Firenze 1944, un’estate da” sfollati”
Gli “sfollamenti” spostamenti, coatti o volontari, della popolazione civile dalle zone di maggior pericolo, sono una drammatica conseguenza delle guerre. Nella parola è esplicita l’entità ed il modo in cui questo avviene: un gran numero di persone, compresi vecchi, malati e bambini, si spostano in modo disordinato, spesso con mezzi di fortuna, verso sistemazioni precarie, sotto l’incubo dei bombardamenti, senza sapere se potranno mai tornare alle loro case. É sotto i nostri occhi quanto sta avvenendo a Gaza e in Ucraina. Lo sfollamento della mia famiglia durante l’ultimo conflitto mondiale non avvenne per fortuna in condizioni drammatiche, ma comunque, abbandonare la nostra abitazione non fu piacevole; rimanere ci avrebbe consegnati ad un destino molto diverso. Nella primavera del 1944, abitavamo a Bellariva, un quartiere periferico a nord est di Firenze, sulla riva destra del fiume Arno. Era stato costruito un ponte, sommerso sotto l’acqua del fiume, non visibile agli attacchi aerei, per permettere la ritirata dell’esercito tedesco. La nostra casa era situata a non più di cento metri dal ponte e l’avvicinarsi del fronte sconsigliava di rimanere a Bellariva, e quindi di “sfollare”. Fummo fortunati: una sorella di mio zio era stata segretaria di un tedesco rappresentante di articoli d’ufficio. Ritornato in Germania durante la guerra, la zia aveva lasciato libera l’abitazione nella zona di san Gervasio, sotto le colline di Fiesole, una zona più sicura. Bianca, questo era il suo nome, si dichiarò disponibile ad ospitare non solo suo fratello e la moglie, ma anche la mia famiglia, il sottoscritto di dodici anni, i miei due fratelli di dieci anni e di tre mesi, i genitori e la nonna materna.
Nel mese di giugno ci trasferimmo tutti in un appartamento di quattro stanze con un seminterrato non abitabile e un piccolo giardino. Una certa promiscuità rappresentata da brande allineate in una sola stanza risultò inevitabile. Cosi trascorse tutta l’estate del 1944 in attesa che Firenze fosse liberata. Nel mese di giugno potevamo ancora uscire, mancava l’acqua potabile e dovevamo andare a prenderla in una vicina galleria, progettata per collegare la zona di Campo Marte con altre della città. Lo scavo si era interrotto dopo i primi duecento metri, l’acqua scendeva a gocce da un tubo e in coda attendevamo con pazienza che i fiaschi si riempissero. È ancora visibile l’ingresso dello scavo, adesso murato. I mesi di luglio e di agosto furono invece di vera “clausura”, di giorno era pericoloso scendere per strada, fascisti e tedeschi ovunque e alla sera scattava il coprifuoco. Il centro di Firenze fu liberato l’11 agosto, ma San Gervasio e Le Cure furono i quartieri liberati per ultimi, alla fine del mese. I tedeschi si erano ritirati sulle colline di Fiesole da dove continuarono a sparare con i cannoni sulla città fino ai primi giorni di settembre prima di ritirarsi definitivamente sulla linea Gotica. Nei due mesi di “clausura” le giornate trascorrevano lente. Le notizie degli eventi drammatici della città, la distruzione dei ponti sull’Arno ed i combattimenti per le vie tra fascisti e partigiani arrivavano in modo frammentario. Uno dei miei compiti quotidiani era di rifornire i vicini di acqua potabile, che per un motivo misterioso era tornata a sgorgare dal rubinetto nel giardino. Due episodi ci misero in contatto più ravvicinato con gli eventi bellici: il primo poteva avere esiti drammatici. Nel luglio i tedeschi entrarono nell’appartamento sovrastante dove interrogarono a lungo la proprietaria. Non vi furono conseguenze anche se ho saputo in seguito che era una staffetta partigiana. É’ probabile avessero avuto informazioni precise dove fare l’ispezione, ma che fossero stati dissuasi ad entrare nel nostro appartamento dal nome del proprietario tedesco, Berend, ancora affisso sulla porta. L’altro episodio fu dovuto ad una incomprensione linguistica: a liberazione avvenuta un soldato inglese armato voleva salire sul tetto per un’ispezione del territorio. Ripeteva di continuo “roof, roof” ; non conoscendo la parola “tetto” in inglese, ci furono difficoltà ad accontentarlo e il dilemma fu poi risolto con un disegno. Alla fine di agosto una lunga fila di carri armati sostò a lungo nel viale Alessandro Volta sotto la collina di Fiesole in attesa dell’attacco alle postazioni tedesche, attacco che poi non avvenne. Ne approfittammo per porgere ai soldati del vino, una scena descritta più volte nei documentari di guerra. Gli ultimi giorni della clausura furono i peggiori, i viveri di scorta erano finiti e poco prima della liberazione macinammo con mezzi rudimentali del grano residuo per ricavarne un po’ di farina. Ritornammo a casa attraverso vie deserte con i tank alleati che le percorrevano con i fucili puntati, la fila delle case era interrotta dai vuoti delle macerie dei precedenti bombardamenti. A Bellariva il ponte sommerso nel fiume era stato fatto saltare in aria, il paesaggio dei campi sconvolto, un carro armato alleato abbandonato in avaria. La nostra casa era apparentemente intatta, ma un proiettile sparato dai cannoni tedeschi dalla collina di Fiesole era entrato con precisione chirurgica attraverso una finestra nel semiinterrato e l’esplosione aveva fatto saltare in aria il pavimento della stanza sovrastante. Era la camera dove dormivo con miei fratelli.
Alberto Dolara |
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