La parabola del marxismo
Da molti anni alcune domande provocatorie aleggiano nel dibattito politico. È proprio vero che il comunismo è morto? E ancora: siamo sicuri di aver compreso le cause che hanno determinato il crollo del “socialismo reale”? Parrebbero interrogativi retorici, dal momento che il corso della storia sembra aver dato risposte inequivocabili. Eppure permane una sensazione di analisi incompiuta, di conti rimasti in sospeso, e il caos scatenatosi nell’Europa orientale altro non fa che aumentare il disagio di chi riflette su questi problemi. Un contributo alla loro chiarificazione fu fornito da uno scarno volumetto di Massimo L. Salvadori: La parabola del comunismo (Laterza). L’autore, noto storico delle dottrine politiche, ripercorreva con chiarezza le tappe che hanno segnato l’evoluzione dell’idea comunista dalle origini ai giorni nostri, tracciandone al contempo una mappa ragionata. Si può innanzitutto notare che il termine “comunismo” ha un significato duplice. Da un lato designa un progetto di riorganizzazione totale della società che, attraverso l’abolizione della proprietà privata, punta alla soppressione definitiva dei conflitti economici, etici e sociali. Dall’altro indica l’insieme dei movimenti politici che si sono organizzati in vista dell’attuazione di un simile progetto (contrapponendosi, ad esempio, al riformismo gradualista dei partiti socialdemocratici). Al lettore contemporaneo interessa ovviamente la formulazione marxiana e poi leninista del comunismo, in quanto è ad essa che occorre rifarsi per spiegare il crollo di cui prima si diceva. Si può allora rilevare che a Salvadori, pur nella lucidità della sua analisi storica, sfuggirono alcune considerazioni di fondo che sono necessarie ai fini di una corretta valutazione del fenomeno. Che senso ha, per esempio, porre l’accento sulle caratteristiche elitarie e giacobine del modello di partito proposto da Lenin, se poi non si ha il coraggio di notare che alla base di tutto sta una concezione troppo presuntuosa e idealizzata della natura umana? In altri termini, se si parte dal presupposto che alcuni rivoluzionari di professione abbiano accesso diretto alla teoria “vera”, in grado di condurre alla liberazione definitiva del genere umano, e che gli assiomi indiscutibili di detta teoria debbano essere trasmessi in modo automatico alle masse, si dà per scontato che tali rivoluzionari siano dei superuomini non sottoposti al normale travaglio delle passioni, degli egoismi e dei desideri. Ma ciò non può essere: i rivoluzionari leninisti sono individui imperfetti come tutti gli altri. In assenza di meccanismi che consentano il controllo del loro operato, essi tendono a trasformarsi in casta oppressiva, e lo sbocco staliniano - da Salvadori definito “cesaristico” - è in fondo un logico risultato della lotta di potere all’interno di un gruppo chiuso. Come ignorare, inoltre, che il concetto di eliminazione definitiva dei conflitti reca già in sé i germi della crisi? Il conflitto è parte integrante tanto del mondo naturale quanto della vita umana, ed ipotizzarne la risoluzione finale significa chiudere gli occhi di fronte alla realtà: il conflitto può essere in una certa misura controllato, ma non eliminato del tutto. Ciò è ancor più vero se si rammenta che spesso le nostre azioni hanno conseguenze non previste, sia a livello individuale che collettivo. Un mondo non conflittuale presuppone una capacità di prevedere e controllare il futuro che gli uomini - esseri imperfetti come tutti i prodotti della natura - non possono conseguire. A considerazioni di questo tipo dovrebbe dunque rifarsi l’autore quando si interroga sulle “ragioni che hanno portato una grande utopia rivolta alla liberazione degli oppressi a trasformarsi in un potere che ha dato luogo ad una società gerarchizzata, totalitaria, caratterizzata da estreme diseguaglianze”, rilevando che mentre i fini che ci si proponeva di raggiungere erano nobili, le conseguenze pratiche si sono spesso rivelate aberranti. Salvadori sottolineava giustamente che Marx resta un classico del pensiero politico, economico e filosofico, invitando i giovani a non dimenticarlo del tutto. La pura analisi storica, tuttavia, non fornisce ragioni. Occorre risalire agli assunti teorici, comprendendo che l’utopia è fertile qualora venga intesa come ideale regolativo, mentre è pericolosa quando pretende di incarnarsi negli avvenimenti storici concreti.
Michele Marsonet |
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