Giovanni Battista Draghi detto Pergolesi
L’appellativo di Pergolesi, deriva dalla città di origine del bisnonno di Giovanni Battista e al suo trasferimento in un paese in provincia di Ancona. Francesco Draghi, infatti, si trasferì, intorno al 1635, da Pergola, piccolo comune della provincia di Pesaro-Urbino a Jesi. In effetti il cognome Draghi col tempo divenne desueto per indicare la sua famiglia, giacché il compositore ormai firmava le sue opere come Giovanni Battista Pergolesi. Il cognome, o nome di famiglia, ha la funzione di distinguere un individuo indicando la sua appartenenza ad un’articolazione precisa della collettività e deriva da un processo di fissazione storica che richiede comunque del tempo ed ha dei legami con la vita della famiglia a cui è designato, e per tale motivo è indicato ad una determinata famiglia piuttosto che ad un’altra. Il matrimonio dei genitori, Francesco Andrea (perito agronomo) e Anna Vittoria Giorgi (di famiglia agiata), era nato sotto buoni auspici, fino a quando la morte portò via tre dei loro quattro figli. Il terzogenito, Giovanni Battista, chiamato anche Gianbattista, riuscì a salvarsi seppure con difficoltà e combatté sempre con una salute cagionevole per tutta la sua breve vita.
Ma perché parlare di un artista marchigiano in un contesto partenopeo? Il compositore in questione si trasferì per completare e approfondire la sua formazione, da Jesi, dove era nato il 04/01/1710, a Napoli. Nel suo paese natio godette la protezione della piccola nobiltà e pertanto riuscì a ricevere un’istruzione preparatoria e preliminare da F. Mondini (direttore della cappella comunale di Jesi) suo insegnante di violino e F. Santi (direttore della cappella del Duomo) che lo avviò al contrappunto. Sarebbe stato l’interesse ed il sostegno del marchese Cardolo Maria Pianetti-Manelli a sollecitare l’allora ragazzo a trasferirsi nella capitale partenopea per proseguire gli studi. Studiò al conservatorio dei Poveri di Gesù Cristo ed entrò nella classe di violino di D. De Matteis e nella classe di composizione diretta da G. Greco e da F. Durante poi. Compare nei registri del conservatorio dall’anno 1725 col nome di Jesi; della sua permanenza all’interno dell’istituto si sa pochissimo, fin quando, nel 1730 scompare addirittura dagli elenchi. La mancanza di indizi circa una permanenza nell’istituto ha lasciato pensare che il Nostro fosse stato coinvolto in una sommossa datata 9-10 dicembre 1730 o che comunque fosse uno dei tanti alunni espulsi dallo stesso conservatorio, vittima dei legali dell’epoca che dovevano a tutti i costi trovare qualche capro espiatorio che avesse fomentato tale ribellione. La rivolta, infatti, fu causata dal malcontento degli alunni che venivano sfruttati in molte cerimonie pubbliche e che non godevano di un trattamento apprezzabile. Il Conservatorio dei Poveri di Gesù Cristo, benché sotto gestione ecclesiastica, e quindi in un quadro di severa disciplina, non riuscì a reggere l’urto. In particolar modo gli anni 1728-30 furono per Napoli degli anni di carestia e di povertà e la successiva inchiesta condotta dal Tribunale Arcivescovile volta ad accertare le cause dell’accaduto mirò invece ad occultare la responsabilità del personale canonico. Nonostante ciò nel 1728 Pergolesi ebbe l’incarico di primo violino del suo conservatorio di studi, titolo comunemente conosciuto all’epoca come “capo paranza”, termine ancora utilizzato oggi nella musica popolare campana. Con il termine Paranza infatti, nei gruppi musicali folkloristici napoletani si intende un gruppo di persone disposte a semicerchio con al centro il leader del gruppo che si esibisce quindi ‘mparanza, cioè tutti quanti insieme; così come nell’orchestra dove ognuno apporta il suo contributo pur svolgendo ciascuno compiti differenti. Con la Conversione di S. Guglielmo duca d’Aquitania, rappresentata durante l’estate del ’31 nel chiostro di S. Agnello Maggiore, Pergolesi venne nominato maestro di cappella del principe di Stigliano, Ferdinando Colonna, fino al 1734. Dal 1731 scrisse per il teatro San Bartolomeo, teatro più rinomato della città e due anni dopo ebbe l’incarico di vicemaestro presso la cappella Reale. Nel settembre del 1732 al teatro dei Fiorentini andò in scena Lo frate ‘nnamorato, commedia parzialmente in dialetto napoletano su testo scritto da uno dei massimi librettisti dell’epoca, Gennaroantonio Federico. L’opera Adriano in Siria con intermezzo buffo Livietta e Tracollo fu rappresentata il 25 ottobre 1734, compleanno di “Sua Maestà Cattolica, la Regina delle Spagne”. Con la nascita del regno delle due Sicilie, però, Pergolesi, perse di appoggio politico visto che il principe di Stigliano, suo protettore, era decisamente filoasburgico. Inoltre, l’opera scritta su libretto di Metastasio costituiva un azzardo: esaltava, infatti, una concezione di monarca più vicina alla concezione asburgica che a quella borbonica e la voce del protagonista, riservata come d’uso nelle opere serie ad una voce di eunuco, non riscontrava simpatia alcuna al nuovo sovrano che non preferiva i castrati. L’opera in tali condizioni e presupposti non riscosse molto successo ed il Re Carlo di Borbone ed il suo entourage intimidirono il pubblico e la critica, tale che il nome di Pergolesi venne escluso dalla “nota” dei migliori musicisti del regno e da ogni incarico ufficiale. Isolato a Napoli, tentò poi fortuna a Roma con l’opera l’Olimpiade (1735) sempre su libretto di Metastasio: questa volta il fallimento fu completo e per il musicista non rimase altro che un mesto ritorno a Napoli. Il suo primo melodramma fu Salustia (1732), sua ultima opera, invece, la commedia Flaminio (1735) che ebbe un clamoroso successo. Scomparve a soli 26 anni, il 16 marzo 1736 e venne sepolto nella fossa comune della cattedrale di Pozzuoli dove soggiornava con la speranza di un giovamento alla salute dovuto al clima migliore; la tubercolosi, che lo portò alla morte, gli impedì tra l’altro il normale sviluppo della gamba sinistra, rendendolo claudicante. La sua fama è legata soprattutto all’intermezzo comico La serva padrona e allo Stabat Mater, brano religioso, malinconico e intriso di conturbante misticismo che ispirò vari artisti, composto sul celebre testo in latino di Jacopone da Todi. La serva padrona, rappresentata al teatro S. Bartolomeo il 28 agosto 1733 come intermezzo dell’opera Il prigionier superbo segnò l’affermazione di un nuovo stile operistico buffo, con un linguaggio popolaresco e spontaneo e con una vena brillante e realistica. In Francia questo intermezzo, ormai divenuto opera a sé, suscitò grande scalpore facendo divampare nel 1752 la polemica tra nazionalisti francesi, fautori della tragédie lyrique e sostenitori dell’opera napoletana. Non si conosce molto della vita di Pergolesi e il mistero ha alimentato la leggenda; godette di riconoscimenti quali pochi contemporanei ebbero ed il suo stile venne imitato in ogni modo, fino a giungere col tempo ad un vero e proprio mercato di falsi, fenomeno che mai sino ad allora si era verificato per la musica (al contrario delle arti figurative) e che ancora oggi pone seri problemi di catalogazione ai musicologi. Prese addirittura corpo la “leggenda del Pergolesi” intrisa di delusioni amorose e artistiche che arrivò a pronunciarsi addirittura sulle cause della morte del compositore ipotizzando congetture più attraenti di un decesso per tisi.
Caterina Orrico
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