L’antico rapporto tra medicina e filosofia
Contrariamente a quanto pensano i più, una linea di confine netta tra filosofia e medicina non può essere tracciata affatto. Questo perché la medicina ha uno statuto epistemologico particolare. E’ senz’altro una scienza naturale poiché si occupa di curare il nostro corpo. Ma, allo stesso tempo, è scienza umana giacché il vero medico vede sempre il paziente nella sua totalità di mente e corpo che tra loro interagiscono. Occorre insomma pensare a una concezione unitaria dell’essere umano, in quanto tale distante da quella - di stampo cartesiano - che invece pone tra corpo e mente (o spirito, come si diceva un tempo) una divisione artificiosa. Ciò condusse una buona parte della filosofia occidentale ad adottare un dualismo forte, incapace però di costruire ponti tra le due suddette dimensioni. Al punto che Descartes dovette inventarsi la “ghiandola pineale” per spiegare un fatto evidente a tutti, e cioè che corpo e mente (o spirito) interagiscono costantemente, l’uno influenzando l’altra e viceversa.
Le spinte al rinnovamento della professione medica sono oggi molto forti, in considerazione di modificazioni della società che non possono consentire compartimenti scientifici e operativi caratterizzati da una scarsa mobilità sociale e professionale. Sino a oggi la professione medica ha teso ad esaltare la funzione terapeutica, lasciando ai margini quella preventiva e riabilitativa. Ovviamente qui non si tratta di un fenomeno derivante solo da volontà, ma soprattutto dalle strutture sanitarie esistenti: in effetti sono state le strutture sanitarie a esaltare il momento terapeutico, e anche i tentativi fatti in materia di prevenzione sono stati rapidamente distorti oppure imposti da problemi congiunturali di salute pubblica. Di qui la sensazione che la professione medica sia oggi crisi. Questo è un dato di fatto chiaro, avvertito dall’opinione pubblica. Prendere coscienza dei termini e della dimensione della crisi e rappresentarli con sereno, ma costruttivo distacco critico, significa creare le premesse concrete per il superamento della crisi stessa, e significa pure mettersi in grado di proporre precisi obiettivi di azione. Prendere coscienza della crisi significa anche liberarsi da complessi di colpa ed essere in grado di valutare la situazione senza allarmismi ingiustificati, né ottimismo partigiano e superficiale. Significa, in buona sostanza, mettersi d’accordo su una strategia di azione a breve e medio termine che, tenuto conto della situazione messa poc’anzi in evidenza, ci permetta di promuovere e di adottare forme e interventi di aggiornamento che, inquadrati nella problematica dell’educazione permanente, siano rivolti a colmare da un lato le carenze strutturali della preparazione del medico, e anticipare dall’altro gli orientamenti ai quali si dovrà necessariamente ispirare la formazione del medico di domani. Va chiaramente detto, quindi, che la crisi della professione medica s’inquadra nella crisi più ampia e generalizzata che ha investito ogni tipo di professionalità. Nella nostra società tecnologica abbiamo cambiamenti e accelerazioni storiche, dovuti anche al ribaltamento totale dei rapporti dell’uomo con le sue risorse naturali, che poi sfocia nella perdita della sua identità specifica. Il vecchio medico era caratterizzato da un insegnamento formale che lo rendeva detentore e portatore di un sapere erudito, eclettico e pragmatico. Si affidava spesso alla sua capacità intuitiva e alla sua presenza di spirito per risalire dai sintomi alla scoperta della malattia, prodotto tipico di un certo tipo di pensiero e di studi medici, in cui la clinica e il metodo anatomo-clinico avevano un’egemonia incontrastata. L’insegnamento tradizionale descrittivo e statico, organicistico e meccanicistico, privo di un insegnamento strumentale, di un’adeguata pratica tecnica, di una iniziazione ai metodi di laboratorio e di una neuropsicologia dinamica finalizzata alla comprensione e valutazione della interazione fondamentale tra il biologico e lo psicologico, è anch’esso finito. In realtà, dopo il cosiddetto boom della biologia molecolare, della biochimica e della neuropsicologia dinamica, la ricerca medica si trova oggi su una nuova frontiera: quella della salute. Ogni giorno va cambiando il contenuto e la prospettiva dell’operare professionale del medico, sia sotto il profilo culturale che sotto quello del suo comportamento. La medicina oggi dev’essere concepita, sia nel momento della ricerca sia nel momento della professione, non più come un’attività individuale, privata, ma come un servizio sociale in collegamento con tutta l’azione della comunità. Preziosa risulta, in questo senso, la definizione che l’Organizzazione Mondiale della Sanità fornisce della salute: “La salute è uno stato completo di benessere, fisico, mentale e sociale che non consiste solamente in un’assenza di malattia o di infermità”. La nozione di salute tradizionale si è dunque capovolta ed allargata notevolmente, e si va sempre più avvicinando a quella di qualità della vita. Per quanto concerne la prestazione medica, questa dovrà sempre più tendere a configurarsi come aiuto finalizzato a promuovere la collaborazione attiva del paziente, mediante una completa informazione di carattere specifico data di volta in volta sul piano patologico, terapeutico, riabilitativo e preventivo. Ne consegue una sempre maggiore responsabilizzazione, al fine di associare il paziente al trattamento non come ricettore passivo e subordinato come avveniva in passato, bensì come impegnato collaboratore dell’azione del medico. Secondo Robert Jungk, “Una conoscenza più precisa delle condizioni che favoriscono la malattia e la guarigione, è un potente fattore di mutamento sociale. Se molte vittime della industrializzazione forzata accettarono con la più completa remissività danni spesso irreparabili alla propria integrità fisica, ciò fu in gran parte dovuto alla loro ignoranza, e a una scarsa attenzione per le conseguenze nocive dell’uso della chimica e della tecnica, dell’urbanizzazione, della fatica. Da anni si cerca di sensibilizzare su tutto ciò gli interessati, che finalmente cominciano a capire”. Questa riscoperta del corpo, e l’“onda di salute” da essa scatenata, difficilmente potranno essere neutralizzate. I tentativi di esorcizzarle con le medicine o con il lavaggio pubblicitario del cervello non potranno essere che effimeri. Una nuova considerazione del corpo non può non mettere in discussione le strutture sociali con essa incompatibili. Che tipo di scienza è la medicina? O, per dirla in termini più filosofici, qual è il suo statuto epistemologico? Se per l’appunto adottiamo il classico schema – per esempio weberiano – della distinzione tra scienze empirico-naturali da un lato, e umane e sociali dall’altro, è un po’ difficile inserire la medicina in modo netto in un campo o nell’altro. Sicuramente essa non è paragonabile alla sociologia o alla storiografia. Ma, d’altro canto, non può neppure essere accostata in modo molto rigido alla fisica o alla chimica. Ebbene, tutti sappiamo che il medico davvero bravo è quello che riesce a stabilire un rapporto di “empatia” con il paziente. Capita spesso di andare dal medico per problemi più o meno seri e di uscire dal colloquio con lui o con lei sollevati e più rilassati. Per non parlare di un settore come quello della psicologia che è ancora più a cavallo tra scienze naturali e scienze umane. Tanto è vero che troviamo cattedre di psicologia tanto nelle Facoltà di Medicina quanto nelle Facoltà umanistiche. Gli psicologi che operano nelle Facoltà di Medicina diranno che gli unici veri psicologi sono loro, ovviamente contestati dagli umanisti. In ogni caso negli ultimi decenni è molto cresciuta una disciplina che si chiama “Filosofia (o epistemologia) della medicina”, e al dibattito, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, partecipano molti medici di professione. E’ indubbiamente un campo di ricerca destinato ad avere grandi sviluppi in futuro. Il che conferma, ancora una volta, gli stretti legami tra medicina e filosofia.
Michele Marsonet
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