Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Gaetano Filangieri e la Rivoluzione Napoletana del 1799

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La Campagna d’Italia di Napoleone Bonaparte e la nascita delle ‘Repubbliche sorelle’ sconvolsero lo status quo delle monarchie italiane; i nuovi principi democratici di Libertà e Uguaglianza furono il baluardo di una stagione rivoluzionaria che, particolarmente a Napoli, mieté le sue vittime più illustri.

L’Italia che accolse l’armata d’Oltralpe si presentava come una grande metafora della decadenza: la divisione politica e il controllo straniero di larga parte del territorio erano solo un frammento nel quadro più generale di un organismo sociale da molti secoli ripiegato su se stesso. Questa arretratezza storica e di avvilimento morale non tardarono a rivelarsi il fattore determinante dell’accoglienza favorevole riservata a Bonaparte che appariva un ambasciatore della Libertà e dell’Eguaglianza.[1]

Dal 1734 Carlo di Borbone aveva fatto di Napoli la capitale del sud, dopo oltre due secoli di vicereame spagnolo. Al nuovo re erano spettati compiti gravosi: ridimensionare il potere feudale, limitare l’ingerenza della Chiesa e migliorare la qualità della vita dei suoi sudditi.

L’opera riformatrice del giovane Borbone a Napoli si colloca nel contesto del riformismo illuminato che in molti paesi d’Europa, sotto lo stimolo e l’influenza dei grandi intellettuali illuministi, preparava una radicale trasformazione della società. Notevoli passi in questa direzione erano stati compiuti dal ministro anticlericale Bernardo Tanucci, che aveva messo in pratica una serie di riforme volte a limitare il potere della Chiesa nello Stato laico.[2]

Durante la sua lunga permanenza nel Regno di Napoli, Tanucci aveva riversato ogni energia nel disegno ambizioso di costruire un grande Stato nell'Italia meridionale, attraverso un riformismo politico-giuridico e istituzionale attuato con indubbia passione civile, sia pure con esiti parziali, spesso ostacolati.

Ma non erano bastate tante riforme a dare una svolta decisiva che potesse condurre innanzitutto all’eversione della feudalità, un fattore primario per risollevare le condizioni di sottomissione a cui erano soggette da secoli le classi meno abbienti delle province: tra il 1759 ed il ’64 la capitale non solo aveva una densità di popolazione tre volte maggiore rispetto a Roma, ma aveva dovuto fronteggiare ulteriori epidemie di colera e anni di carestia con il conseguente spopolamento delle campagne e l’invasione della città da parte di frotte di contadini ridotti in miseria. [3]

Il 6 ottobre del 1759 Carlo abdicò in favore del figlio Ferdinando che venne affidato al Tanucci e all’aio Domenico Cattaneo Della Volta, Principe di San Nicandro. Fino a quando il giovane erede non raggiunse la maggiore età, il governo fu gestito da un Consiglio di Reggenza, i cui membri, fra i maggiori rappresentanti del Consiglio di Stato, prendevano tutte le decisioni a maggioranza.

Non essendo stato designato da subito come successore al trono, Ferdinando non aveva ricevuto strumenti culturali adeguati al suo futuro ruolo, né aveva mai mostrato una particolare inclinazione agli studi e pertanto era cresciuto nel disinteresse per i “noiosi affari di governo”, che continuavano ad essere gestiti dai ministri e dal padre, che, consapevole di quella svogliatezza, continuava a gestire da lontano e senza interferenze la politica napoletana.

Per la sua poca inclinazione alla cultura e i gusti popolareschi, Ferdinando fu presto noto al popolo come il ‘re lazzarone’. Impari rispetto allo spessore del padre, la sua figura fu debole e grossolana, dedito ai piaceri della caccia piuttosto che agli obblighi reali e alieno da qualunque attività intellettuale.[4]

Il ceto burocratico-forense era un tempo ritenuto dalla storiografia l’unico depositario della cultura intellettuale.

La carenza di cultura largamente diffusa in tutto il Regno aveva prodotto nelle classi più elevate un ozio elegante e parassitario e fra i meno abbienti dei veri fenomeni di degradazione morale. Fino all’ultimo trentennio del secolo XVIII, lo Stato non aveva mai ritenuto suo dovere dare l’istruzione ai propri sudditi, soprattutto alle donne. Nonostante Carlo di Borbone avesse cercato di investire in opere socialmente utili, le masse popolari continuavano a versare in una condizione di abbandono e di totale analfabetismo, scavando nel tessuto sociale una piaga incancrenita.

La classe politica dirigente, almeno nella pratica, era lo specchio fedele delle idee del tempo; le donne erano relegate tra le mura domestiche o del monastero e quindi, se fra gli esponenti del sesso maschile c’era lo stacco enorme tra l’alta cultura dei pochi e l’ignoranza delle masse, nel mondo femminile regnavano sovrani analfabetismo e ignoranza.[5]

Le precarie condizioni economiche da una parte, e il disinteresse dello Stato dall’altra, mettevano non poche ragazze povere nell’impossibilità di formarsi una famiglia. A Napoli la consuetudine dei “maritaggi” ebbe, pertanto, il grande merito di permettere alle classi più diseredate di formarsi un proprio nucleo familiare. Sono eloquenti a tal riguardo i processi di canonizzazione conservati nell’Archivio Storico Diocesano di Napoli: la beneficenza veniva elargita attraverso i Santi dalle dame della nobiltà alle bizzoche figlie del popolo, dai ricchi pietosi dei miseri agli usurai convertiti, da preti e frati poverissimi, ma generosi, ai piccoli bottegai e artigiani.

I conservatori e i ritiri furono le istituzioni di maggiore spicco della storia sociale religiosa napoletana in epoca moderna. Ciò, però, non vuol dire che questi istituti risolsero tutti i gravi e numerosi problemi connessi alla precaria condizione femminile. Tra l’altro, il loro numero fu sempre inferiore ai bisogni, anche perché non pochi di essi preferirono accogliere monache e converse anziché educande. L’educazione impartita era rigorosamente monacale.

A Napoli fu costante la tendenza a trasformare le educande in monache e i conservatori in monasteri. L’istruzione non andava oltre l’apprendimento delle arti donnesche e della Dottrina Cristiana. Tutto questo divenne causa di crescente miseria perché favorì l’inerzia delle autorità preposte.[6]

Erano dunque presenti a livello culturale due abissi di ingiustizia: uno fra gli uomini divisi per sapere elementare oltre che per censo, l’altro, ancora più profondo, fra le donne: tutte marginali nella considerazione collettiva, inferiori all’uomo, e tra loro divise dall’istruzione.

Perfino tra gli strati più alti della nobiltà e della borghesia la percentuale di donne acculturate era estremamente bassa. Moltissimi uomini pretendevano dalle loro donne obbedienza e silenzio in pubblico: dovevano riservare alla sola famiglia la loro relativa erudizione. Per le privilegiate acculturarsi rappresentava invece un obbligo mondano più che un’esigenza dello spirito.

La diffusione di una nuova cultura e dell’istruzione, quindi, oltre ad ammodernare le attività produttive, doveva contribuire ad elevare lo stato sociale e civile del popolo perché solo la conoscenza dei bisogni degli individui e della società poteva suggerire i mezzi e i rimedi per migliorare gli stessi.[7]

Avanzavano i primi accenni di rivolta allo spirito e al costume della Controriforma, gli spunti di polemica antigesuitica e anticlericale, la ripresa della lotta in difesa dell'autonomia dello Stato laico contro ogni ingerenza della Chiesa, i primi elementi di una teoria delle monarchie illuminate e del regime paternalistico, nonché, sul piano letterario, l'avvento di una poetica e di una critica più aperte e coraggiose.

Fu l'inizio di una vera rivoluzione culturale che si attuò nella seconda metà del Settecento sotto il segno dell'Illuminismo, caratterizzata dalla necessità di trasformare integralmente i cardini della vecchia civiltà in tutte le sue manifestazioni.

Certamente furono donne consapevoli del loro impegno civico le soldatesse senza nome che difesero la Repubblica Napoletana nel 1799, e non occasionali e involontarie protagoniste di un breve episodio. Abbracciarono la causa rivoluzionaria e senza indugio assolsero al dovere di difenderla. Compresero il valore universale dei diritti e dei doveri (dell’uomo e della donna) e furono pronte a sacrificare la loro vita per difenderli. Furono Madri della patria, donne di coraggio, donne esemplari, che seppur senza nome e senza tomba, scesero in campo e combatterono con vivo orgoglio patriottico.[8]

Gli uomini dell’armata controrivoluzionaria sanfedista fecero strazio dei loro corpi, dopo averle spogliate alla ricerca di qualsiasi cosa che avesse un prezzo. Si accanirono sui loro cadaveri e ne fecero scempio.

Il silenzio calato sulle tre soldatesse è l’allegoria del loro stoico destino. Nelle ore ardenti, incuranti del rischio offrirono rifugio ai braccati, marciarono in testa ai repubblicani durante la presa di Castel Sant’Elmo, cucirono bandiere col blu di un cappotto lacero, il bianco di un lenzuolo e il rosso del paramento di un priore della certosa di S. Martino. Piantarono con gli uomini l’albero della libertà, cantarono l’inno e vissero pienamente quei sei mesi di libertà democratica.

Quello delle donne non fu un contributo marginale o meramente solidaristico. Libertà e eguaglianza erano sostantivi di genere femminile soltanto nei dizionari. Ciononostante il ruolo femminile nei fatti del 1799 è rimasto in buona parte misconosciuto e tanti dei loro nomi sono svaniti nei falò dei documenti. Una rara stampa dell’epoca mostra due dame intente a danzare con impennacchiati cavalieri in divisa: senza parrucca, nastri svolazzanti tra i capelli e abiti alla moda del Direttorio.

Ma la rivoluzione non fu un giro di minuetto. Nei frenetici giorni della Repubblica tante donne contribuirono a sostenerla, tra infinite peripezie e senza differenza di ceto sociale. Furono così rilevanti da spingere un anonimo a pubblicare un volumetto intitolato Dell’anima delle donne e della Libertà di vestire, discorsi del cittadino F. M.[9]

Affollarono le piazze durante le cerimonie pubbliche, in provincia si misero alla guida dei cortei, altre intervennero nelle sale patriottiche. Se non fu un fenomeno di massa, certamente non fu solo un contorno sciapito. Di questa attività si trovano tracce nei libri scritti in francese, seppur con parole riduttive, come se la passione, per le donne, fosse una sorta di condanna, un’infezione endemica.

Ma a Napoli una fra tutte venne accusata, caricata di insulti e ignominia fino ad essere impietosamente schiacciata dal peso dell’oscurantismo controrivoluzionario: la marchesa Eleonora de Fonseca Pimentel, o meglio, la cittadina Eleonora Pimentel Fonseca, il prototipo della donna libera, di cultura, capace di gestire le “cose da uomini”,  così forte da sopportare il peso di un divorzio in un mondo ostile e bigotto, caparbia contro il regime e motivata e coinvolta tanto da riuscire a gestire grandi responsabilità come la redazione di un giornale, il Monitore Napoletano, organo ufficiale del Governo Provvisorio che fece di lei la prima giornalista politica in Europa.[10]

La Pimentel crebbe con le idee illuminate di Genovesi e Filangieri, godette della loro amicizia, fece sua la nuova corrente riformatrice, tanto da scendere in campo senza indugi per servire la sospirata Repubblica e diventare per essa il simbolo di una rivoluzione tutta al femminile. Fu fiera Eleonora del suo destino fino all’ultimo respiro, consapevole di pagare un prezzo altissimo per quell’uscita da uno stato di minorità che le donne, prima di allora, erano state obbligate ad imputare a loro stesse.[11]

Non fu la rivoluzione Francese sollecitare nelle menti degli intellettuali napoletani l’esigenza di riforme politiche e sociali. Già dalle lezioni universitarie di Galanti e Genovesi erano venute fuori prospettive nuove, quel bisogno di ammodernamento dello Stato che avrebbe dovuto porre fine agli atavici privilegi dell’aristocrazia e del clero e, soprattutto, avrebbe dovuto spronare la corte a volgere lo sguardo verso una politica innovativa.

I due elementi caratteristici della riflessione del Galanti, l’analisi storica dei problemi e l’azione riformatrice che derivava dalla riflessione storica, non erano mai disgiunti e, seppure entro un modello di intervento tutto compreso entro l’assolutismo regio, costituivano le pagine più dense e documentate della tradizione illuminista napoletana.[12]

L’indagine storica per Galanti si caricava del proposito di spiegare la necessità dell’intervento riformatore: la storia, scrisse, «ci mostra l’uomo col quale dobbiamo vivere, quello che può l’educazione per abbellire le sue maniere, o per corrompere il suo cuore».[13]

Nel 1753 Antonio Genovesi, con il suo Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze, sosteneva la necessità di istituire una scuola statale e pubblica, quindi aperta realmente a tutte le classi sociali e gratuita.[14]

Ma la sua idea di una scolarizzazione di massa, davvero pioneristica per l’epoca, incontrò ostilità per il timore di un sovvertimento sociale e rimase inascoltata.[15]

Ciononostante tutti gli illuministi e i riformatori napoletani della seconda metà del Settecento recepirono questo messaggio riformatore e sotto la spinta propulsiva del Genovesi si mossero anche le riflessioni di Gaetano Filangieri.

Figura di primo piano nel panorama intellettuale europeo del XVIII secolo, con la sua Scienza della legislazione, ispirata alle idee liberali di Montesquieu e di Rousseau, Filangieri tracciò una costruzione intellettuale lucidamente utopica e al contempo tecnicamente raffinata e moderna, indicando percorsi nuovi.[16]

Parallelamente alla stesura de La Scienza della Legislazione, Filangieri fu investito di un'importante carica militare di grado superiore: Tenente di fanteria nel 1783 e Capitano nel 1785. Fin dal 1777 si era messo in luce a corte ove ottenne importanti incarichi: si adoperò brillantemente a favore del progetto di riforma della giustizia, e nel 1787 divenne Consigliere del Supremo Consiglio delle Finanze.

Pensava ad un modello di monarchia illuminata, in cui il re guidasse una "rivoluzione pacifica", da attuarsi attraverso la riforma della legislazione, ma erano proposte e intuizioni quasi “sovversive” per l’epoca, pur sempre illuminate dal ragionamento e sorrette da concrete argomentazioni giuridiche. Pertanto delle riforme da lui proposte poche trovarono applicazione: con maggior successo per la procedura penale, quasi unicamente sulla carta per la pubblica istruzione.

I rapporti con la corte borbonica diventavano sempre più stridenti: «La mia vita molto ritirata non mi garantisce del contatto degli ippocriti e de’ malvagi di professione», scriveva nel 1787 all’amico libraio tedesco Friedrich Münster, 1787.[17]

Contrariamente a quanto auspicava l’abate economista Galanti, secondo cui il reame poteva migliorare e diventare il faro di una risorgente civiltà italiana, il Filangieri considerò non praticabile un’interlocuzione con la monarchia borbonica, intestardita a rinchiudersi nell’ignoranza propria e di coloro che considerava propri sudditi, mentre era quello il momento storico in cui si aspirava a diventare cittadini e non più sudditi.

E così la costruzione di una società libera e giusta fondata sui diritti dell’uomo fu espressa dal Filangieri nell’ambito di una forma di governo che necessitava di tagliare i ponti definitivamente con l’antico regime e proporsi in forma repubblicana, di cui la tradizione italiana poteva a buona ragione sentirsi fiera, anche rispetto a quella francese. Si trattava di percepire la patria come istituzione politica, comunità repubblicana di uomini liberi, soggetti alle sole leggi che essi stessi si erano dati.

La costituzione de La Scienza della Legislazione, cercava nell’economia una base materiale in grado di dare concretezza ai diritti dell’uomo, ritenendo che il loro esercizio non prescindeva dalla realtà della moderna società commerciale, caratterizzata dalla divisione del lavoro, dal perseguimento del benessere individuale, dal mercato e dalla meritocrazia.

Le riflessioni del Filangieri presentavano una demolizione morale e filosofica del feudalesimo inteso come arbitrio, prepotenza, diseguaglianza ingiustificata. Le uniche disuguaglianze tollerabili dovevano essere quelle del merito e del talento, e non quelle derivanti dal lignaggio, dalla casta e dalla prepotenza che andavano respinte: bisognava, dunque, distruggere le barbarie del feudalesimo per fare emergere i veri valori legati al merito e al talento.[18]

Questo era il significato della Scienza della legislazione: i rapporti umani andavano regolati con la legge, e la legge andava formulata in base a una scienza, ponendo fine all’arbitrio; e così anche i rapporti giuridici. Bisognava sdoppiare l’educazione del popolo, che doveva essere elevato verso i Lumi, da coloro che detenevano i Lumi e dovevano guidare la società. L’educazione pubblica per essere universale richiedeva che tutte le classi, tutti gli ordini dello Stato vi avessero parte.

 

«Il filosofo deve essere l’apostolo della verità, e non l’inventore de’ sistemi. [...] Finché la verità conosciuta da pochi uomini privilegiati sarà nascosta alla più gran parte del genere umano [...] il dovere del filosofo è di predicarla, di sostenerla, di promuoverla, di illustrarla. Se i lumi che egli sparge non sono utili pel suo secolo e per la sua patria, lo saranno sicuramente per un altro secolo e per un altro paese.»[19]

 

La visione del mondo del giovane principe napoletano si fondava su una constatazione pessimistica e amara della realtà che gli si presentava di fronte e che aveva maturato in lui una ferma convinzione: che la rivoluzione della mente determinata dal pensiero moderno fosse ancora ben lontana dal penetrare negli agglomerati sociali dei territori italiani.

Quella realtà, già precaria, si era aggravata a Napoli proprio negli anni in cui Filangieri concepiva e scriveva la sua opera: a partire, infatti, dal 1776, l’espulsione dal governo di Bernardo Tanucci aveva inaugurato la dissennata fase della tirannia della regina Maria Carolina e dei suoi accoliti. Quella fase sarebbe durata a lungo, ben oltre la morte di Filangieri, arrivando fino all’ecatombe del 1799.

Esautorato Tanucci nel 1776, Maria Carolina iniziò a mettere in campo una politica preferenziale d’ordine culturale, oltre che politico, con la sua famiglia d’origine e l’asse tra si spostò dalla Spagna all’Austria. Iniziava la sua crescita esponenziale e nel frattempo era sempre incinta e questo potenziava il suo ruolo nelle decisioni politiche. In effetti stava ricalcando l’immagine dell’Imperatrice madre, Maria Teresa che, seppur formalmente subordinata al consorte prima e al figlio poi, aveva de facto governato su tutti i territori della monarchia austriaca.[20]

I primi anni Ottanta rappresentarono un momento di forte riorganizzazione della macchina amministrativa e furono attuati dei cambiamenti diplomatici decisivi per riposizionare il regno delle Due Sicilie nel contesto internazionale. Sul versante dell’azione di governo fu attuato un forte slancio riformatore con l’istituzione del Supremo consiglio delle Finanze, che simboleggiò la svolta di quel periodo e a cui concorsero le migliori menti del tempo tra cui quella di Gaetano Filangieri.

Queste scelte fissavano l’immagine di una regina scaltra, libertina e contornata di amanti. Era un’opinione diffusa tra diplomatici e viaggiatori che sostenevano il partito filo-spagnolo che mirava a danneggiare la dignità della sovrana, insinuando rapporti intimi tra lei e i suoi ministri, che di volta in volta guidavano gli affari di governo.[21]

A differenza del re consorte che aveva sempre dimostrato una disaffezione verso gli affari di Stato e la cultura, Maria Carolina era una bibliofila, amava tenersi al passo con i tempi e circondarsi di personaggi famosi.[22]

Questo fino a quando dalla Francia non arrivarono notizie allarmanti: Maria Antonietta e Luigi XVI erano già entrati nell’occhio del ciclone per la vita dedita gli sfarzi e la noncuranza verso la grave crisi finanziaria che attanagliava il Paese e le misere condizioni del popolo: gazzette, libelli e vignette li schernivano, raffigurando lui inetto, panciuto, un manichino al fianco di una moglie straniera, gaudente, dissoluta, circondata da un entourage di amanti, parassiti e malfattori.[23]

Nel maggio del 1789 Luigi XVI convocò l’elezione degli Stati Generali allo scopo di raggiungere un accordo tra le classi sociali, ma fu uno degli eventi che trasformò il malessere sociale nella rivoluzione francese.[24]

Da quando cominciarono a giungere notizie di ciò che stava avvenendo in Francia e negli Stati italiani, Maria Carolina, da sovrana illuminata quale era apparsa in un primo momento, divenne ostile ad ogni innovazione in senso libertario. Con la decapitazione di Luigi XVI e di Maria Antonietta, la situazione precipitò, Napoli fu messa a lutto e la regina si trovò a vendicare sui patrioti e gli illuministi napoletani la morte della sorella.

Nel Regno si creò un clima di sospetto e uno stato di polizia volto a controllare soprattutto i filo-francesi. Contando su una fitta rete di spie, la sovrana aveva intrapreso la sua spietata opera di persecuzione, provocando un’ondata di panico in seno alle associazioni massoniche già bandite nell’89 e alla Società Patriottica.

La stessa sorte toccò alle “serpi in seno”, gli intellettuali che fino a qualche tempo prima avevano assiduamente frequentato la corte nella speranza di veder realizzate delle riforme: furono tutti tacciati di giacobinismo e schedati. La stampa straniera fu vietata, specialmente Le Moniteur, le opere ritenute riformatrici furono messe all’indice. La stessa sorte sarebbe toccata anche al Filangieri se non fosse morto di tubercolosi qualche anno prima. Una considerazione, questa, riportata più tardi proprio su Le Moniteur di Parigi il 25 novembre 1798: «Si l’illustre Filanghieri vivait, il serait certainement victime de ses lumieres et de sa philantrophie».[25]

Non potendo infierire sull’autore ormai deceduto, la Scienza della Legislazione, che rappresentava un qualcosa di rivoluzionario, nel 1784 fu messa all’Indice dal Consiglio di Stato e dalla Chiesa Cattolica, pur continuando ad essere la più letta all’estero: fino all'Ottocento si contarono 40 edizioni italiane e 28 in lingue straniere. In Germania comparvero tre edizioni diverse a Zurigo, Berlino e a Vienna (la prima traduzione in tedesco è del 1784). L'opera venne tradotta in francese (la prima traduzione in francese è del 1786), spagnolo, inglese, russo e svedese, con elogi entusiastici rivolti all'autore: il più noto e significativo fu quello di Benjamin Franklin, il quale avviò una corrispondenza con Filangieri e tenne presente le sue idee per la stesura della Costituzione americana.[26]

Ma la censura nel Regno borbonico segnò il preludio di un’ecatombe che a fine secolo vide morire sul patibolo la migliore intellighenzia partenopea.

Già alla fine del 1787, mentre ancora stava lavorando al quinto volume della sua opera, Filangieri, deluso dalle difficoltà incontrate e provato fisicamente e intellettualmente dai ritmi frenetici di lavoro e dalla malattia che lo stava colpendo, si era ritirato a Vico Equense.

Aveva soli trentasei quando si spense nel castello Giusso. Il 20 settembre del 1788 le logge napoletane di rito inglese celebrarono in suo onore di una messa massonica, durante la quale venne ricordato dagli amici più intimi, Francesco Mario Pagano e Domenico Cirillo, in un clima di intensa e commossa partecipazione.

Terrorizzata dall’incombente minaccia di un’invasione francese, Maria Carolina seguiva costantemente gli sviluppi delle imprese belliche. Malgrado la consapevolezza che il suo esercito fosse troppo debole per entrare in un conflitto internazionale, Ferdinando IV aveva aderito alla prima coalizione anti-francese partecipando all’assedio di Tolone tra settembre e dicembre del 1793, ma presto se ne pentì perché non solo i suoi soldati subirono gravi perdite, ma si trovarono esposti alla controffensiva.

Le forze armate del regno si rivelarono inefficienti sia nell’attacco che nella difesa, inoltre la guerra nel Mediterraneo paralizzò il commercio napoletano e causò enorme sofferenza e disoccupazione. Nella capitale si temette la carestia e furono prese misure d’emergenza per acquistare il grano all’estero, ma i prezzi dei generi alimentari aumentarono e con essi il fermento popolare.[27]

Maria Carolina recepiva, atterrita dai fermenti rivoluzionari, sguinzagliò guardie ovunque per sventare nemici e congiure, applicò una ritorta legge del sospetto, che se in Francia aveva terrorizzato i monarchici, a Napoli e nelle province braccava i sostenitori degli ideali repubblicani, e particolarmente gli intellettuali che in tempi migliori avevano palesato le loro idee riformiste allora apprezzate e sostenute dalla corte.  Una sinistra coltre di oscurantismo si abbatté sul Regno: la regina illuminata si trasformò in una sovrana austera, dispotica, reazionaria e soprattutto vendicatrice.

Lo sconvolgimento psicologico la indusse ad una caccia spietata ai filo-rivoluzionari “falsi” e “pervertiti”, “le serpi in seno”, che sentiva infiltrati in ogni dove.[28]

Nel marzo del 1793, fu scoperto un vero e proprio complotto che si proponeva di impadronirsi delle fortezze, fomentare un'insurrezione armata e sopprimere sovrani e ministri. Ma denunce e delazioni scongiurarono l’azione e fecero finire davanti alla Giunta di Stato centinaia di sospettati. Alla fine di un maxiprocesso fecero da capro espiatorio tre giovani condannati a morte e arrestati centinaia di presunti congiurati e finanche il loro avvocato difensore, il celebre giurista Mario Pagano.[29]

Anche Filangieri ci rimise: nel 1796 la Giunta di Stato aprì un procedimento penale contro la Scienza della legislazione, in quanto l’opera era sospettata di contenere «sediziosi principj di libertà».[30]  

La vedova Charlotte Frendel [31] riuscì a convincere la regina che non fosse il caso di procedere, anche perché il marito era morto da otto anni e molti dei suoi “fratelli massoni” erano finiti nelle carceri borboniche.[32]

Nulla placava l’angoscia della regina che ancora temeva agguati: l’accostamento a Maria Antonietta e il desiderio di darle la stessa sorte fomentava a dismisura nei reconditi luoghi di riunione, la cui azione, però, era molto limitata ed imparagonabile all’ondata rivoluzionaria francese.

Nel Regno di Napoli non esisteva un movimento capillare capace di coinvolgere le masse popolari sia nella capitale che nelle province che, nonostante l’arretratezza e le difficili condizioni in cui versavano, non sentivano, il bisogno di un radicale cambiamento e soprattutto con comprendevano i valori di uno Stato democratico. Erano gli intellettuali, i borghesi e i nobili delusi nelle loro speranze riformiste a desiderare un rovesciamento della monarchia ma, essendo una classe numericamente inferiore e culturalmente elevata, non riusciva a trasmettere al popolo quegli ideali per i quali era necessario emulare l’esempio francese, conquistare la libertà ed essere cittadini e non più sudditi.

La notizia dell’imminente arrivo dei “fratelli francesi” alimentò le speranze dei repubblicani pronti ad accoglierli come liberatori. Il reame era oramai allo sfascio, l’unica soluzione per i sovrani fu una fuga in Sicilia con l’ausilio dalla flotta inglese.Dopo aver requisito ori e argenti e tutto quanto fosse asportabile e messo al sicuro sul Vanguard dell’ammiraglio Nelson, la sera del 21 dicembre del 1798 la corte fu pronta a scappare. Ma fu sono un arrivederci perché già si premeditava la grande vendetta: il “purgo e ripurgo” di Maria Carolina non avrebbe fatto sconti per nessuno.[33]

Dopo un mese di anarchia a Napoli non si contavano più i morti, ma a differenza del popolo francese che si era ritrovato compatto contro la monarchia, i sudditi di Ferdinando, e particolarmente i lazzari, se da una parte si sentivano traditi dall’abbandono del loro re, dall’altra non si risparmiarono nel difendere a modo loro il suo Regno dall’invasione straniera e a dare la caccia ai sostenitori.

Nel frattempo rubavano ed ammazzavano senza remore. I proclami contro gli immorali francesi divulgati da Ferdinando prima di partire, avevano attecchito nell’immaginazione popolare, facendo leva sulla religione coatta e la superstizione: quegli invasori erano demoni, gente feroce e senza Dio. Ciononostante all’ombra degli alberi della libertà durante il semestre repubblicano furono celebrati feste e matrimoni, senza per questo inficiare il rito cattolico.[34]

E fu certo un’impresa ardua per un esiguo numero di rivoluzionari mettere fine alla feroce anarchia, impossessarsi di Castel Sant’Elmo e proclamare il 22 gennaio la Repubblica Napoletana. Due giorni dopo, i francesi, al comando del generale Jean Etienne Championnet, dopo estenuanti combattimenti contro gli oppositori filo-borbonici, entrarono nella città, dando forza al nascente Governo Provvisorio.

Le migliori menti della borghesia e della nobiltà napoletana vennero chiamati a collaborare, finalmente liberi di poter esternare quell’immenso desiderio di riforme e democrazia che per anni erano stati costretti a tacere.

La Scienza della legislazione di Gaetano Filangieri fu l’opera su cui si erano formati i protagonisti della nascente Repubblica. La morte prematura non gli aveva consentito di coprire un ruolo attivo nella vita di Napoli, ciononostante il suo ricordo e l’importanza della sua opera non mancarono di essere onorati.

Così lo ricordava Eleonora Pimentel Fonseca sul Monitore Napoletano:

 

«Il nostro concitt. Vinc. Russo, già emigrato per la causa della Libertà, ed al sorgere di essa fra noi ritornato, consacrando le sue affezioni al vero ed ai coltivatori di esso, ha rinnovata ne scorsi giorni al Governo Provvisionale la memoria del fu Gaetano Filangieri, richiedendo per lui l'onore di un busto nella sala d'istruzione pubblica.«Molti tra voi, dice in essa, o tutti conoscete già di persona Gaetano Filangieri, ed in società chiuse ai profani, dove si respirava l'aura soave dell'amicizia, e la pura virtù, trovaste in lui il fido compagno ed il tenero amico; e vedeste il suo ingegno qual pianta felice dilatare ampiamente i suoi rami per proteggere colla sua ombra l'insultata umanità... onde a ragione i suoi volumi furono considerati come uno di que' vessilli alzati alla rivoluzione nell'assemblea immensa del genere umano; e sotto ai quali milioni di uomini vennero a giurare in faccia all'Universo di voler vivere liberi, o morire».

Rileva indi le virtù, l'ingegno della vedova, e la crescente speranza de' figli pe' quali sollecita la riconoscenza generosa della Nazione, indi prosiegue «Facciamo un atto pubblico e solenne, che sia destinato un busto all'Autore della scienza della legislazione nella sala nazionale ed in un tempio d'immortalità, la cui sola esistenza farà che esso sia in breve popolato di eroi. Vegga la gioventù repubblicana scritta in quest'atto a caratteri indelebili la sentenza cara ai buoni, spaventevole ai malvagi, ch'ormai la stima pubblica non è il prezzo di cabale o di fortunate sceleratezze ma di quelle sole virtù che tendono a fare de' popoli una famiglia di reciprocamente diletti e felici fratelli».

Il Governo provvisorio dopo avere applaudito alla lettura, che il Rapp. Cestari fece di tale memoria, ha differita la risoluzione al tempo, in cui la riconoscenza pubblica destinerà consimile onore a tutti gli uomini illustri e nostri Concittadini che han preceduto la rivoluzione.»[35]

 

E ancora la Pimentel riportava la notizia di un’orazione che si era tenuta il 9 aprile in sua memoria:

 

«Nel giorno si tenne sala d'Istruzione in onore del fu Gaetano Filangieri. Intervennero la vedova, la sorella, e tutta la famiglia dell'illustre defunto, e quasi tutti i Membri della Commissione Legislativa. I due Cittadini Vittoria e Mola recitarono in onore di Filangieri due eloquenti discorsi. Un altro Cittadino recitò una graziosa canzone, ed un applaudito sonetto il Cittadino Petrucci. Il giovane Cittadino Nicola Nicolino senza suono, e senza canto fece ammirare il suo ingegno improvvisando delle eccellenti ottave.

I due legislatori Pagano, e Cirillo colla nota eloquenza pagarono amendue dalla tribuna il tributo di lode, e di affezione al defunto amico, e il giovanetto figlio di questi ringraziando dalla tribuna con molta grazia gli astanti risvegliò la comune tenerezza, col risvegliar l'immagine del padre.»[36]

 

Il Progetto di Costituzione della Repubblica Napoletana fu opera personale di Mario Pagano[37]: le sue fonti vanno ricercate tanto attraverso un esame comparato coi testi coevi del costituzionalismo europeo, quanto mediante un’indagine sulla cultura napoletana di cui il Pagano fu figlio, attraverso Genovesi e Filangieri e che si riflette sui suoi precedenti Saggi politici e nelle Considerazioni sul processo criminale. In ogni caso il Progetto costituzionale prese vita nel quadro di un dibattito europeo e di un’ampia circolazione di idee e soluzioni costituzionali.[38]

Iniziatore della scuola storica napoletana del diritto, giurista, filosofo e letterato, Mario Pagano fu il tipico rappresentante dell’illuminismo napoletano e le sue arringhe, ricche di citazioni filosofiche, gli valsero il soprannome di ‘Platone di Napoli’.[39]

Allievo del Genovesi e del Filangieri, da loro aveva appreso la lezione di un mondo economico, sociale e politico che poteva mutare grazie a un impulso riformatore e poteva essere perfezionato nelle sue strutture, e prima ancora negli uomini che le componevano e in esse lavoravano con perizia ed esperienza. Aveva imparato a valutare limiti e danni di una società fondata sul potere baronale, sulla miseria e la degradazione di plebi incolte, sul latifondo e sul monopolio, ad apprezzare i pregi di una teoria economico-sociale che, in opposizione al mercantilismo, attribuiva ai beni e ai prodotti della terra un'importanza più grande che a quelli del commercio e dell'industria, l’esigenza di una legge valida universalmente, dell’educazione e della cultura.

Con Filangieri si iscrisse a La philantropia, una loggia massonica di rito inglese appena fondata a Napoli, in cui militarono anche alcune altre personalità dell’illuminismo meridionale, tra cui Domenico Cirillo.[40]

La presenza di Filangieri nella formazione giuridica di Pagano è confermata nelle proposte di riforma del sistema processuale avanzate nelle Considerazioni sul processo criminale, che condensano l’attività scientifica del decennio successivo.

Nel 1782 Pagano gli dedicò la sua opera teatrale Gli esuli tebani, che termina con la rivolta patriottica contro il tiranno dopo un’esposizione narrativa in cui si evidenziano le polarità etico politiche tra libertà e opposizione, arbitrio e giustizia, despota e cittadini. Nella dedica traspare tutta la devozione e la gratitudine nei confronti di Filangieri.[41]

Il Progetto di Costituzione della Repubblica Napoletana, venne stampato con la data del primo aprile del 1799: diciannove pagine con numerazione romana contenenti il Rapporto preliminare e la Dichiarazione dei diritti e dei doveri dell’uomo, del cittadino e del popolo, più cinquantaquattro pagine con numerazione araba contenenti il testo della Costituzione.

Le copie erano destinate al solo uso dei membri del comitato e pertanto non è stato possibile quantificare il numero degli esemplari stampati, ma probabilmente furono solo poche decine.[42]

 

«La più egregia cosa che trovasi nelle moderne costituzioni è la dichiarazione de’ dritti dell’uomo. Manca alle legislazioni antiche questa solida ed immutabile base. Noi giovati ci siamo della dichiarazione che porta in fronte la costituzione francese. Ma ci siamo pure avvisati che l’uguaglianza non sia già un dritto dell’uomo, secondo l’anzidetta dichiarazione, ma la base soltanto de’ dritti tutti ed il principio sul quale vengono stabiliti e fondati. L’uguaglianza è un rapporto e i dritti sono facoltà. […] Da tal rapporto di uguaglianza di natura avvi che tra gli uomini deriva l’esistenza e l’uguaglianza de’ dritti.»[43]

 

Napoleone I Bonaparte aveva imposto alle repubbliche già instaurate in Italia il modello della Costituzione francese del 1795. Ciononostante Pagano vi introdusse poche ma rilevanti modifiche e decise di riscrivere la Dichiarazione de’ diritti e doveri dell’uomo, del cittadino, del popolo e de’ suoi rappresentanti. Le fonti di ispirazione vanno dalla Costituzione della Pennsylvania, che a suo tempo Benjamin Franklin aveva personalmente inviato a Filangieri, a quella francese del 1793, al Progetto di Costituzione della Repubblica ligure. Dal complesso di tali innovazioni rispetto al modello napoleonico si evincono i difficili rapporti con i francesi, che non riconobbero mai ufficialmente la Repubblica.[44]

Il testo redatto da Pagano imputava a ogni uomo il dovere «d’illuminare e d’istruire gli altri». L’istruzione, intesa come «bisogno di tutti», ascriveva alla società il dovere di favorire con tutto il suo potere i progressi della ragione pubblica, e di mettere l’istruzione alla portata di tutti i cittadini.

Pur non configurandosi nell’articolato della Dichiarazione come diritto soggettivo, l’istruzione assurgeva al livello di una questione costituzionale di primaria importanza: fatta la Repubblica, bisognava fare i repubblicani; ovvero, formare cittadini dediti alla patria, amanti dell’uguaglianza, coscienti del bene comune.

Nonostante la risonante e brillante fama, soltanto una parte delle classi superiori fu permeata dalle idee riformiste di Filangieri. Considerato l’alto tasso di analfabetismo, la sua opera nemmeno sfiorò il popolo lazzaro. Tutto ciò alla fine del secolo produsse una tragica spaccatura fra la massa plebea rimasta fanaticamente legata al loro “re nasone”, e la nobiltà colta desiderosa di accogliere un riformismo fin troppo lungimirante da farsi drammaticamente rivoluzionario.

L’appoggio dei francesi e l’esempio del loro 1789 non fecero però della rivoluzione un prodotto di importazione: nei francesi poterono trovare successivamente un’aderenza, un riscontro, ma non l’esempio da emulare, maturato invece dal diretto vivere in un Regno che stentava a riformarsi, trascinando una politica atavica che privilegiava l’aristocrazia e il clero e deresponsabilizzava il popolo cittadino governandolo con le famose tre ‘F’, Feste, Farina e Forca.[45]

L’esigenza di riforme, la teorizzazione, e soprattutto la comprensione e il dibattito a Napoli rimasero materia circoscritta alle università, ai salotti culturali, ai reconditi club giacobini e massonici, insomma a luoghi a cui certamente la stragrande maggioranza della gente non aveva accesso e nemmeno ne era incuriosita.

Pur essendo l’enorme classe sottoproletaria l’unico elemento capace di determinare una grande azione massa capace di un sovvertimento e di uno sconvolgimento della vita cittadina, sostanzialmente essa non costituì una presenza significativa, come invece era stata rappresentata numericamente da quella dei contadini legati alle sorti del regime feudale e alle vicende della terra. E quindi proprio il 1799 dimostrò che, a differenza della Francia, le sorti del paese non si decidevano più nella capitale e che, come accadrà fino alla caduta del Regno nel 1860, sarebbero state invece le province a determinare gli equilibri di forza decisivi.[46]

La vittoria francese, a cui i rivoluzionari napoletani dovettero la vita della Repubblica, finì per limitare la loro azione. La Francia del 1799, pur agitando ancora le parole di rivoluzione e di libertà, operava ormai da tempo con la logica brutale di una grande potenza in espansione. Perciò anche a Napoli il rapporto con lo Stato - guida della rivoluzione e della causa rivoluzionaria si tradusse in un rapporto di subordinazione dei rivoluzionari periferici.

I francesi pensavano a Napoli come a un'area di sfruttamento e di rapina di risorse e di mezzi, come moneta e merce di scambio sul piano strategico e sul piano diplomatico nel gioco internazionale di cui la Francia era protagonista. La prima preoccupazione dei rivoluzionari doveva, quindi, essere quella di soddisfare le richieste, soprattutto finanziarie, dei rappresentanti del Direttorio di Parigi.

Il 26 marzo ad Eleonora Pimentel Fonseca fu censurato un articolo di protesta contro le ruberie e il tentato sopruso di un generale,Antonio Gabriele Venanzio Rey, giunto a Napoli durante la Repubblica del 1799 e notato nei rapporti del Direttorio come un militare bravo, ma anche troppo spesso coinvolto in manovre economiche estorsive nei confronti delle popolazioni passate sotto il dominio francese.

I furti dei generali d’Oltralpe in Napoli, come in altre parti d’Italia, erano così note da costringere il governo del Direttorio ad inviare dei commissari, non tanto in difesa della moralità o delle popolazioni defraudate, quanto per assicurare i beni confiscati alle casse della Francia, considerato che buona parte restava nelle mani dei generali.[47]

Alle ruberie francesi si aggiunse l’istinto della plebe che difese se stessa, più che il suo Re, avversando gli stranieri e i giacobini sentiti ostili, traditori e senza Dio. Ad essi mancava innanzitutto la vera necessità della rivoluzione, la motivazione e la comprensione. I costumi del popolo non erano adeguati ai lumi della ragione, quindi la legislazione non poteva adeguarsi al costume, non si poteva seguire il metodo di Montesquieu di accettare il costume, né si poteva accettare di tramandare il diritto vigente. Il diritto vigente, sedimentato nel costume, era il rispecchiamento di tempi oscuri.[48]

Alla Repubblica Napoletana, da parte delle istituzioni politiche venne, a mancare la capacità di suscitare nel popolo sentimenti di coraggio e patriottismo che avrebbero potenziato le virtù militari. Mancava un linguaggio capace di arrivare alle folle, un canale di comunicazione pratico e diretto che rendesse possibile la comprensione e l’importanza della democrazia alle classi più disagiate che costituivano poi la stragrande maggioranza della popolazione.

Spiegare il valore della Libertà alla plebe abituata da secoli a sopravvivere all’ombra di regnanti per lo più stranieri, a tirare avanti con espedienti quotidiani e in condizioni aberranti, era un’impresa ardua, ma anche fondamentale per la vita del nuovo governo. Ed è ciò che venne a mancare. Fu la cultura la grande assente. Bisognava educare la plebe a diventare popolo.

Ma il passaggio dal pensiero riformista dei maggiori teorici politici, alla azione pratica, non solo necessitava di tempi più lunghi, quanto trovò sul campo impedimenti da subito insormontabili che decretarono la fine della Repubblica fin dai suoi albori: alla mancanza di un dialogo con le folle si aggiunsero le gravose tassazioni imposte dai conquistatori francesi, le insorgenze nelle province, la stridente comunione di intenti all’interno dello stesso Governo, l’atavica diffidenza delle masse popolari, strumentalizzate da un clero reazionario e dissuasore, gli antagonismi tra i ministri, la mancanza di un proprio apparato militare capace di garantire la difesa, e l’intervento delle potenze straniere a sostegno dei Borbone. Insomma, furono questi tutti fattori decisivi che determinarono la tragedia della Repubblica Napoletana del 1799 e il ritorno ad un vecchio regime troppo radicato per essere divelto al primo colpo.[49]

Con il ritorno dei Borbone coadiuvato dagli eserciti stranieri alleati e dalle truppe sanfediste del cardinale Ruffo, finirono sul patibolo le migliori menti che Napoli, personalità riconosciute in tutta Europa e in America, uomini e donne capaci di costruire una società migliore, democratica, libera, uno Stato dove venivano riconosciuti i diritti e i doveri dell’uomo.[50]

Fu un’ecatombe. Colpevoli di troppo acume e lungimiranza più che di Lesa Maestà, furono oltre un centinaio i condannati “illustri” decapitati ed impiccati in Piazza Mercato, senza contare le vittime degli scontri, da una parte e dall’altra. Tutto finì nel giro di pochi mesi e quel sogno repubblicano fu “giustiziato” anche nella sua memoria, tanto da rendere difficili, se non a volte impossibili, le ricerche storiche successive.[51]

Così come Gaetano Filangieri, gli intellettuali del 1799 furono degli illuministi d’avanguardia, degli utopisti riformatori che pur vivendo in uno Stato assolutista come quello del Regno di Napoli, erano riusciti a guardare oltre e a proiettare il loro sguardo verso il futuro, verso i decenni e i secoli a venire. Con oltre duecento anni di anticipo, sognavano un’Europa, quella che i padri dell’Europa del Novecento hanno sognato nel Secondo Dopoguerra, in cui i popoli fossero governati da leggi razionali fondate sui principi liberaldemocratici diretti al benessere, alla felicità e all’uguaglianza sociale. Ci credevano e combatterono per realizzare un sogno a costo della vita.

Tantissimi morirono e altrettanti furono costretti all’esilio distrutti nell’anima: dopo aver riportato nelle loro memorie quei fatti terribili, Vincenzo Cuoco finì per impazzire e Francesco Lomonaco morì suicida.[52]

La vedova di Filangieri, Carolina Frendel, riuscì a salvarsi scappando con i due figli a Parigi dove Napoleone Bonaparte la ricevette tenendo un esemplare della Scienza della legislazione sulla propria scrivania.[53]

 



 

[1] Cfr.  L. Mascilli Migliorini, Napoleone, Salerno Editrice, 2020; G.D. Chandler, Le campagne di Napoleone, BUR, 2006; C. von Clausewitz, La Campagna del 1796 in Italia, Edizioni Libreria Militare, 2012; Mascilli Migliorini, Napoleone. L'uomo che esportò la Rivoluzione in tutta Europa, Salerno Editrice, 2001.

[2] Gli inizi del Regno di Carlo di Borbone furono caratterizzati da riforme, ricostruzioni e soprattutto da una forte dipendenza economica dalla corte di Madrid, dove Elisabetta Farnese esercitava la sua influenza su Napoli attraverso due nobili spagnoli a cui aveva affidato il figlio prima d'inviarlo in Italia: Manuel Domingo de Benavides y Aragón, conte di Santisteban, primo ministro e tutore del re, e José Joaquin Guzmán de Montealegre y Andrade, marchese di Montealegre, segretario di Stato.  

Un’autorità che sarebbe, invece, durata molto più a lungo rispetto ai due spagnoli fu quella di Bernardo Tanucci, professore di diritto all’Università di Pisa, che Carlo aveva conosciuto in Toscana e portato con sé a Napoli. Il Tanucci seppe presto imporsi come uno degli uomini più influenti della corte.

Il marchese di Montealegre, essendosi attirato le antipatie della regina Maria Amalia, moglie di Carlo, fu richiamato in patria nel 1746 e gli successe nella carica di primo ministro il piacentino Giovanni Fogliani Sforza d'Aragona, la cui nomina rappresentò un passo avanti verso una maggiore autonomia dalla corte spagnola. La morte di Filippo V avvenuta nello stesso anno e l'ascesa al trono del figlio di primo letto Ferdinando VI, misero fine al potere di Elisabetta Farnese, ponendo le premesse per l'effettiva indipendenza delle Due Sicilie dalla Spagna. Da questo momento Carlo cominciò a regnare autonomamente, limitando il potere dei ministri legati a Madrid. Cfr. R. Ajello, La vita politica napoletana sotto Carlo di Borbone. «La fondazione ed il tempo eroico» della dinastia, Napoli, 1972; G. Galasso, Mascilli Migliorini, L'Italia moderna e l'unità nazionale, in Storia d'Italia n.19, UTET, 1998; R. Mincuzzi, Bernardo Tanucci, ministro di Ferdinando di Borbone, 1759-1776, Dedalo, 1967.

[3] Cfr. E. Papa, Carestia ed epidemia nel regno di Napoli durante il 1763-64 nella corrispondenza tra la nunziatura e la segreteria di Stato, in Rivista di Storia della Chiesa in Italia, XXVIII,1974.; R. Bouvier, A. Laffargue, Vita napoletana del XVIII sec., Treves, 2006; D. De marco, Il crollo del Regno delle Due Sicilie, Edizioni Scientifiche Italiane, 2000; B. Croce, Storia del Regno di Napoli, a cura di Galasso, Adelphi, 1992.

[4] Cfr. R. De Lorenzo, Borbonia felix. Il Regno delle due Sicilie alla vigilia del crollo, Salerno Editrice, 2013.

[5] Per rendersi conto dell’alta percentuale basta fare riferimento ai verbali dell’interrogatorio contenuti nei processi prematrimoniali compilati dai sacerdoti curiali, dove solo il 4 per cento delle sposine era in grado di apporre la propria firma in calce. Tutte le altre usavano il generico signum crucis. Le poche donne che avevano imparato a scrivere e a leggere venivano guardate da padri e mariti con sospetto, talvolta con gelosia. Il loro destino era già segnato, spesso legato alla beneficenza di un ‘maritaggio’ oppure al ritiro in un convento. Anche le figlie di agiate famiglie aristocratiche o borghesi furono a lungo costrette ad entrare nei monasteri come educande per trovare insegnamenti adeguati e, chiaramente, l’istruzione era monopolio della Chiesa. Cfr. A. Illibato, La donna a Napoli nel Settecento, D’Auria, 1985; G. Dal Pozzo, Le donne nella storia d'Italia, Teti, 1969; S. F. Matthews-Grieco, Monaca, moglie, serva, cortigiana: vita e immagine delle donne tra Rinascimento e Controriforma, Morgana, 2001; R. De Maio, Società e vita religiosa a Napoli nell'età moderna, Edizioni Scientifiche Italiane, 1971. Archivio Storico Diocesano di Napoli, Processetti matrimoniali XVIII secolo.

[6] Illibato, cit. pp.103-110.

[7] Cfr. R. Sirri, La cultura a Napoli nel Settecento, in Storia di Napoli, voll. IX, Edizioni Scientifiche Italiane, 1976.

 

[8] Cfr. P. Gargano, Eleonora e le altre. Le donne nella rivoluzione napoletana, Magmata, 1998; A. Grardon, Le patriotisme et le courage, Vivarium, 2000.

[9] Il volumetto è citato in Gargano, Eleonora e le altre. Le donne nella rivoluzione napoletana, Magmata, 1998, p.15.

[10] Cfr. F. Schiattarella, La marchesa giacobina, Schiettini, 1973; E. Striano, Il resto di niente, Loffredo, 1986; M. A. Macciocchi, Cara Eleonora, Rizzoli, 1993; A. Orefice, Eleonora Pimentel Fonseca. L’eroina della Repubblica Napoletana del 1799, Salerno Editrice, 2019.

[11] Parafrasando la definizione Kantiana dell’Illuminismo. Cfr. I. Kant, Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, UTET, 1978.

[12] Cfr. P. Villani, Il dibattito sulla feudalità nel Regno di Napoli dal Genovesi al Canosa, in Saggi e ricerche sul Settecento, Istituto Italiano per gli Studi Storici, 1968.

[13] G.M. Galanti, Memorie storiche del mio tempo, Demarco, 1970, p.43. Galanti è stato incluso dallo storico Franco Venturi, fra gli illuministi della corrente ‘provinciale’, quella più attenta alle indagini empiriche e ai problemi immediati che il Regno di Napoli doveva affrontare nella seconda metà del Settecento. Questa corrente viene contrapposta all’altra anima dei riformatori napoletani, quella ‘utopistica’, le cui idee porteranno agli esiti rivoluzionari del 1799. In entrambi gli orientamenti vi era un sostrato comune che derivava dall’appartenenza alla scuola di Genovesi e dall’accesa polemica antifeudale, ma i rimedi e le politiche proposte erano profondamente diversi. La collocazione di Galanti nel primo gruppo è sicuramente motivata dalla sua opera più nota, la Descrizione geografica e politica delle Sicilie. Cfr. Venturi, Giuseppe Maria Galanti. Nota introduttiva, in Illuministi italiani, vol. V, Ricciardi, 1962.

[14] Cfr. Galasso, Il pensiero religioso di Antonio Genovesi, in Rivista storica italiana, 1970; E. Zagari, Il metodo, il progetto e il contributo analitico di Antonio Genovesi, in Studi economici, 2007.

[15] Cfr. M. Schipa, Il Regno di Napoli al tempo di Carlo di Borbone, Tipografia Pierro, 1904; E. Chiosi, Lo spirito del secolo. Politica e religione a Napoli nell’età dell’Illuminismo, Giannini, 1992; R. Ajello, La vita politica napoletana sotto Carlo di Borbone. «La fondazione ed il tempo eroico» della dinastia, Società Editrice Storia di Napoli, 1972; De Lorenzo, Risorgimento, democrazia, Mezzogiorno d’Italia. Studi in onore di Alfonso Scirocco, Franco Angeli, 2004.

[16] La Scienza della Legislazione uscì in prima edizione in due tomi in 8° a Napoli nel 1780 per i tipi della Stamperia Raimondi. Questa prima pubblicazione comprendeva solo la prima parte dell’opera alla quale seguirono negli anni seguenti diverse altre edizioni in più tomi..

[17] Venturi, Gaetano Filangieri. Nota introduttiva, in La letteratura italiana. Storia e testi, diretta da R. Mattioli, P. Pancrazi, 46° vol., Illuministi italiani, t. 5, Riformatori napoletani, Ricciardi, 1962, p.781.

[18] Cfr. V. Ferrone, La società giusta ed equa. Repubblicanesimo e diritti dell'uomo in Gaetano Filangieri, Laterza, 2003; F. Berti, Il repubblicanesimo di Gaetano Filangieri, Pensiero politico XXXVII, I, 2004; A. Trampus, M. Scola, Diritti e costituzione. L'opera di Gaetano Filangieri e la sua fortuna europea, Pensiero politico, X, 2007; G. Pecora, Il pensiero politico di Gaetano Filangieri. Una analisi critica, Rubbettino, 2007; G. Cassese, Filangieri, Gaetano. n. p. Oxford University Press, 1996; Galasso, La filosofia in soccorso de’ governi. La cultura napoletana del Settecento, Napoli 1989.

[19] Filangieri, La scienza della legislazione, ed. critica diretta da V. Ferrone, Edizioni della Laguna, 2003.

[20] Cfr. Galasso, Mascilli Migliorini, L'Italia moderna e l'unità nazionale, in Collana Storia d'Italia n.19, UTET, 1998.

[21] Cfr. G. La Cecilia, Storie segrete dei Borboni di Napoli e Sicilia, Di Marzo, 1860.

[22] P. Zito, Maria Carolina e la sua Blaue Bibliothek, in Io, la Regina. Maria Carolina d’Asburgo Lorena tra politica fede, arte e cultura, a cura di G. Sodano G. Brevetti in Mediterranea, Ricerche storiche, Quaderni, n.33: 167-195; cfr. F. Cacciapuoti, Una biblioteca tedesca a Napoli: la raccolta privata di Maria Carolina, in Il sogno mediterraneo. Tedeschi a Napoli al tempo di Goethe e di Leopardi, Macchiaroli, 1996.

[23] Cfr. De Lorenzo, Maria Carolina d’Asburgo Lorena, regina di Napoli e di Sicilia, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol.70, 2008; G. Motta, Regine e sovrane. Il potere, la politica, la vita privata, Franco Angeli, 2002; Orefice, Le Austriache, Maria Antonietta e Maria Carolina, sorelle regine tra Napoli e Parigi, Salerno Editrice, 2022.

[24] E. Le Roy Ladurie, L'ancien régime. Il declino dell'Assolutismo. L'Epoca di Luigi XV (1715-1770), Il Mulino, 2000.

[25] Le Moniteur, N.65 del 25 novembre 1798, p.263, in Il Monitore Napoletano, a cura di M. Battaglini, Napoli, Guida, 1999, p.714; Cfr. P. Murialdi, Storia del giornalismo italiano, Il Mulino, 1996; D. Marinelli, Memorie da Napoli 1799. I giornali giacobini, Borzi, 1988.

[26] La vicenda editoriale dell’opera è stata ricostruita da A. Trampus, La genesi e le edizioni della «Scienza della Legislazione», nella più recente edizione diretta da Ferrone e curata dallo stesso Trampus et al. per il Centro di Studi sull’Illuminismo europeo “Giovanni Stiffoni”, 7 voll., Venezia 2003-2004. Una pregevole ristampa anastatica dell’edizione del 1853 (Parigi, Stabilimento Tipografico di Carlo Derriey) è stata pubblicata a cura di E. Palombi dall’editore Grimaldi & C. a Napoli nello stesso 2003.

[27] Cfr. W. Hamilton, Dispacci da Napoli (1797-1799), a cura di G. Capuano, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici Press, 2006.

[28] Cfr. Correspondance inédite de Marie- Caroline reine de Naples et de Sicilie avec le marquis De Gallo, publiée et annotée par le commandant M. H.Weil et le Marquis C. Di Somma Circello, Emile-Pail, 1911.

[29] Cfr. T. Pedio, La congiura giacobina del 1794 nel Regno di Napoli, Levante, 1986; A. Simioni., La congiura giacobina del 1794 a Napoli, in Archivio Storico per le Province Napoletane, XXXIX, 1914.

[30] A: E. Piedimonte, Filangieri, il giurista che cambiò l’America ma non Napoli, articolo pubblicato su il «Quotidiano del Sud» del 28.04.2019.

[31] Nel 1783 Filangieri aveva sposato la contessa di origini ungheresi Charlotte Frendel, (Bratislava 1750 - Napoli 1828) damigella di corte, giunta a Napoli come istitutrice della principessa Maria Luisa, figlia di Ferdinando IV e Maria Carolina.

[32] Piedimonte, Filangieri, il giurista che cambiò l’America, cit.

[33] Cfr. Croce, La Rivoluzione napoletana del 1799, Bibliopolis, 1998; L CONFORTI, Napoli nel 1799, Anfossi, 1889; C. De Nicola, Diario napoletano, a cura di T. Leo e C. Pagano, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici Press, 2013; Marinelli, Memorie da Napoli 1799. I giornali giacobini, Borzi, 1988; Battaglini, Napoli tra Monarchia e Repubblica, Note e postille, Amal, 1996.

[34] Cfr. Orefice, Gli alberi della libertà e i matrimoni repubblicani del 1799, in Archivio Storico per le Province Napoletane, Società Napoletana di Storia Patria, 2016.

[35] Il Monitore Napoletano del 1799, a cura di Battaglini, cit., pp. 235-236.

[36] Ibid, p.642.

[37] Molto si è discusso circa l’apporto dei vari componenti del comitato alla stesura del Progetto. La vecchia ipotesi secondo cui gli autori furono Mario Pagano, Giuseppe Logoteta e Giuseppe Cestari appare definitivamente smentita dal fatto che nessun documento riporta i tre nomi indicandoli autori del testo, inoltre è certo che il Cestari, membro del Governo Provvisorio, non fece parte né del Comitato di legislazione né di altre commissioni e, anzi, venne addirittura estromesso.

[38] Secondo Gioele Solari la Costituzione fu opera personale di Mario Pagano, una tesi ripresa di Battaglini che però non ha escluso nella discussione la partecipazione di altri nell’ambito delle proprie conoscenze. Cfr. Solari, Studi su Francesco Mario Pagano, a cura di L. Firpo, Giappichelli, 1963; Battaglini, Mario Pagano e il Progetto di Costituzione della Repubblica Napoletana, Roma, Archivio G. Izzi, 1994.

[39] Nato nel 1748 a Brienza in Basilicata da una famiglia di notai, appena quindicenne, dopo la morte del padre, si trasferì a vivere con lo zio nella capitale del Regno, conseguendo la laurea in legge. Cfr. D. Ippolito, Mario Pagano. Il pensiero giuspolitico di un illuminista, Giappichelli, 2008; Solari, Studi su Francesco Mario Pagano, cit.; G. Jellinek, La dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino, Giuffrè, 2002.

 

[40] Cfr. N. Perrone, La Loggia della Philantropia. Un religioso danese a Napoli prima della rivoluzione, Sellerio, 2006.

[41] S.E., il Sign. Cav. D. Gaetano Filangieri, de’ prìncipi d’Arianello, gentiluomo di camera e maggiordomo di stagetimana di S. M., ufiziale nel Real corpo de’ volontari di marina.

Nel fortunato giorno, nel quale, già volge il dodicesimo anno, io mi esposi nell’Università napoletana al pubblico cimento del concorso per la cattedra dell’Etica di Aristotile, per la prima volta mi concedette la sorte, in un discorso sul sistema morale del gran filosofo stagirita avuto coll’E. V., di ravvisare nel di lei elevato spirito que’ rari semi d’ingegno che, fecondati poi col tempo, in tant’ampiezza e sublimità germogliarono; e mi apparvero altresì le nobili scintille di non ordinaria virtù, che poi, destate ed accresciute, in Italia e fuori con tanta luce e gloria vi manifestarono a tutti. Dopo lungo tempo mi si presentò di nuovo l’occasione di rinnovare la conoscenza antica e la mia servitù, quando di già il romore del vostro nome immortale avea scossa l’Italia e di là delle Alpi erasi ancora udito. Ma’ non prima d’ora (ciò che ho sempre sommamente desiderato) ho potuto con un pubblico monumento attestarvi la mia profonda venerazione e stima della vostra grande virtù me mi si è alla presente offerta l’opportunità di fare.

Tra le penose e moleste cure, tra gli strepiti e romori del foro, ho fatto una pruova delle mie deboli forze in una difficile impresa, quale e quanta per l’appunto si è una regolare tragedia. Ed avendone una formata, come per saggio, ho ardito di presentarla all’augusto ed incorruttibile tribunale de’ dotti, de’ quali le discrete correzioni le potranno in una ristampa procurare quel pregio, che ora per sé non ha. Le mie forensi occupazioni mi fanno sperare un compatimento umano:

Haec quoque, quae facio, iudex mirabitur aequus,

Scriptaque cum venia, qualiacumque leget.

Or, qualunque ella pur siasi, io ve la presento ed offro per segno e testimonio del mio grande ossequio e devozione. Ma perché il dono non fosse così picciolo di mole, come é pur di valore, alla tragedia aggiunsi la mia orazione latina, anni addietro data alla luce, della vittoria moscovita, nell'arcipelago riportata contro l'ot-tomana potenza, ed altresì la lettera, onde col dono di una medaglia mi onorò il signor Domasnev, presidente di quella Imperial Accademia di Pietroburgo. Or altra cosa a soggiunger non mi rimane. Forse dovrei, secondo il volgar costume di coloro che fanno le dediche, intessere il vostro elogio? Ma il vostro solo nome compiutamente lo fa. Esso ne desta l’idea dell’entusiasta amico dell’uomo, dell’eloquente e profondo politico, di colui finalmente che forma la felicità e la delizia degli amici ed è l’oggetto della stima de’ generosi allievi delle Muse; e, se questo a grandi uomini altresì conviene, io dirò del mio culto ancora. Onde soverchia sarebbe ogni qualsiasi lode.

Piacciavi adunque di rimirare non la viltà del dono, ma l’animo di chi vel presenta, mentre io ripieno della nobile idea della vostra amicizia (mio inestimabile pregio), mi annunzio per sempre. di V. E. Devotiss. obligatiss. servidore Francesco Mario Pagano. F. M. Pagano, Gli esuli Tebani, Napoli, s.e., s.d., pp. I-III.

https://distoriadistorie.blogspot.com/2014/07/una-lettera-di-mario-pagano-gaetano.html

Cfr. E. Lo Sardo, Il mondo nuovo e le virtù civili. L’epistolario di Gaetano Filangieri, Fridericiana editrice universitaria, 1999.

[42] Dell’edizione originale sono sopravvissute solo quattro copie conservate presso la Biblioteca Nazionale di Napoli, la Biblioteca del Senato, la Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea a Roma, ed un’ultima copia appartenuta a Mario Battaglini che l’ha riprodotta in anastatica in appendice al volume pubblicato nel 1994. Una edizione successiva risale al 1820, pubblicata da Angelo Lanzellotti e da cui derivano tutte le altre ripubblicazioni. Cfr. A. Lanzellotti, Costituzioni politiche delle principali nazioni, Stamperia Nazionale 1820.

[43] F. Morelli, Trampus, Progetto di Costituzione della Repubblica Napoletana presentato al Governo Provvisorio dal Comitato di legislazione, Venezia, Edizioni della Laguna, 2008, p.122.

[44] Cfr. Battaglini, La Repubblica napoletana. Origini, nascita, struttura, Bonacci, 1992.

[45] Cfr. D. Scarfoglio., Lazzari e giacobini. La letteratura per la plebe (Napoli 1799), Napoli, 1981

[46] Cfr. Galasso, Intervista sulla storia di Napoli, a cura di P. Allum, con una nota di Mascilli Migliorini, Bari, Biblioteca universale Laterza, 2018.

[47] Anni dopo, nel 1947, Benedetto Croce, ritrovò l’articolo della Pimentel nella biblioteca del barone Gennaro De Gemmis in Bari e non esitò a pubblicarlo, dimostrando l’integrità morale della sua compilatrice minacciata dalla supremazia francese. La trascrizione fu riportata in Quaderni della Critica, n.8, Laterza, 1947, pp.92-97.

[48] Cfr. Galasso, Filangieri tra Montesquieu e Constant, in La filosofia in soccorso de’ governi. La cultura napoletana del Settecento, cit. pp. 453-8; Cfr. N. Rodolico, Il popolo agli inizi del Risorgimento nell’Italia meridionale, Le Monnier, 1925; M. Vovelle, Il triennio rivoluzionario visto dalla Francia, 1796-1799, Guida, 1999.

[49] Cfr. L. Lerro, Compendio istorico della rivoluzione e controrivoluzione di Napoli, Magmata, 1999; G. Fortunato, I giustiziati di Napoli del 1799, Linea d’Ombra, 1992; Orefice, Tra le mani del Boia. Tre secoli di pena capitale a Napoli dai Viceré ai Savoia, Editoriale Scientifica, 2023; Orefice, La penna e la Spada, Arte Tipografica, 2009; J. Helfert, Fabrizio Ruffo. Rivoluzione e controrivoluzione di Napoli dal novembre 1798 all'agosto 1799, Loescher e Seeber, 1885;

[50] A. Cimbalo, La lunga marcia del Cardinale Ruffo alla riconquista del Regno di Napoli, a cura di Battaglini, A. Borzi, 1967.

[51] Cfr. M. D’Ayala, Vite degl'italiani benemeriti della libertà e della patria, Lombardi, 1999; Orefice, Mariano D’Ayala e il Pantheon dei martiri del 1799, IISF Press, 2012.

[52] Cfr. V. Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli del 1799, Procaccini, 1995. F. Lomonaco, Rapporto al cittadino Carnot, a cura di A. De Francesco, Lacaita, 1999.

[53] È noto l’episodio di Napoleone primo console, che, ricevendo Carolina Frendel, vedova di Filangieri, con i figli, fece trovare l’intera Scienza della legislazione sulla sua scrivania e salutandoli al loro arrivo esclamò: «Savez vous ce que c’est que tous ces livres que vous voyez sur cette table? C’est autant d’exemplaires des ouvrages de votre père, de ce jeune homme qui est notre maître à tous!». Cit. in G. Ruggiero, Il pubblico di Filangieri: dalle province del Regno alle capitali d’Europa, in Frontiera d'Europa», XVI, n. 2, 2010, p. 242.

 

 

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