Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Vittime innocenti. Settembre 1975-2010

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Il 9 settembre 1975 a Villa Literno fu ucciso Luigi Ciaburro, maresciallo dei carabinieri di 52 anni. Venne travolto e ucciso da un convoglio presso la stazione di Villa Literno. Intorno alle due del mattino, la pattuglia del maresciallo Ciaburro venne allertata per una rapina ai danni di un treno merci sul tratto della ferrovia tra Casapesenna e Villa Literno, preannunciata da una telefonata anonima.

I malviventi erano riusciti ad arrestare la corsa del convoglio posizionando una bacchetta di ferro tra le rotaie e ottenendo in questo modo che si azionasse il meccanismo di frenata del treno. Dopo aver svaligiato i primi vagoni, i ladri si videro scoperti dai militari dell’Arma e da lì cominciò un inseguimento, nel corso del quale Ciaburro non vide i treni merci che intanto sopraggiungevano, restando travolto.

Il 10 settembre 1981 a #Palermo venne ucciso Vito Jevolella, maresciallo dei carabinieri di 52 anni.

Era molto noto negli ambienti investigativi dell’Arma e tra i Magistrati per la sua capacità professionale, per l’impegno investigativo e per la determinazione a fare luce tanto sul delitto comune quanto su quello mafioso. 

Alle 20.30 circa del 10 settembre 1981, Jevolella, in macchina in compagnia della moglie Iolanda, fu colpito da quattro killer mafiosi armati di pistole e fucili. Fu chiaro che l’assassinio del Maresciallo era da inquadrare in un programma mafioso teso all’eliminazione di quanti si opponessero all’espansione degli interessi criminali.

L’11 settembre 1988 a Siderno (RC) venne ucciso il 22enne Domenico “Mimmo” Carabetta. Fu ucciso per errore, aveva la stessa auto del destinatario dell’agguato.

Era un giovane chef di Siderno che si recava ogni giorno a bordo della sua 112 lx verde bottiglia al lido-ristorante “Il pentagono” dove prestava servizio come cuoco. Verso mezzanotte Domenico salì a bordo della sua auto per fare ritorno a casa ma una scarica di colpi lo uccise senza scampo perché i killer scambiano la sua automobile per quella dei gemelli Bruno e Ilario Tallariti che dovevano essere giustiziati per aver commesso l’omicidio di Antonio Catanzariti. In quel piccolo centro della Locride, dove negli anni a causa di una faida senza fine si sono contati tanti morti, veniva assassinato per un errore enorme un ragazzo normale.

Dopo 25 anni di attese gli assassini di Domenico Carabetta hanno avuto finalmente un volto. Antonino Venanzio Tripodo e Vincenzo Monteleone sono stati condannati, dalla I sezione penale della Cassazione, alla pena dell’ergastolo.

Il 13 settembre del 2000 a Napoli venne ucciso Raffaele Iorio, autista di 63 anni.

In quella serata subì il furto della vettura che un amico gli aveva affidato. Iorio venne attratto con l’inganno fuori dall’auto attraverso un tamponamento appositamente organizzato. Al posto di guida della vettura si inserì uno dei malviventi e Raffaele, nel tentativo di difendere qualcosa che neanche gli apparteneva, si aggrappò con forza alla portiera. L’uomo fu trascinato per almeno 700 metri sull’asfalto per essere infine scaraventato contro un palo della luce. Raffaele morì dopo ore di agonia il giorno successivo in ospedale.

Il principale responsabile è stato condannato a vent’anni di reclusione con l’accusa di omicidio volontario nel processo di primo grado, che ha visto condannare anche altri due imputati.

Il 15 settembre del 1993 a Palermo venne ucciso a 56 anni il presbitero Don Giuseppe “Pino” Puglisi.

Fu ucciso il giorno del suo cinquantaseiesimo compleanno, a causa del suo costante impegno evangelico e sociale.

È il primo martire della Chiesa ucciso dalla mafia infatti è stato proclamato beato il 25 maggio 2013. 

Da due anni il sacerdote lavorava a tempo pieno sul fronte antimafia, incontrando i giovani del quartiere Brancaccio. La sua attenzione si rivolse al recupero degli adolescenti già reclutati dalla criminalità mafiosa riaffermando nel quartiere una cultura della legalità illuminata dalla fede. Un’attività estremamente pericolosa nel quartiere di Brancaccio, territorio controllato dai fratelli Graviano. Questa sua attività pastorale, come è stato ricostruito dalle inchieste giudiziarie, ha costituito un movente dell’omicidio, i cui esecutori e mandanti sono stati arrestati e condannati.

Il 16 settembre 1990 a Casoria venereo uccisi, Sergio Esposito e Andrea Esposito (in foto), di 32 e 12 anni. 

Non erano parenti ma semplicemente omonimi. Lavoravano nel bar Franzese, situato all’interno del mercato ortofrutticolo del paese. L’attività veniva gestita da dei pregiudicati, i quali erano un tempo legati al boss Raffaele Cutolo.

Sergio era stato assunto come cameriere, il piccolo Andrea invece come garzone. Ogni mattina si svegliava alle 3.30 solo per portare a casa qualche lira: la sua famiglia si trovava in una situazione di grande povertà. Il 16 settembre i killer decisero di compiere il loro agguato: entrarono nel bar alle 4.30 e individuarono la loro vittima: Antonio Franzese, figlio ventiquattrenne del proprietario. Non ebbero alcuna esitazione: impugnarono le pistole e iniziarono a sparare. Il giovane, colpito, si accasciò a terra. I sicari si avvicinarono e si accorsero di Sergio e Andrea, nascosti dietro al bancone. I malavitosi li uccisero per non lasciare testimoni.

Era il 18 settembre del 2008 quando un commando armato, inviato dalla fazione del clan dei casalesi che aveva come referente Giuseppe Setola (detto ’o cecato per  aver utilizzato referti medici fasulli per poter evitare il regime carcerario) che aveva preso le redimi del comando del gruppo di Francesco Bidognetti (Cicciotto ‘e mezanotte, già in carcere) fece irruzione  tra Baia Verde ed Ischitella (frazioni di Castelvolturno) uccidendo il pregiudicato Antonio Celiento (gestore di una sala giochi, sospettato di essere un informatore delle forze dell'ordine) e sei immigrati africani, vittime innocenti della strage.

Gli immigrati africani si chiamavano Kwame Antwi Julius Francis, Affun Yeboa Eric, Christopher Adams del Ghana, El Hadji Ababa e Samuel Kwako del Togo e Jeemes Alex della Liberia e si trovavano presso la sartoria Ob Ob Exotic Fashion a Ischitella.

Dagli accertamenti effettuati dagli inquirenti, successivamente alla strage, è emerso che nessuno degli immigrati (tutti giovanissimi, il più vecchio aveva poco più di trent'anni) era coinvolto in attività di tipo criminale e che nessuno di loro era legato alla camorra locale né alla cosiddetta "mafia nigeriana", la quale, poco lontano da lì, all'ex hotel Zagarella, gestisce la piazza dello spaccio e il giro di prostituzione di ragazze africane per conto della potente camorra locale.

Tali fatti di sangue sono ricordati come la strage di Castelvolturno.

Il 20 settembre del 2010 a Napoli fu uccisa Teresa Buonocore, 51 anni.

Aveva denunciato e testimoniato contro l’uomo, Enrico Perillo, che aveva abusato sessualmente di sua figlia, loro vicino di casa e padre di due amiche della ragazzina. In seguito a ciò, aveva già subito intimidazioni: le era stata incendiata la porta di casa. Questo, però, non era bastato a farla tornare sui propri passi, così il pedofilo di cui la figlia di Teresa era caduta vittima aveva ingaggiato due uomini promettendo loro 15mila euro, come esecutori materiali dell’omicidio della donna. Teresa si trovava in macchina, nella zona del porto, quando i due le si avvicinarono a bordo di una moto e le esplosero addosso quattro colpi di pistola, uccidendola.

La Corte suprema di cassazione con la sentenza n° 846 del 12 gennaio 2015 ha confermato la condanna per i due sicari, Alberto Amendola e Giuseppe Avolio, rispettivamente a 22 e 18 anni di reclusione mentre Perillo fu condannato all'ergastolo.

Il 23 settembre 1985 a Napoli fu ucciso a 26 anni il giornalista de Il Mattino Giancarlo Siani. 

Scrisse i suoi primi articoli per il mensile “Il Lavoro nel Sud”, testata dell’organizzazione sindacale Cisl e poi iniziò la sua collaborazione come corrispondente da Torre Annunziata per il quotidiano Il Mattino di Napoli.

Da Torre Annunziata principalmente si occupò di cronaca nera e dunque di camorra, studiando i rapporti e le gerarchie all’interno delle famiglie camorristiche che controllavano Torre Annunziata e i suoi dintorni.

In questo periodo iniziò anche a collaborare con l’Osservatorio sulla Camorra, diretto dal sociologo Amato Lamberti. Prima di altri ricostruì le dinamiche di camorra nel territorio vesuviano ed indicò Valentino Gionta come capo indiscusso nell’area di Torre. Contemporaneamente portò avanti un’inchiesta sulla manipolazione degli appalti pubblici. Fini così nel mirino della criminalità organizzata.

L’articolo che di fatto sancì la sua morte fu quella in cui Siani ipotizzava che l’arresto di Gionta, avvenuto a Marano, dove si nascondeva, fu compiuto grazie ad una soffiata dei Nuvoletta, alleati dei Valentini. Per il giornalista quella soffiata fu il prezzo che i Nuvoletta dovettero pagare per ripacificarsi con Bardellino con il quale erano nati dei sanguinosi contrasti.

Il clan maranese, succursale napoletana della fazione di Riina di Cosa Nostra non accettò l’affronto di e essere chiamati “infami” e fu decretato l’assassinio di Siani.

Il 23 settembre 1985, appena giunto sotto casa sua con la sua macchina, la Citroën Méhari verde, Giancarlo Siani venne ucciso: l’agguato avvenne intorno alle 20.50 circa a pochi metri da casa sua, in Piazza Leonardo. Per chiarire i motivi che hanno determinato il decesso e identificare mandanti ed esecutori furono necessari 12 anni e le rivelazioni di tre pentiti.

A bordo della sua Méhari verde Giancarlo correva in redazione a Torre Annunziata sulle scene dei delitti, in commissariato, in tribunale, dal sindaco. Si affannava per portare a galla la verità.

Quell’auto era un po’ la metafora della sua vita giornalistica: andare avanti spediti senza tutele e protezioni, andare avanti, anche sfrontati, affrontando pericoli ed intemperie pur di arrivare alla meta. Non è un veicolo da guerra la Méhari ma un’auto da tempo libero.

Cosi come Giancarlo non era un eroe, lo è diventato suo malgrado, ma un ragazzo che aveva deciso di portare avanti con serietà d determinazione il proprio lavoro. Un giornalista “giornalista” e non un giornalista impiegato, come spiegava lui.

Questo è il mio omaggio a Giancarlo Siani, alla legalità, alla lotta alle mafie. Se da soli siamo una Méhari che possono fermare, insieme diventiamo una carovana. Arrivare a destinazione sarà più facile.

Il 24 settembre 2004 a Locri (RC) moriva Massimiliano Carbone, imprenditore di 38 anni.

Venne ucciso da un cecchino con un proiettile calibro 12 mentre tornava da una partita di calcetto con gli amici. Ricoverato in ospedale, morì dopo 7 giorni di agonia. Le indagini partirono molto dopo il delitto e sebbene la famiglia avesse cercato di contribuire in ogni modo possibile, ci sono voluti ben due anni prima che un nome finisse sul registro degli indagati ma quell’unico indagato è stato prosciolto e il caso sull’omicidio è stato archiviato nell’ottobre del 2007.

Il 25 settembre 1979 a Palermo furono uccisi il giudice Cesare Terranova e il maresciallo Lenin Mancuso, di 58 e 57 anni.

Il giudice Cesare Terranova e il maresciallo di Pubblica Sicurezza Lenin Mancuso, al quale era stata affidata la protezione del giudice, furono uccisi da alcuni killer che aprirono il fuoco contro l’auto su cui si trovavano. Il magistrato era già stato procuratore dell’accusa al processo contro la mafia corleonese tenutosi nel 1969 a Bari, ove però quasi tutti gli imputati furono assolti.

Verso le ore 8.30 del mattino, una Fiat 131 di scorta arrivò sotto casa del giudice a Palermo per portarlo a lavoro. Cesare Terranova si mise alla guida della vettura mentre accanto a lui sedeva il maresciallo di Pubblica Sicurezza Lenin Mancuso, l’unico uomo della sua scorta che lo seguiva da vent’anni come un angelo custode. L’auto imboccò una strada secondaria trovandola inaspettatamente chiusa da una transenna di lavori in corso. Il giudice Terranova non fece in tempo a intuire il pericolo: in quell’istante da un angolo sbucarono alcuni killer che aprirono ripetutamente il fuoco. Cesare Terranova istintivamente ingranò la retromarcia nel disperato tentativo di sottrarsi a quella tempesta di piombo mentre il maresciallo Mancuso, in un estremo tentativo di reazione, impugnò la Beretta d’ordinanza per cercare di sparare contro i sicari ma entrambi furono raggiunti dai proiettili in varie parti del corpo. Al giudice Terranova, 58 anni, i killer riservarono anche il colpo di grazia, sparandogli a bruciapelo alla nuca. La sua fedele guardia del corpo, Lenin Mancuso, morì dopo alcune ore di agonia in ospedale.

Il 29 settembre del 2003 a VillaLiterno (CE) vene ucciso il 24enne Giuseppe Rovescio.

Fu ucciso per uno scambio di persona in Via Chiesa da due sicari appartenenti al clan Tavoletta-Cantiello, gruppo nemico dei Bidognetti. Giuseppe venne scambiato dai sicari per un rivale a causa dei suoi capelli lunghi. Nell’agguato rimase ferito anche il fratello Simeone.

Nel 2008 vennero arrestati i responsabili della sparatoria: si tratta di Nicola Fiore e Massimo Ucciero. Il 16 gennaio 2012 Fiore e Ucciero sono stati condannati all’ergastolo come esecutori materiali del delitto.

Il ricordo di Giuseppe non si è mai affievolito nella città di Villa Literno. Il giovane operaio faceva parte del comitato organizzatore del Carnevale liternese e proprio durante questo periodo ricorre, annualmente, il “Memorial Giuseppe Rovescio”, torneo di calcio dedicato a bambini e ragazzi.

Il 30 settembre del 1978 a Napoli venne aggredito mortalmente il 20enne ambientalista Claudio Miccoli.

Morì in seguito all’aggressione avvenuta ad opera di picchiatori fascisti in Piazza Sannazaro a Napoli. La sera del 30 settembre 1978 Claudio Miccoli, consigliere regionale del WWF campano, si ritrovò ad assistere all’aggressione di un giovane. Miccoli cercò da solo di dirigersi verso un gruppo di quattro neofascisti cercando di riportarli alla ragione. Tuttavia egli fu immediatamente raggiunto da un colpo di bastone alla testa scagliato dal militante di estrema destra Ernesto Nonno, il quale poi infierì sul corpo di Miccoli caduto a terra esanime fracassandogli il cranio. La sera stessa Claudio Miccoli, trasportato in ospedale, entrò in coma. Morì il 6 ottobre 1978, dopo aver espresso la volontà di donare i propri organi.

 

 

Francesco Emilio Borrelli

 

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