La spia russa è funzionale a descrivere lo ‘spirito del tempo’, Zeitgeist, della Jugoslavia comunista. Questa dittatura, elogiata da altoborghesi abitanti in Europa occidentale od Usa ed immaginata differente dagli altri stati comunisti, appare invece nella galleria di ritratti implacabili dell’autrice in tutto e per tutto ad essi assimilabile. Spicca specialmente la mistura inconfondibile di povertà della popolazione, lusso della piccola oligarchia della nomenklatura, terrore e diffidenza che rinchiudono gli abitanti nella solitudine e nell’estraneità reciproche, propaganda martellante a cui nessuno crede, violentissima repressione d’ogni dissenso e faide di potere intestine. Su tutta la trama del romanzo, come su tutta la Jugoslavia, incombe la presenza fisica del dittatore Tito, inventore di una nazione fittizia e mai esistita, spietato e mentitore, onnipresente nei pensieri e nelle azioni dei vari personaggi. Il romanzo saggio di Gabriella Chmet diviene così un ‘cannocchiale rovesciato’, con cui si guarda il passato per comprendere il presente. Anche se Tito è morto da decenni ed il suo stato si è dissolto in guerre sanguinose, nella psicologia collettiva dei popoli balcanici da lui assoggettati permangono ancora gli odi, i traumi, le menzogne dovute al suo regime. La spia russa è stato scritto attingendo anche a memorie personali e familiari (dedicato alla memoria del fratello dell’autrice, Germano) ed è stato pubblicato dalla Luglio Editore di Trieste. All’interno della letteratura italiana, la trilogia di Gabriella Chmet spicca per originalità ponendosi all’interno dell’ampio filone di memorialistica d’oppositori e dissidenti dei regimi comunisti dell’Europa orientale e dell’Urss, che in Italia per ragioni storiche è pressoché inesistente. In questo la figura della sua autrice è accostabile a quella di Herta Müller. Ella è scrittrice tedesca e di lingua tedesca, però cresciuta in Romania da appartenente ai pochi rimasti dei Rumäniendeutsche, per la maggior parte costretti alla fuga dopo la seconda guerra mondiale, che ha descritto nelle sue opere le durissime condizioni di vita sotto la dittatura di Nicolae Ceaușescu. Emblematicamente, Chmet pone Müller fra i suoi modelli d’ispirazione per aver saputo raccontare la situazione d’una minoranza nazionale emarginata ed osteggiata all’interno d’un ordinamento politico totalitario. La produzione della scrittrice triestina è infatti anche una dolorosa rievocazione della sorte della minuscola comunità italiana sopravvissuta nella Jugoslavia titina, che oltre all’oppressione comune a tutti dovette subire un’inimicizia etnica e divenire capro espiatorio dei fallimenti socioeconomici di Josip Broz.
Marco Vigna |
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