Sulle proposte di eliminare la filosofia
Per quanto concerne l’università, ha conservato un ruolo centrale nelle facoltà di Lettere e Filosofia (definizione ancora una volta gentiliana), poi sostituite dalle Scuole di scienze umanistiche. Tale ruolo era notevole anche a Magistero, facoltà poi trasformata in Scienze della Formazione. Più circoscritto a Giurisprudenza e Scienze Politiche dove s’insegna quasi esclusivamente Filosofia del diritto e Filosofia politica. La notizia che allarma gli addetti ai lavori – ma non solo loro - è che le materie filosofiche sono uscite dalle tabelle disciplinari dei corsi di studio di Pedagogia e Scienze dell’educazione (dove prima erano presenti). Ma non è finita. Si parla apertamente di un ciclo abbreviato di quattro anni nei licei invece degli attuali cinque, per consentire agli studenti di iscriversi prima all’università. In tal caso si passerebbe a soli due anni di filosofia nella scuola secondaria invece di tre. Occorre rilevare che in molte nazioni europee (soprattutto del Nord), negli Stati Uniti, in Canada e Australia la filosofia non viene insegnata a scuola: chi vuole studiarla deve iniziare dall’università. Adottano invece il nostro modello – pur con meno ore “filosofiche” a disposizione – Francia, Spagna e i Paesi latini in genere. Curioso notare che, dove non c’è (per esempio nel mondo anglosassone), si registra una forte spinta a introdurla già a livello di scuola secondaria, mentre da noi la tendenza è esattamente opposta. Non bisogna poi dimenticare che il tentativo di eliminare la filosofia fu compiuto anni fa in Spagna dal governo socialista di Gonzales e andò in porto solo parzialmente.
Si tratta di un attacco all’umanesimo come denunciano molti intellettuali italiani e stranieri? Certamente, e pure questa non è una novità. Gran parte del mondo politico, in Italia, non perde occasione per attaccare le materie umanistiche in modo a volte violento, invitando apertamente i giovani a seguire percorsi scientifici e tecnologici, con una particolare predilezione per l’ingegneria. Il motivo va cercato nella grave crisi del mercato del lavoro, che si spera di superare per l’appunto dando una preminenza assoluta alla formazione scientifica e tecnica. I conti tornerebbero se davvero i laureati scientifici trovassero occupazione con facilità. Era vero forse tempo fa, ora non più. Le difficoltà riguardano ogni settore, e ciò significa, per esempio, che neoingegneri e neomedici incontrano problemi al pari degli altri. Il discorso, però, ha una valenza soprattutto culturale. Non si tratta tanto di difendere una categoria quanto, piuttosto, di offrire alle nuove generazioni qualche spazio per coltivare il pensiero critico, l’abitudine a guardare la realtà da tutti i punti di vista, e non da uno solo. Altrimenti ci ritroveremo con laureati che sembrano polli di batteria, validi solo nella misura in cui risultano funzionali al mondo della produzione. Sembra, il mio, un discorso quasi neomarxista, e non nego che le assonanze ci siano. Horkheimer, Adorno e Marcuse non dicevano cose tanto diverse. Basta tuttavia leggere qualche pagina di Popper, il più grande filosofo della scienza contemporaneo, per comprendere che scienza, tecnica e filosofia non sono affatto in contraddizione come affermano con sicumera degna di miglior causa tanti nostri politici. La prova? Negli Stati Uniti alcuni dei migliori dipartimenti di filosofia si trovano nei politecnici, e non pare che tale fatto scandalizzi. L’esempio classico è il celebre MIT (Massachusetts Institute of Technology) dove si trovano la “School of Humanities” e il “Department of Philosophy”. Forse gli americani, meno provinciali di noi (anche se spesso si dice il contrario) hanno capito che scienza e tecnica senza umanesimo non hanno prospettive.
Michele Marsonet |
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