Sul pluralismo ontologico
È ragionevole pensare che un oggetto possa essere visto e preso in considerazione in molti modi diversi. Non solo: un oggetto può giocare diversi ruoli, e per ciascun ruolo noi possiamo usare un linguaggio differente. Può accadere che i vari linguaggi si rivelino - almeno in una certa misura - incommensurabili ma, ciò nonostante, tali ruoli sono pur sempre comuni ad una entità designata dallo stesso nome. La scelta del linguaggio da usare di volta in volta dipenderà, ovviamente, da che cosa vogliamo dire in una determinata circostanza. Il problema del cosiddetto “primato ontologico” si può a questo punto impostare affermando che, per quanto ci riguarda, ciò che consideriamo “reale” dipende dallo schema concettuale in cui scegliamo di operare. Per esempio si può dire che un oggetto è reale perché una tale conclusione risulta “necessaria” entro un certo schema concettuale; la necessità relativa a uno schema, a sua volta, è quella proprietà che, qualora venisse negata, renderebbe inutile un intero modo di rapportarsi alla realtà. Pertanto, gli oggetti fisici sono reali nella cornice concettuale del senso comune perché, se lo neghiamo, ne seguirebbero dei danni fisici, e il compito primario della cornice del senso comune è quello di garantire la sopravvivenza. Le entità impercettibili sono reali nel contesto della scienza perché ad esse è demandata la spiegazione del comportamento degli enti osservabili, e il compito della scienza è proprio quello di spiegare. Se per sopravvivere abbiamo bisogno di sapere perché un certo oggetto “a” si comporta nella maniera “b” ci rivolgiamo alla scienza per avere una risposta. Concludere che ciò che è reale è “funzione di” ciò che è necessario entro uno schema sembra quindi del tutto ragionevole. Si possono tuttavia manifestare seri dubbi sul fatto che noi si sia davvero in grado di abbandonare il linguaggio (cioè lo schema concettuale) delle cose per adottarne un altro. I vincoli imposti dalla nostra struttura fisica sono tali e tanti che, probabilmente, un linguaggio di entità fenomeniche come quello menzionato da Carnap avrebbe comunque bisogno del linguaggio “cosale” per poter funzionare. Il compito del senso comune, dunque, non è la spiegazione, ma quello di fornirci un modo pratico per interagire con l’ambiente circostante, e tale interazione è a sua volta basata sulla concettualizzazione. La sopravvivenza costituisce quindi il suo criterio fondamentale e il suo obiettivo ultimo. Tutto questo significa forse che noi “costruiamo” la realtà? In una certa misura la risposta non può che essere positiva, dal momento che la nostra visione della realtà è sempre una questione di interpretazione. D’altro canto, l’interpretazione non è basata sul vuoto; per interpretare deve esserci qualcosa che può essere interpretato, e per quanto riguarda gli esseri umani è difficile aggiungere alcunché di significativo. Noi siamo alla costante ricerca della stabilità e della certezza, ma i nostri sforzi cognitivi affondano le loro radici nelle sabbie mobili. C’è davvero una profonda verità nella metafora di Neurath della nave concettuale che Quine menziona spesso nei suoi lavori: i filosofi non possono presupporre la stabilità quando non c’è. Ma si deve aggiungere che la nave di Neurath ha anche un aspetto “fisico”. I nostri concetti sono infatti legati (1) al mondo fisico in cui viviamo e (2) al nostro modo di interagire con esso. E siamo in pratica obbligati a interagire con esso in un certo modo, considerate le nostre caratteristiche fisiche e i vincoli che esse ci impongono. Proprio per questo non dobbiamo commettere l’errore di considerare il senso comune come una cornice in costante contrasto con la scienza: esso accetta i risultati scientifici nella misura in cui sono utili per la nostra vita di ogni giorno. Pertanto, almeno nel lungo periodo, il conflitto tra il senso comune e la visione scientifica del mondo appare meno drammatica di quanto comunemente si creda. Un oggetto può pertanto essere visto in molte maniere diverse senza che sussista la necessità di ridurre uno dei modi possibili a un altro. Non si può quindi accettare il primato ontologico delle entità teoriche della scienza, né risulta sostenibile l’incondizionata superiorità della visione scientifica del mondo. Ciò che possiamo dire è che i risultati della ricerca scientifica debbono essere adottati per arricchire la nostra comprensione della realtà; ciò che non possiamo sostenere, invece, è che tale comprensione deriva “soltanto” dall’immagine scientifica. Ontologicamente necessarie risultano quelle entità la cui negazione renderebbe vuoto il nostro discorso e, di conseguenza, il nostro approccio alla realtà. È stato suggerito a più riprese che, in presenza di una scienza che avesse raggiunto il suo stadio di completezza, scomparirebbe il bisogno di utilizzare il linguaggio impreciso del senso comune. Tuttavia, il linguaggio del senso comune è impreciso solo in riferimento agli scopi della scienza, e dovrebbe ormai essere chiaro che il livello di precisione che viene richiesto è una funzione di ciò che vogliamo concretamente fare. Ai fini della sopravvivenza, un linguaggio in grado di dirigere l’attenzione sugli oggetti collocati nel nostro campo percettivo è senz’altro sufficiente. Si pensi, ad esempio, ad un linguaggio in cui non vi fossero parole per oggetti comuni quali case e alberi: quale sarebbe la sua utilità per la vita quotidiana? Soltanto negando il fatto - a mio avviso evidente - che le diverse dimensioni dell’azione umana manifestano requisiti differenti si può sostenere che la razionalità è legata in modo esclusivo all’immagine scientifica del mondo. La scienza rappresenta dunque il tentativo costante di farci pervenire a livelli di realtà inaccessibili alla nostra percezione sensoriale. È, quindi, un allargamento del senso comune, e non la sua sostituzione. Ogni manifestazione della realtà ai soggetti umani dipende dalla prospettiva operativa che essi intrattengono nel mondo, e proprio per questo gli schemi concettuali sono tanto importanti. Sino a un’epoca abbastanza recente la scienza, seguendo l’esempio della fisica newtoniana, dava per scontata una precisa separazione tra l’osservatore e l’oggetto della sua osservazione. La scienza dei nostri giorni non giustifica più tale atteggiamento, e per questo motivo la nozione di schema concettuale è utilizzata non solo dai filosofi, ma anche dagli scienziati. In altre parole, non perdiamo il mondo perché siamo obbligati a descriverlo usando una particolare cornice. Le nostre asserzioni contengono sempre un qualche tipo di riferimento alla prospettiva operativa che impieghiamo per formularle, e questi sono i soli fatti che noi sperimentiamo nel mondo. Sarebbe tuttavia un errore credere che vi sia una maniera più corretta per descrivere i fatti, e ciò significa che, anche se il mondo non ha bisogno della nostra partecipazione per sussistere, il nostro accesso epistemico al mondo è garantito proprio da tale partecipazione. Ogni descrizione, quindi, è determinata dalla nostra prospettiva operativa. È consigliabile non pronunciare affermazioni troppo “forti” circa la realtà assoluta, anche se possiamo utilizzare le nostre capacità intellettive per immaginare come potrebbe essere. Ecco perché siamo costretti a dire che ontologia ed epistemologia non possono, almeno per quanto riguarda noi, essere separate mediante una linea di confine precisa. La nostra ontologia ha sempre connotati epistemologici molto forti oppure, per dirla in termini differenti, non si può negare che gli impegni ontologici presentino sempre un lato epistemologico. Ne deriva che non esiste uno schema concettuale assoluto, e che, inoltre, la scelta di uno schema dipende dai risultati che ci prefiggiamo di raggiungere. Lo stesso individuo può quindi usare più schemi nella vita di ogni giorno. Indubbiamente l’accettazione di uno schema comporta accettare come reali le entità in esso contenute, ma ciò non implica necessariamente il sovraffollamento ontologico paventato da Quine. Se prendiamo in considerazione l’esempio del tavolo contrapposto alla collezione di particelle subatomiche, possiamo chiederci: esiste il tavolo, esiste la collezione di molecole, oppure esistono entrambi? La risposta è che queste cose non esistono nello stesso contesto. Dobbiamo quindi ricorrere a due cornici: lo schema concettuale di una certa teoria fisica e quello del senso comune. Se rammentiamo che l’ontologia è funzione della cornice che scegliamo, non sorge alcun sovraffollamento ontologico, in quanto non vi sono particelle nella cornice del senso comune né tavoli in quella della fisica.
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