Vittime innocenti. Marzo 1948-2015
Era una ragazza poco più che adolescente quando si trasferì da Taranto a Ginosa per vivere insieme al fidanzato. Lavorare come bracciante nei campi fu una scelta immediata ed obbligata per guadagnarsi da vivere. Ben presto capì che difficoltà, mancanza di garanzie e soprusi dovevano essere accettate e sopportare se quel lavoro non voleva rischiare di perderlo. Passarono soltanto pochi giorni dal suo trasferimento, quando quello che sembrò un semplice incidente stradale le portò via la vita, la giovinezza e i sogni. Annamaria era su un autobus, abilitato per nove persone, che portava lei e altre undici sue compagne verso l’azienda agricola Tarantino per la raccolta giornaliera degli ortaggi, quando improvvisamente il mezzo venne investito da un’automobile che procedeva a gran velocità. Annamaria giunse morta in ospedale, le sue compagne e il caporale che si trovava alla guida si salvarono. Quello che sembrò inizialmente un incidente si rivelò invece una tragedia causata dal caporalato, dallo sfruttamento operato dai caporali a danno dei lavoratori. Non un normale incidente, ma un incidente sul lavoro provocato dalla piaga sociale del caporalato. Il 2 marzo del 2002 a Maida (CZ) venne ucciso l’avvocato Torquato Ciriaco, 55 anni. Fu ucciso lungo la strada che collega Lamezia con Maida intorno alle 23, mentre tornava a casa. I killer hanno affiancato l’auto e hanno iniziato a sparare, crivellando l’auto. Ciriaco, ferito al fianco sinistro, si è schiantato contro un muro sul lato opposto della strada e i killer lo hanno colpito altre due volte alla nuca. Sono modalità di esecuzione tipiche della ‘ndrangheta reggina. Le indagini partirono immediatamente. Poco più tardi e poco più lontano, fu ritrovata bruciata la Fiat Punto usata dal commando e che si rivelò essere stata rubata un mese prima a Reggio Calabria. il 22 gennaio del 2014 la DDA di Catanzaro comunica ufficialmente la conclusione delle indagini. Grazie alle dichiarazioni di Francesco Michienzi, l’uomo incaricato di pedinare l’avvocato per studiarne le abitudini, nel mirino dell’Antimafia finiscono tre persone. Si tratta di Tommaso Anello, 50 anni, fratello del capo dell’omonima cosca, e dei fratelli Giuseppe e Vincenzino Fruci, 45 e 38 anni. Nell’omicidio avrebbero avuto un ruolo, oltre allo stesso Michienzi, anche Santo Panzarella, ucciso nel 2002. Nel gennaio del 2015, gli imputati vengono rinviati a giudizio. Tutti scelgono il rito abbreviato. L’accusa chiede l’ergastolo per Anello e i fratelli Fruci, dieci anni per Michienzi. La famiglia si costituisce parte civile nel processo. Alla fine però verranno tutti assolti per non aver commesso il fatto, con una sentenza del settembre 2017. Un anno dopo, la Procura ricorre in appello e pochi mesi più tardi si apre finalmente la fase dibattimentale. La Corte d'Appello di Catanzaro a giugno 2021 ha emesso la sentenza che condanna a 30 anni i fratelli Vincenzino e Giuseppe Fruci, a sei anni il collaboratore Michienzi. E' stato assolto, invece, Tommaso Anello, accusato di essere il mandante dell'omicidio. Il 9 dicembre 2022, a seguito del ricorso in Cassazione, la Suprema Corte annullò la sentenza, con rinvio a diversa sezione della corte d'Appello. Il processo è quindi ancora in corso. Il 4 marzo del 1987 a Polistena (RC) venne ucciso Giuseppe Rechichi, 48 anni. Era il vicepreside dell’Istituto magistrale di Polistena e fu ucciso da una pallottola vagante che mirava in realtà a colpire il direttore della Banca popolare di Polistena, Vincenzo Luddeni, rimasto illeso. Di fronte alla morte assurda di Giuseppe Rechichi, l’intera cittadinanza ed in particolare gli studenti e il personale dell’Istituto magistrale decisero di scendere in piazza, per protestare contro lo strapotere mafioso e la violenza dilagante a Reggio e provincia. Alla scuola, non era stata ancora agganciata la linea telefonica. Per telefonare a un collega e chiedergli di anticipare il suo arrivo a scuola, Giuseppe dovette quindi uscire e raggiungere un locale a pochi metri dalla scuola, nei pressi dell’Ufficio Postale. Fu in questo frangente che accadde la tragedia. Chiusa la telefonata, Giuseppe stava rientrando a scuola. Erano le 8.10. Improvvisamente, il via vai degli studenti fu squassato dal fragore di alcuni colpi di arma da fuoco. Qualcuno vide un giovane col volto coperto da un casco sfrecciare a bordo di una moto. Fu un’azione fulminea, il cui obiettivo era il direttore della Banca. Luddeni però uscì illeso da quell’agguato, che seguiva diversi altri atti intimidatori di cui era stato fatto oggetto. Più lontano, a circa 150 metri di distanza, a terra cadde il corpo senza vita di Giuseppe Rechichi. Il processo per la morte di Giuseppe Rechichi si è tenuto presso il Tribunale di Palmi ma si è concluso con una sentenza contro ignoti. Non è mai stata fatta piena luce sulla morte di questo professore innamorato della scuola. L’11 marzo del 1948 a Corleone moriva il 12enne Giuseppe Letizia dopo essere stato trovato agonizzante tra le campagne. Quel giorno era nelle campagne corleonesi ad accudire il proprio gregge. Assistette all'omicidio del sindacalista Placido Rizzotto, ucciso il 10 marzo 1948 da Luciano Liggio, luogotenente di Michele Navarra, capomafia di Corleone. Il giorno seguente fu trovato delirante dal padre che lo condusse nell'ospedale Dei Bianchi, diretto proprio dallo stesso Navarra. Lì il ragazzo, in preda ad una febbre alta, raccontò di un contadino che era stato assassinato nella notte. Curato con un'iniezione, morì ufficialmente per tossicosi, sebbene si ritenga che al ragazzo sia stato somministrato del veleno, tesi che fu segnalata dai giornali dell'epoca. Il 13 marzo 1948 L'Unità pubblicò in prima pagina un articolo sulla vicenda: «C'è motivo di pensare, e molti in paese sono a pensarla così che il bambino sia stato involontariamente testimone dell'uccisione di Rizzotto e che le minacce e le intimidazioni lo abbiano talmente sconvolto da provocargli uno shock e come conseguenza di esso la morte» Seguita il 21 marzo 1948 da La Voce della Sicilia: «Un bimbo morente ha denunciato gli assassini che uccisero Placido Rizzotto nel feudo Malvello» Il medico che diagnosticò la morte di Giuseppe Letizia per tossicosi, il dott. Ignazio Dell'Aira, qualche giorno dopo la morte del ragazzo chiuse il suo studio ed emigrò in Australia. Il 12 marzo del 1981 a Napoli venne ucciso Mariano Mellone, 33 anni. Padre di una bambina di appena 1 anno, venne ucciso a per errore nel corso di una sparatoria tra clan rivali. Nella sparatoria è stata uccisa anche la signora Francesca Moccia, di quasi cinquant’anni che, insieme al marito, stava portando dentro le cassette di frutta esposte fuori dal suo negozio. Erano le due quando nella zona Mercato, alle spalle del Loreto Mare, si sentirono colpi di pistola e grida tra le persone che scappavano. Mariano e l'amico si affacciarono per vedere cosa stesse accadendo. I due, spaventati dal fuoco esploso in strada, rientrarono nell'officina per trovare riparo. A cercare riparo nell'officina anche Ciro Mazzarella, ‘o scellone, nipote del boss Michele Zaza, che tentò di scappare dagli emissari inviati dal boss Raffaele Cutolo. Gennaro Palumbo, l'amico di Mariano, riuscì a trovare riparo sotto a una macchina e riportò solo alcune ferite, Mariano invece non riuscì a trovare rifugio migliore e restò nascosto tra un muro e una vettura. Mariano era di spalle e accovacciato e sperava di non essere raggiunto dai killer, ma questi, accortisi dell'uomo nascosto e pensando fosse il boss designato, senza esitare gli spararono alla nuca, lasciandolo in un mare di sangue. Il boss invece riuscì a salvarsi e ferito venne ricoverato al Cardarelli. A distanza di un mese scappò dall'ospedale per raggiungere il Brasile, dove morì per infarto. Il 13 marzo 1985 a Cosenza venne ucciso il direttore del carcere Sergio Cosmai, 36 anni. Era impegnato nella gestione di una comunità detenuta poco rispettosa dell’autorità dello Stato, dedicando gli ultimi tre anni della sua vita alla riorganizzazione dell’istituto di pena cosentino e alla lotta contro la criminalità organizzata, alquanto presente in quell’ istituto penitenziario. Sempre attento alle nuove proposte della riforma carceraria appena varate che tutelavano la salute e dignità umana e sociale del detenuto. Fece trasferire alcuni detenuti per indebolirne il potere esercitato sul territorio di appartenenza, ostacolò molte concessioni dì semilibertà. Fra l'altro scoprì che la moglie di un detenuto aveva ottenuto l'esclusiva della fornitura di generi alimentari proprio al carcere. L’appalto venne revocato, il marito della donna, naturalmente, fu trasferito. Il 12 marzo 1985 venne mortalmente ferito al capo con un colpo di pistola calibro 38. Cosmai perse il controllo dell’auto e andò a sbattere contro un palo della luce. Il killer scese dalla macchina, si avvicinò al direttore del carcere e sparò altri colpi dopodiché fuggì insieme al complice. Cosmai morì il giorno dopo. Il 19 marzo del 1994 a Casal di Principe venne assassinato Don Giuseppe Diana. Alle 7.20 nel giorno del suo onomastico, mentre si accingeva a celebrare la Messa, don Diana venne ucciso nella sacrestia della chiesa di San Nicola di Bari a Casal di Principe. Un camorrista lo affrontò con una pistola. I 5 proiettili andarono tutti a segno: due alla testa, uno al volto, uno alla mano e uno al collo. Don Giuseppe Diana morì’ all'istante. Ad uccidere don Peppino fu Giuseppe Quadrano su mandato del boss Nunzio De Falco, ‘o lupo, che voleva dare un forte segnale contro un prete anti-camorra e al territorio dato che il suo clan era in declino mentre dominavano gli Schiavone. Per l'omicidio, Quadrano ricevette una condanna a 14 anni. Il 4 marzo 2004 la Corte di cassazione ha condannato all'ergastolo Mario Santoro e Francesco Piacenti come coautori dell'omicidio. Dopo l’omicidio, come accade sempre in questi casi, si mise in moto la macchina del fango. Donnaiolo, pedofilo, frequentatore di prostitute, custode di armi per il clan, fu detto di tutto. Il tempo e l’aula di tribunale dimostrarono la verità. «Assistiamo impotenti al dolore di tante famiglie che vedono i loro figli finire miseramente vittime o mandanti delle organizzazioni della camorra. Come battezzati in Cristo, come pastori della Forania di Casal di Principe ci sentiamo investiti in pieno della nostra responsabilità di essere “segno di contraddizione”. Coscienti che come chiesa dobbiamo educare con la parola e la testimonianza di vita alla prima beatitudine del Vangelo che è la povertà, come distacco dalla ricerca del superfluo, da ogni ambiguo compromesso o ingiusto privilegio, come servizio sino al dono di sé, come esperienza generosamente vissuta di solidarietà.» Per amore del mio popolo. Don Giuseppe Diana. Il 20 marzo del 1999 a Castelvolturno venne ucciso il barista Francesco Salvo. Fu bruciato vivo nel bar Tropical di Pinetamare dove lavorava e dove il titolare, Mario Brancaccio, aveva più volte rifiutato di installare il videopoker che il clan locale gli aveva imposto. Quella sera arrivarono in quattro, pistola in pugno e taniche di benzina in mano: uno stordì il cassiere con il calcio della pistola e prese i guadagni della serata, 700 mila lire, l’altro cosparse di benzina il pavimento e ne lanciò a fiotti contro Brancaccio. Le fiamme corsero rapidamente per il pavimento e circondarono Francesco Salvo, e due clienti (Andrea Fusco, Antonio Di Spirito). Il ragazzo morì dieci giorni dopo in ospedale avendo riportato ferite molto gravi. Nel 2006, le indagini portano all'arresto di tre pregiudicati ritenuti gli autori del raid punitivo: Salvatore Cantiello, Luigi De Vito e Sergio Ferraro. Il 2 novembre 2009 si conclude il processo con la condanna all'ergastolo per i responsabili dell'accaduto. Nel 2011 il processo di Appello si conclude con le condanne ai vari responsabili per 28 anni,30 anni e 12 anni. Assolto uno degli imputati. Il 21 marzo del 1984 a Niscemi (CL) venne ucciso Nicola Giotta Iachino, gioielliere di 29 anni. Fu assassinato dalla mafia per essersi rifiutato di pagare il racket. Il 24 marzo del 2015 a Napoli moriva Giovanna Paino, 64 anni. Due killer del clan, mentre erano alla ricerca della loro vittima, investirono con lo scooter e uccisero una donna mentre attraversava la strada che abbandonarono senza prestare soccorso. Giovanna Paino il 21 marzo venne travolta in via Cupa delle Vedove, tra Miano e Secondigliano e si spense dopo tre giorni di agonia in ospedale. Ridevano della morte della signora Paino, i sicari dei Lo Russo che intanto vennero intercettati il 27 giugno 2016. Si facevano beffa della vittima finita per caso nel raid di morte: a parlare nelle intercettazioni, agli atti dell'inchiesta guidata dal procuratore Colangelo, erano Carlo Lo Russo, la moglie Anna Serino e il gregario Luigi Cutarelli. A bordo della moto due giovani che, secondo le indagini del pool anticamorra, appartenevano al gruppo di fuoco di un clan attivo nell'Area Nord di Napoli. Quella mattina erano impegnati in una "stesa". La scena è stata ricostruita grazie alle cimici messe dalla Squadra Mobile in casa di un membro del clan, ma anche grazie alla testimonianza di una giornalista free lance che si trovava proprio lì, per un servizio a sfondo sociale, quando Giovanna è stata investita. È stata questa giovane donna a chiamare il pronto soccorso e a dare le prime informazioni sull'accaduto alle forze dell'ordine. Sullo sfondo dell'omicidio dell'anziana donna c'era l'intenzione del gruppo di fuoco di uccidere un uomo. Il 25 marzo del 1982 a Paola (CS) venne ucciso Luigi Gravina, 65 anni. Era un operatore commerciale ucciso dalla ‘ndrangheta per essersi rifiutato di cedere alle richieste estorsive. Coniugato con Luigina Violetta, padre di cinque bambini. Si rifiutò, reiteratamente e con forte determinazione, di cedere alle insistenti e minacciose richieste estorsive della criminalità organizzata locale. Due sicari così lo uccisero. «L’omicidio di Luigi Gravina ad opera del locale clan di ‘ndrangheta ha segnato una svolta nella lotta alla mafia della provincia. Da un lato, infatti, chi ha contribuito a consumare l’efferato crimine di un lavoratore coraggioso, padre di cinque bambini, si è pentito offrendo un contributo alla giustizia finalizzato a debellare la cosca di Paola mentre, dall’altro lato, molti operatori commerciali che mai si erano opposti alle insistenti richieste estorsive e alle angherie della mafia, in sede del processo penale in Corte d’Assise, a carico di diverse decine di malavitosi, hanno trovato il coraggio di alzare la testa e confermare la consumazione dei reati». (Fonte: stopndrangheta.it) Il 26 marzo 2004 a Torre Annunziata fu uccisa Matilde Sorrentino per aver denunciato un giro di pedofili. Mamma coraggio. Venne uccisa con numerosi colpi di pistola al volto e al petto, sparati da un uomo a cui aveva aperto la porta di casa a Torre Annunziata. Secondo i primi accertamenti, vi era un collegamento tra la morte di Matilde e le denunce che la donna aveva fatto nel 1997 nei confronti di alcune persone accusate di abusi sessuali ai danni di minori tra cui il figlio di Matilde; abusi avvenuti nella scuola elementare del Rione Poverelli. Le sue denunce infatti avevano portato all’arresto e poi alla condanna al carcere per diciannove dei ventuno accusati di pedofilia. La morte di Matilde si inserisce dunque in una storia di vendetta per il coraggio dimostrato dalla donna nel denunciare la banda di pedofili della zona. Pochi giorni dopo l’omicidio della donna, venne arrestato Alfredo Gallo, 26 anni, che confessa l’omicidio. Nel 2005 la Corte d’Assise di Napoli condanna Gallo all’ergastolo, indicandolo come esecutore materiale dell’assassino di Matilde. Il 27 marzo del 2004 a Forcella fu colpita a morte la 14enne Annalisa Durante, durante un agguato che aveva come obiettivo Salvatore Giuliano. Nel suo diario scriveva «le strade mi fanno paura, sono piene di scippi e rapine. Quartieri come i nostri sono a rischio, ci sono i ragazzi che si buttano via e si drogano senza motivo. Mi fanno pena quei tossicodipendenti che barcollano tutti i giorni sotto le nostre case» o anche semplicemente «vorrei fuggire, a Napoli ho paura». Quel sabato sera, mentre stava chiacchierando con un’amica, due ragazzini su uno scooter spararono dei colpi diretti al boss Salvatore Giuliano detto ‘o russo (il rosso, per via del colore dei suoi capelli) che era entrato nel mirino di una banda rivale. Purtroppo la ragazza si trovò sulla traiettoria dei colpi sparati: un proiettile le trafisse l’occhio e le devastò il cervello. Dopo tre giorni di coma irreversibile, con una macchina che le pompava ossigeno nei polmoni, morì. La famiglia con un grande gesto d’amore e di speranza autorizza l’espianto degli organi grazie al quale sette persone vivono. «Quando c’erano loro si stava tranquilli, quando c’erano loro la gente del quartiere veniva protetta, quando c’erano loro…» Qualcuno ancora ha il coraggio di dire. La verità è che quando c’erano loro la gente moriva e i boss si facevano scudo con i corpi dei ragazzini. Vigliacchi, maledetti, assassini, loro e chi li difende protegge ed osanna! Il 28 marzo del 1945 a Corleone (PA) venne ucciso Calogero Comajanni, guardia giurata di 45 anni. Fu responsabile dell’arresto del boss Luciano Liggio e per questo venne assassinato. Il 2 agosto 1944 stava facendo il suo solito giro di perlustrazione con altre due guardie campestri quando si accorse di un furto. I due malviventi, Luciano Liggio (boss di Corleone) e Vito Di Frisco, furono arrestati. Liggio scontò tre mesi di carcere e quando uscì decise di vendicarsi. Un primo tentativo fu messo in atto la sera del 27 marzo 1945, ma non andò a segno. La mattina del giorno successivo, il 28 marzo, Calogero Comaianni venne seguito da due killer a volto scoperto, tentò la fuga ma non riuscì a scampare all’agguato: uno dei due inseguitori gli sparò due colpi di pistola. Calogero Comaianni venne ucciso a 45 anni sui gradini di casa davanti agli occhi della moglie Maddalena Ribaudo e del figlio più grande. (fonte: Memoria. Nomi e storie delle vittime innocenti delle mafie) «Non era un eroe Calogero Comaianni, ma un uomo normale che cercava di sfamare la moglie e i suoi cinque figli, facendo di mestiere la guardia giurata. Anch’egli è una vittima innocente di mafia, ma non lo ricorda quasi nessuno.» (da l’Articolo de La Sicilia firmato Dino Paternostro del 5 Aprile 2009). Il 29 marzo del 1991 a Napoli avvenne la “strage del venerdì santo”. Restarono uccisi Luigi Terracciano, 37 anni, Umberto Esposito, 30 anni, e Carmelo Pipoli, 34 anni. L’origine della faida risalirebbe al 24 marzo del 1991, domenica delle palme, in un agguato operato da Paolo Russo e da suo cugino Paolo Pesce, entrambi affiliati agli scissionisti Cardillo-Ranieri, nel tentativo di uccidere Vincenzo Romano (allora considerato il braccio destro di Ciro Mariano), riuscirono a colpire a morte solo il suo autista, Ciro Napoletano, mentre Vincenzo Romano, ferito, sopravvisse all’agguato. L’episodio scatenò una reazione cruenta dei Mariano nei giorni immediatamente successivi. I killer agli ordini dei Picuozzi, il clan di Ciro Mariano, entrarono in azione decisi fino in fondo a punire i ribelli capeggiati dagli ex affiliati di spicco Beckembauer e Polifemo. I sicari tesero un agguato a Sant’Anna di Palazzo, nei pressi di via Chiaia, ma invece degli scissionisti i killer dei Mariano spararono e uccisero tre persone che con la malavita organizzata e con la guerra allora in atto ai #QuartieriSpagnoli non avevano nulla a che fare. Dopo la strage, la risposta degli scissionisti capeggiati da Beckenbauer e da Polifemo non si fece attendere. Il giorno dopo, il 30 marzo, in via San Cosma fuori Porta Nolana, i killer agli ordini dei capi della scissione, ingaggiarono una sparatoria con 4 affiliati ai Mariano. Anche questa sparatoria, come quella del giorno precedente, si concluse con la morte di un innocente, l’agente di polizia libero dal servizio Salvatore D’Addario. Il poliziotto gettatosi nella mischia di revolverate, nel tentativo di fermare i killer dell’una e dell’altra fazione, venne ferito gravemente. Morì dopo una settimana trascorsa tra la vita e la morte in un letto d’ospedale. Il 31 marzo del 1984 a Nardò (LE) venne uccisa Renata Fonte, 33 anni. Eroina ambientalista, era impegnata attivamente nella vita politica militando nel Partito Repubblicano Italiano, fino a diventarne Segretario cittadino. Decise di candidarsi alle elezioni amministrative nelle quali risultò eletta, divenendo la prima donna Assessore del P.R.I. a Nardò. In questo periodo Renata Fonte iniziò a scoprire illeciti ambientali e si oppose con tutte le sue forze alla speculazione edilizia di Porto Selvaggio. Renata Fonte combatté spesso sola e contro tutti. Venne assassinata a pochi passi dal portone di casa la notte fra il 31 marzo ed il primo aprile 1984, mentre rientrava da un Consiglio comunale. È il primo omicidio di mafia nel Salento e, per giunta, perpetrato contro una donna.
Francesco Emilio Borrelli |
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