Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Myosotis

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Mai come oggi l’umanità è stata tanto connessa, eppure tanto incapace di conoscersi. Siamo immersi in un flusso ininterrotto di immagini, parole, dati. La realtà sembra a portata di mano, eppure resta inafferrabile.

Non vediamo più il mondo: ne vediamo la proiezione. Siamo tornati nella caverna, ma il fuoco è stato sostituito da una rete di calcolo, e le ombre non sono più accidenti: sono prodotto. Ogni cosa ci viene mostrata perché serve a qualcosa, e ciò che non serve, semplicemente, non esiste.

Il vero non è più ciò che è, ma ciò che appare. Il potere non ha più volto. Non si impone, si adatta. Non ordina, suggerisce. Non reprime, ottimizza. Non occupa lo spazio, lo condiziona. La sua forza sta nella sua invisibilità. Non impone leggi, ma architetture. Non ha bisogno di proclami: ha metriche. La sua sovranità non si fonda sulla norma, ma sull’indice di rilevanza.

Non decide se qualcosa sia giusto o sbagliato, ma se sia monetizzabile, amplificabile, visibile. Così si governa l’epoca: con il codice, non con il comando.

Lo Stato – una volta garante del limite, luogo di equilibrio tra forze divergenti – è oggi divenuto esecutore. Non esercita più la mediazione tra interessi, ma li implementa.

La Costituzione è divenuta documento simbolico, citato, usato come una clava alla bisogna, ma sempre e comunque disatteso. Il diritto, un protocollo aggiornabile. Il linguaggio giuridico stesso si piega alla logica aziendale: si progetta la semplificazione come valore in sé, si valuta la norma in base all’impatto gestionale.

Il cittadino non è più persona, ma unità di prestazione.

Lo Stato non è più comunità: è piattaforma. Sarebbe un errore, però, leggere tutto ciò come una nuova forma di autoritarismo.

L’autoritarismo impone, reprime, controlla. Qui si invita, si suggerisce, si dispone. L’obbedienza è sostituita dall’interazione. La disciplina dall’engagement. Il dissenso viene sterilizzato non con la forza, ma con la saturazione. Si può dire tutto, purché non si sposti nulla.

Anche la rappresentanza è diventata liturgia. I partiti si combattono nell’arena della comunicazione, ma si ricompattano ogni volta che si tocca l’interesse sistemico: il mercato, il debito, la competitività, la privatizzazione. Destra, centro, sinistra sopravvivono solo come scenografia. La decisione è già presa, a monte. E chi rifiuta il copione, viene espulso dalla scena. Come nel calcio-mercato, le casacche cambiano, ma il campo resta lo stesso. L’educazione – fondamento di ogni libertà – è stata disinnescata.

La scuola istruisce alla conformità, l’università certifica competenze computazionali, non visioni. Il pensiero critico è declassato a problema gestionale di sottrazione di tempo e spazio dedicato alla riflessione. La lentezza è un difetto, il dubbio un rischio, la complessità un ostacolo.

Tutto deve essere immediato, chiaro, semplificato, utile, misurabile. E ciò che non si misura, si dimentica. Così muore il sapere.

Questa trasformazione non è recente. È iniziata quando si è smesso di credere che potesse esistere un’alternativa.

La fine dell’URSS – anziché aprire una nuova fase – è stata letta come fine della storia. Da quel momento, la politica è divenuta gestione, il conflitto è stato sostituito dall’equilibrio contabile. La corruzione è diventata linguaggio di sistema, non più eccezione. E la sovranità è stata trasferita altrove, in spazi opachi e irraggiungibili.

Lo capì, con terribile anticipo il Pieruti.

Vide l’annientamento della cultura popolare, l’unificazione dei linguaggi, la distruzione dell’identità collettiva.

Denunciò la nuova forma di dominio: non più autoritaria, ma dolce, inclusiva, seduttiva. Denunciò l’avvento di un potere che non si imponeva più con le armi, ma con il desiderio.

Vide tutto questo, e non gli fu perdonato. Aveva visto che la patria era stata sostituita da una multinazionale. Che gli ufficiali di domani sarebbero stati educati a difendere l’architettura proprietaria di un potere senza volto, non il popolo sovrano. Che la nuova disciplina non avrebbe avuto bisogno di manganelli, ma di dashboard. Che la repressione sarebbe passata per l’obsolescenza programmata. E oggi siamo qui.

Il futuro che egli temeva è divenuto il nostro presente. Non ci resta molta speranza. Ci resta la testimonianza. Ma testimoniare, oggi, non è romantico: è pericoloso. Non si rischia il carcere, si rischia la povertà.

La parola libera costa cara. Chi denuncia, chi interroga, chi si sottrae, non viene più perseguitato: viene impoverito, multato, isolato, escluso.

La censura non è più una legge: è una sanzione economica, è l’invisibilità algoritmica, è il silenzio imposto dal bisogno.

La libertà di espressione è divenuta un privilegio di classe. I ricchi possono dire qualsiasi fandonia: negare, distorcere, infangare. Non pagano mai il prezzo. Il cittadino comune, invece, deve scegliere: dire la verità o restare nel circuito della sopravvivenza. Il risultato è l’autocensura spontanea. Il pensiero si piega da solo, per non crollare. Eppure, qualcosa resiste. Una forma di fedeltà che non si può estirpare. La fedeltà alla luce. Alla parola pronunciata con rettitudine. All’atto che non si piega. Anche se non serve, anche se non porta consenso, anche se isola. Resiste nel gesto lento, nella scrittura nascosta, nella lettura ostinata. Nel costruire anche senza testimoni. Nella pietra viva che resta, anche quando il tempio crolla. Alzati e pensa, questo è il compito. Non cambiare il mondo, ma lasciare una traccia leggibile per chi verrà. Un appunto nel margine. Un pensiero inciso nella fenditura custode. Una memoria non monetizzabile. Una disobbedienza silenziosa. Come un fiore che non ha bisogno di essere visto, ma solo riconosciuto. Come Myosotis.

 

Luigi Speciale

 

 

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