Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Vittime innocenti. Luglio 1919-2019

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Il 1° luglio del 1982 a Giugliano (NA) venne ucciso l’assessore comunale Giuliano Pennacchio, 45 anni Era segretario di una scuola media, assessore al personale del comune di Giugliano e svolgeva un’importante attività politica cercando tra l’altro di rendere più efficaci ed efficienti i servizi comunali. Venne ucciso mentre tornava a casa a piedi: arrivarono due killer, si avvicinarono a Pennacchio e spararono tre colpi di pistola.

Secondo le indagini il Pennacchio si era probabilmente intromesso in faccende illecite che gli costarono la vita. In quel periodo era sindaco del comune Giuliano Granata, ex segretario particolare di Ciro Cirillo, sequestrato dalle Brigate Rosse nel 1981 per 89 giorni. Il sequestro fu al centro di durissime polemiche, infatti, la Democrazia Cristiana optò per la trattativa con i terroristi. La sua liberazione avvenne tramite intrecci mai chiariti del tutto, che videro probabilmente anche la mediazione di Raffaele Cutolo.

Il 2 luglio 1982, a Marano di Napoli, il Carabiniere Salvatore Nuvoletta, nato nel 1962, fu vilmente ucciso, mentre, libero dal servizio, era nel suo paese d'origine con un bimbo di nove anni, che riuscì a scansare dalla traiettoria dei proiettili. Salvatore, che aveva appena compiuto 20 anni, prestava servizio alla Stazione di Casal di Principe (CE).

Come raccontarono i pentiti, il Carabiniere Nuvoletta fu scelto per colpire l'azione dell'Arma ed era l'obiettivo più facile e meno protetto. Prima di morire, confessò a sua mamma «So di dover morire, me lo hanno detto, ma non ho paura, io sono un Carabiniere!»

 

Il Carabiniere Nuvoletta è stato decorato di Medaglia d'Oro al Merito Civile, con la seguente motivazione: «In servizio presso una Stazione dei Carabinieri operante in territorio caratterizzato da elevato indice di criminalità, veniva proditoriamente ucciso, innanzi all'esercizio commerciale di un familiare, da alcuni colpi di arma da fuoco esplosigli contro da componenti di agguerrita organizzazione camorristica, quale vile ritorsione all'attività di contrasto svolta dall'Arma. Fulgido esempio di attaccamento al dovere, coraggio e eccezionale abnegazione, posta al servizio della collettività».

Il 4 luglio del 1986 a Torre Annunziata (NA) venne ucciso l’imprenditore edile di 35 anni Luigi Staiano.

Fu il primo ad opporsi alla camorra ed alle estorsioni, sporgendo denuncia alla Questura e per questo fu ucciso. Luigi Staiano venne assassinato da due persone in sella a una moto mentre andava dal fruttivendolo. L’imprenditore edile ebbe il coraggio di denunciare le estorsioni sporgendo denuncia in Questura. Un gesto che fu visto come un affronto dalla camorra, che rispose spargendo sangue.

Il 6 luglio del 1919 a Resuttano (CL) fu ucciso dalla mafia il parroco 46enne Costantino Stella. Fu un arciprete, parroco di Resuttano, impegnato in diverse attività tra le quali il miglioramento delle condizioni delle campagne e degli abitanti della zona.

Fu definito uno dei cosiddetti preti sociali per il suo impegno al miglioramento delle condizioni delle campagne e degli abitanti del suo paese. Tra le sue attività di rilievo si ricordano: la costruzione, durante il primo anno da arciprete, del Monte Frumentario, per la distribuzione in anticipo dei concimi ai contadini. L'anno successivo fondò la cassa rurale per l'organizzazione delle affittanze collettive dal 1906 in poi e la Cooperativa di consumo per l'acquisto a prezzi bassi dei viveri per le famiglie dei soci.

Molto amato dal popolo, e forse per questo mal visto da chi si vedeva danneggiato dalla sua attività per gli umili e i bisognosi, la sera del 28 giugno 1919 rimase ucciso dalla mafia, venendo accoltellato davanti a casa sua. Ricoverato d'urgenza, morì dopo 8 giorni di agonia. I suoi assassini non furono mai scoperti così come i mandanti.

Il 7 luglio del 1986 a Pianura (NA) fu ucciso Vittorio Esposito, agente scelto di polizia di 32 anni. Si trovava con la famiglia nella propria abitazione di Pianura, quando udì esplodere in strada alcuni colpi di arma da fuoco. Impugnata pertanto l’arma di servizio, dopo aver messo al riparo i propri familiari, uscì sul balcone per capire cosa stesse accadendo, ma appena sulla soglia venne raggiunto alla fronte da un proiettile vagante, esploso durante un conflitto a fuoco tra alcuni camorristi, che lo uccise sul colpo.

L’8 luglio del 1985 a Reggio Calabria morì il piccolo Gianluca Canonico, 10 anni, ucciso da una pallottola vagante. La sera del 3 luglio stava giocando con altri bambini in strada nel rione Pescatori a Reggio Calabria, approfittando dei giorni di festa. Uno scontro tra due bande di ragazzi e uno dei proiettili colpì Gianluca alla testa. Per lui non ci fu niente da fare, morì l’8 luglio con l’unica colpa di essersi fermato a giocare in strada.

Una rissa frivola, superficiale, nata per un parcheggio nel mezzo della carreggiata e forse per un corteggiamento di troppo trasformatasi in sparatoria e conclusasi con un’immane tragedia. Un solo colpo di una calibro 6,35 ha interrotto i desideri e le attese di Gianluca, che da grande sperava di diventare un pilota dell’Aeronautica Militare.

Il 9 luglio del 2009 a Poggiomarino venne ammazzato Nicola Nappo, 23 anni, vittima innocente della criminalità.

Era in compagnia di un’amica in piazza a Poggiomarino e fu ucciso per errore perché fu scambiato per l’obiettivo dei suoi assassini.

I due killer irruppero a sconvolgere per sempre la vita della famiglia Nappo. Avevano barbe finte a camuffare il volto e in mano un calibro 9. Senza dire nulla, con una violenza inaudita, esplosero sei o sette colpi di pistola all’indirizzo di Nicola. I proiettili lo raggiunsero al torace e al volto. Uno, di rimbalzo, colpì la ragazza alla gamba. Fu un inferno di fuoco, che non lasciò scampo a questo ragazzo perbene e innocente, che morì sul colpo. Lei, invece, sotto choc e ancora incredula, fu portata di corsa all’ospedale “Mauro Scarlato” di Scafati, dove le fu estratto dalla gamba il proiettile. Si salvò. La vita di Nicola invece si spense su quella panchina, quella maledetta sera di giovedì 9 luglio 2009.

Il 10 luglio del 1991 a Reggio Calabria venne ucciso il barone Antonino Cordopatri, 53 anni, vittima innocente della ndrangheta.

Era un barone calabrese originario di Oppido Mamertina, luogo dove era proprietario di molti appezzamenti di terra coltivati principalmente ad agrumi e ulivi. Proprio a causa di tali possedimenti entrò nel mirino della ‘ndrina che imponeva l’affitto o l’acquisto, ovviamente a prezzi irrisori e dietro minacce e intimidazioni, di ettari di fondi per esercitare il controllo sul territorio e lucrare profitti. La famiglia Cordopatri declinò sempre le “offerte” ricevute dalla ‘ndrina, difendendo il proprio diritto di proprietà.

La mattina di quel 10 luglio Cordopatri, mentre si trovava in macchina di fronte alla sua abitazione, fu raggiunto dal suo carnefice, il quale estrasse la pistola e sparò. La sorella Teresa, che intanto stava raggiungendo il fratello, riuscì a salvarsi: l’arma dell’assassino si inceppò e la donna ebbe il tempo di fuggire.

Come autore materiale dell'omicidio fu arrestato Salvatore La Rosa di Tropea che venne poi processato e condannato in primo grado all'ergastolo, in secondo grado a 25 anni di reclusione, sentenza confermata dalla Corte di cassazione nel 1994; come mandante dell'assassino invece fu condannato definitivamente Francesco Mammoliti ('ndrina Mammoliti). Nel processo era coinvolto anche il boss Saverio Mammoliti ma i giudici lo hanno sempre assolto.

L’11 luglio del 1990 a Mondragone (CE) venne ucciso Antonio Nugnes, 60 anni. Vittima innocente della camorra.

Assassinato perché non era disposto a cedere i suoi poderi. Fu attirato in un tranello mortale: mentre la vittima si trovava nella sua azienda agricola, un uomo lo andò a prendere e lo portò in una masseria nella zona di Falciano. Qui un sicario esplose tre colpi alla tempia ed un ultimo per mano del boss che volle essere certo della morte di Nugnes. Il cadavere venne caricato su un’auto e portato nella zona dove si trovava un pozzo profondo oltre 40 metri nel quale venne gettato. A distanza di 15 anni il boss pentito Augusto La Torre ha svelato il macabro mistero.

Il 12 luglio del 2001 a Bari venne ucciso il 16enne Michele Fazio, vittima innocente di mafia. Fu ammazzato per errore da un commando che voleva colpire un boss. L’unica colpa del ragazzo era stata quella di essere passato, con delle pizze da portare alla famiglia, nel vicolo dell’agguato. Un proiettile vagante gli perforò il cranio.

«Abbiamo ucciso un bravo ragazzo», dirà uno dei killer, che era stato compagno di scuola del giovane Michele. Un bravo ragazzo, perché Michele così era conosciuto.

L’omicidio sarebbe avvenuto per vendetta. Michele sarebbe stato confuso con uno degli Strisciuglio. Qualche settimana prima, infatti, un altro fatto di sangue aveva segnato il quartiere: proprio per mano del clan Strisciuglio era stato ucciso un rivale dei Capriati, che avrebbero voluto subito dare una risposta.

Una lotta fra clan, per il controllo del territorio, che non conosce limiti, che non si ferma davanti a nulla e strappa la vita a giovani innocenti.

Le prime condanne sono arrivate nel 2005: quindici anni e otto mesi per Francesco Annoscia, diciassette per Raffaele Capriati. Nel 2016, infine, è stato condannato, a sette anni e sei mesi, anche il ragazzo che guidava lo scooter, Michele Portoghese.

Il 14 luglio del 2000 a Brindisi fu ucciso il Maresciallo dei Carabinieri Antonio Dimitri, 33 anni. Originario di Castellammare di Stabia, morì a Francavilla Fontana nell’adempimento delle sue funzioni. Fu insignito della Medaglia d'Oro al Valor Militare con la seguente motivazione: «Con ferma determinazione ed insigne coraggio, affrontava due malviventi in flagrante rapina in un istituto di credito che tentavano, armi in pugno, di guadagnare la fuga facendosi scudo di due ostaggi. Rinunciava all'uso dell'arma in dotazione per non mettere a repentaglio la vita degli ostaggi e intimava la resa ai malfattori, ma veniva raggiunto mortalmente dai colpi proditoriamente esplosi da un terzo rapinatore appostato all'esterno dell'istituto. Chiaro esempio di ardimento ed elette virtù militari, spinti fino all'estremo sacrificio. Francavilla Fontana (BR), 14 luglio 2000.»

Il 15 luglio del 1982, con l'agente Pasquale Paola, Antonio Ammaturo venne ucciso dalle Brigate Rosse sotto casa sua in Piazza Nicola Amore a Napoli.

A massacrare Antonio Ammaturo un commando di 4 persone appartenenti alla Colonna Napoletana delle Br composto da Vincenzo Stoccoro, Emilio Manna, Stefano Scarabello e Vittorio Bolognesi che, una volta arrestati, sono stati poi condannati in via definitiva dalla Cassazione. Insieme a loro fu poi condannata all'ergastolo Marina Sarnelli, attualmente libera.

I mandanti veri dell'omicidio non sono mai stati identificati con chiarezza.

Il 16 luglio del 2000 a Marano venne ucciso Gaetano De Rosa, 36 anni, perché aveva cercato di difendere la propria auto.

È da poco passata la mezzanotte di sabato 16 luglio 2000 e Gaetano De Rosa, maître dell’Holiday Inn di Pineta Mare sul litorale casertano, ha appena finito il suo turno di lavoro. Lungo la strada di casa, l’auto di Gaetano De Rosa viene affiancata da due criminali in sella ad uno scooter. I rapinatori volevano con tutta probabilità impossessarsi dell’auto, ma Gaetano trova il coraggio di ribellarsi, di opporsi a quel sopruso. È a questo punto che diversi colpi vengono esplosi, alcuni raggiungeranno Gaetano al torace e all’addome. La sorte decide che a soccorrere, inutilmente, Gaetano De Rosa sia il fratello, Antonio. I due vivevano nello stesso stabile e quella sera Antonio seguiva il fratello con la macchina. Ai carabinieri l’uomo ha detto di essersi fermato lungo il tragitto per parlare con un conoscente, di aver poi sentito gli spari e visto una persona riversa sull’asfalto: «Sono corso ad aiutarla, mi sono avvicinato e solo allora mi sono accorto che era lui, era mio fratello». Via, verso l’ospedale, ma neppure un intervento chirurgico ha potuto impedire il peggio. (Fonte: Fondazione Pol.i.s.)

Il 18 luglio del 1990 a San Leone (AG) venne ucciso Giuseppe Tragna, 49 anni. Vittima innocente di mafia.

Era il direttore dell’Agenzia 2 della Banca di Agrigento. I killer compirono il delitto di fronte alla villetta dell’uomo, il quale stava posteggiando l’auto. L’omicidio avvenne in pochi secondi tanto che i familiari non avvertirono nemmeno i colpi di pistola.

Pare che il bancario, ritenuto un incorruttibile funzionario della Sant’Angelo, avesse scoperto un traffico di denaro illecito da parte di alcuni esponenti di Cosa Nostra.

Solo nel 2021 il Ministero della Giustizia ha riconosciuto che quel delitto fu commesso dalla criminalità organizzata, dopo anni di ricorsi al Tar prima e al Cga poi. Per trent'anni, invece, la sua memoria è stata infamata e vilipesa con accuse che avevano lo scopo, all'epoca, di sviare l'effettiva dinamica dei fatti.

Il 19 luglio del 1992 avvenne la strage di via D’Amelio.

Quella domenica rappresenta per il giudice Paolo Borsellino la prima giornata di pausa dopo settimane intese di lavoro frenetico. Lavora giorno e notte Borsellino, aveva fretta, tanta fretta.

Aveva ripreso in mano il fascicolo sulla morte di Giovanni Falcone, avvenuta il precedente 23 maggio, ed indaga su degli appalti a Palermo, dove aveva deciso di tornare.

Aveva fretta e lo diceva a tutti, «Ho fretta, devo fare presto, sempre se mi lasciano arrivare». Oramai era consapevole, non diceva «se mi ammazzeranno» ma «quando mi ammazzeranno».

Nonostante l'urgenza di portare a termine il lavoro, però, Borsellino decide che quel pomeriggio di una domenica del 1992 deve andare a trovare la mamma e così il corteo delle auto della sua scorta si infila in via D'Amelio, dove si trova l'abitazione occupata dalla mamma e dalla sorella del giudice.

Gli agenti della scorta sono preoccupati, via D'Amelio è stretta e le auto devono proseguire in fila indiana, se qualcosa andasse storto non ci sarebbe lo spazio ed il tempo per effettuare un'inversione di marcia.

Non succede niente, però, non vi è nessuno ad attenderli armato, così il giudice, accompagnato da 2 uomini, scende dall'auto e si avvicina al cancello della casa di sua madre. Suona il citofono... e poi più nulla.

Quella FIAT 126 imbottita di tritolo segna la fine di un'epoca e delle speranze. Oppure no, forse quell'autobomba ha risvegliato le coscienze. Forse nessuna delle due cose, forse entrambe.

È certo però che quella 126, così come la Fiat Croma sull'A29 nei pressi di Capaci, continua ad esplodere e a fare a brandelli carne ed anima ogni qualvolta che la mano dello Stato stringe quella di un boss facendo affari, esplode ogni volta voltiamo la testa dall’altra parte, continua ad uccidere tutte quelle volte che mafia e camorra vincono, nelle strade e nelle nostre menti.

Sembra che da quel 19 luglio 1992 il tempo si sia fermato, forse, è arrivato il momento di far correre le lancette in avanti.

Il 20 luglio del 1996 a San Giorgio a Cremano venne ucciso Davide Sannino, 19 anni.

Era il giorno del suo diploma. Il ventitreenne Giorgio Reggio gli intimò con la pistola di cedere il proprio scooter: Davide rimase calmo, consegnò le chiavi al delinquente ed ebbe il coraggio di guardarlo negli occhi. Davide è stato ucciso soltanto perché osò guardare con senso di sfida il rapinatore. Lo confessò proprio l’assassino: «Mi ha chiesto che diritto avessimo di comportarci così e in quel suo sguardo fiero, di un uomo che in quel momento non aveva paura di me nonostante fossi armato, mi ha fatto perdere la testa, così ho sparato».

Il 21 luglio 1991 nel quartiere napoletano di Soccavo morì il piccolo Fabio De Pandi

11 anni. Vittima innocente della criminalità.

Quel giorno d’estate il giovane era andato insieme alla sua famiglia a trovare degli amici. Durante il ritorno, proprio mentre saliva a bordo dell’auto, fu colpito alla schiena da un proiettile vagante. Prima di perdere i sensi, il piccolo ebbe solo il tempo di comunicare a suo padre un forte dolore al braccio. Fabio venne immediatamente accompagnato all’ospedale più vicino ma fu tutto inutile perché perse la vita durante il trasporto: la pallottola, dopo essere entrata all’interno dell’arto, penetrò il torace lesionando gli organi vitali.

Il 22 luglio del 1978° Gioia Tauro (Rc) avvenne la Strage del treno DD Freccia del Sud. Un attentato terroristico di matrice neofascista che causò 6 morti e 77 feriti.

Morirono Cacicia Rita, 35 anni, di Bagheria, insegnante presso una struttura per sordomuti di Palermo; Fassari Rosa, 68 anni, di Catania, casalinga; Gangemi Andrea, 40 anni, di Napoli, funzionario di Banca; Mazzocchio Nicoletta, 70 anni, di Casteltermini, casalinga; Palumbo Letizia Concetta, 48 anni, di Casteltermini, sarta; Vassallo Adriana Maria, 49 anni, insegnante. Tutti persero la vita in questa strage ferroviaria a causa di una bomba esplosa alle 17,08 che fece deragliare la Freccia del Sud.

Il treno arrivava dalla Sicilia. Nelle vicinanze della stazione di Gioia Tauro, il macchinista e l'assistente macchinista percepirono improvvisamente un violento sobbalzo della locomotiva, segnalando "sobbalzi e strappi" inaspettati al mezzo di trazione.

In risposta a questa situazione, è stato attivato il freno rapido. Il treno iniziò a rallentare, ma durante il processo di decelerazione le forze meccaniche fecero deragliare il carrello della sesta carrozza dai binari. Successivamente, anche le altre carrozze deragliarono durante la frenata protrattasi per circa cinquecento metri, provocando la rottura di alcuni ganci di trazione, e a sua volta alla divisione del treno in tre sezioni.

Il 23 luglio del 2009 venne uccisa a Napoli Fiorinda Di Marino, 35 anni. Vittima di femminicidio.

Dopo una violenta lite, Renato Valboa, 43 anni, uccise la compagna Fiorinda Di Marino a colpi d’ascia e coltello. Già nel novembre 2008 la donna aveva denunciato l’uomo per aver subito lesioni gravissime in seguito ad una aggressione fuori la scuola elementare di Marano, dove lei insegnava. Valboa è stato condannato in primo grado ad una pena di 16 anni, tuttavia nell’ottobre 2012 è stata emanata sentenza di non perseguibilità dell’imputato per incapacità di intendere e volere. Valboa sconta attualmente una detenzione di 10 anni in una struttura psichiatrica.

Il 24 luglio del 1991 a Sessa Aurunca (CE) venne ucciso Alberto Varone, commerciante di 49 anni. Vittima innocente di camorra.

Alberto era un commerciante onesto che non si piegò mai alle minacce e ai ricatti dei camorristi del clan Esposito, i quali dominavano la zona dalla fine degli anni ottanta. Varone manifestò apertamente la sua opposizione ai malavitosi e ciò gli costò la vita.

Mentre guidava lungo la Via Appia, fu raggiunto da un commando di malviventi che gli sbarrò la strada e aprì il fuoco: l’uomo venne colpito in faccia ma non morì subito ed ebbe il tempo di arrivare all’ospedale e comunicare alla moglie il nome dei suoi carnefici. Giancarlo, il figlio della vittima, decise di riprendere il lavoro, alzarsi di notte e distribuire i giornali. Ricominciarono le minacce e le ritorsioni del clan Esposito. La madre, grazie anche al conforto e all’aiuto del vescovo Nogaro, superò i suoi timori e denunciò gli assassini di suo marito. Le minacce diventarono più pressanti.

La famiglia Varone, quindi, fu inserita all’interno del programma di protezione. Da allora non si ebbero più notizie sui suoi membri.

Il 25 luglio del 2019 a Roma venne ucciso il vice brigadiere Mario Cerciello Rega, 35 anni.

Fu ucciso la notte tra il 25 e il 26 luglio 2019 da undici coltellate durante una colluttazione con due ragazzi americani.

I due giovani americani erano in vacanza in Italia, precisamente a Roma, alla ricerca del divertimento facile e di sostanze stupefacenti. Quella sera i due giovani si trovavano in zona Trastevere prima della mezzanotte e successivamente nel quartiere borghese di Prati, quando scattò la colluttazione con i due carabinieri in borghese, Andrea Varriale e Mario Cerciello Rega. Quest’ultimo perse la vita attinto da numerose coltellate.

Il 26 luglio del 1991 a Palermo vene ucciso il piccolo Andrea Savoca, 4 anni. Vittima innocente di mafia.

Quel giorno morì anche Giovanni, padre del piccolo e rapinatore di tir. L’omicidio dell’uomo fu ordinato dai capimafia Michelangelo La Barbera e Matteo Motisi: non potevano tollerare lo “sgarro” compiuto da Savoca nell’aver portato a termine delle rapine a tir che trasportavano merci di commercianti paganti il pizzo o di mafiosi. I carnefici non si fecero alcuno scrupolo: uccisero Giovanni mentre teneva in braccio il figlio. Così facendo posero fine anche alla vita di un bambino innocente.

Tutta la famiglia stava andando al mare. Il padre accostò con la macchina in via Pecori Giraldi, a Brancaccio. La madre scese dalla Volkswagen Passat ferma in doppia fila e salì, assieme alla sorella Emanuela di 8 anni, a casa della nonna per un saluto veloce. Andrea restò in macchina e saltò davanti sul sedile accanto al papà lasciando il fratellino Massimiliano da solo nel sedile posteriore. Arrivarono due uomini a bordo di una motocicletta con il volto coperto dai caschi. Fecero fuoco all’impazzata. Giuseppe Savoca morì sul colpo mentre Andrea si accasciò sulle sue ginocchia in una pozza di sangue. Morì in ospedale.

Il 27 luglio del 1993 avvenne a Milano la Strage di via Palestro, un attentato terroristico compiuto da Cosa Nostra.

L'esplosione di una autobomba in via Palestro, presso la Galleria d'arte Moderna e il Padiglione di arte contemporanea provocò l'uccisione di cinque persone: i vigili del fuoco Carlo La Catena, Sergio Pasotto e Stefano Picerno, l'agente di polizia municipale Alessandro Ferrari e Moussafir Driss, immigrato marocchino che dormiva su una panchina. Tale attentato viene inquadrato nella scia degli altri attentati del '92-'93 che provocarono la morte di 21 persone (tra cui i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino) e gravi danni al patrimonio artistico.

Nel 2014 la Direzione Distrettuale Antimafia di Milano emise un'ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Marcello Tutino per il reato di strage perché accusato da Gaspare Spatuzza di essere stato il "basista" dell'attentato d L'anno successivo, la Corte d'assise di Milano assolse Tutino perché le sole dichiarazioni di Spatuzza furono considerate insufficienti per una condanna; l'assoluzione venne confermata in appello e in Cassazione.

Il 28 luglio del 2000 a Torre del Greco venne ucciso 2000 Giuseppe Falanga, imprenditore di 47 anni, solo omonimo di uno dei boss di quel clan (Falanga) che lo condannò a morte. Vittima innocente di camorra.

Era un imprenditore edile vittima del racket.

Stava dirigendo i lavori di ristrutturazione di una palazzina all’interno di un parco nei pressi della litoranea, quando i killer spararono alla presenza di altri operai e degli abitanti per trasformare un’uccisione in una punizione esemplare. Infatti varcarono il cancello del parco a bordo di un ciclomotore e raggiunsero le impalcature. Giuseppe Falanga si accorse dei sicari troppo tardi per scappare. Alcuni giorni dopo, le indagini portano al fermo di due uomini: si tratta di Giovanni Falanga e Giovanni Pugliese, affiliati ad un clan camorristico di Torre del Greco e sui quali gravano indizi di colpevolezza per tentativo di estorsione.

Falanga e Pugliese vengono condannati dal tribunale di primo grado all’ergastolo. Il 7 marzo 2007 la Corte di Assise d’Appello ha confermato la sentenza di carcere a vita per i due e per un terzo complice, Mario Capuano, ritenuto esecutore materiale del raid.

Il 29 luglio del 1983 avvenne a Palermo la Strage di via Pipitone  in cui perse la vita il magistrato Rocco Chinnici.

Fu ucciso con una Fiat 126 verde imbottita con 75 kg di esplosivo davanti alla sua abitazione in via Pipitone Federico a Palermo, all’età di 58 anni. Ad azionare il detonatore che provocò l’esplosione fu il sicario della mafia Antonino Madonia. Accanto al suo corpo giacevano altre tre vittime raggiunte in pieno dall’esplosione: il maresciallo dei carabinieri Mario Trapassi, l’appuntato Salvatore Bartolotta, componenti della scorta del magistrato e il portiere dello stabile di via Pipitone Federico, Stefano Li Sacchi. L’unico superstite fu Giovanni Paparcuri, l’autista.

Il "pool antimafia" diede una svolta decisiva nella lotta contro Cosa nostra, si pensi ad esempio all’operazione che portò all’arresto di Michele Greco “il Papa”, all’epoca al capo della Commissione (La Cupola) di Palermo, insieme con i colleghi e amici Antonino Caponnetto, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, per i quali Chinnici ha rappresentato, oltre che una guida, una sorta di padre putativo che nutriva i suoi discepoli/figliocci con consigli, esperienze e rigatoni alla Chinnici.

 

 

 

 

 

 

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