Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Calatafimi, 1860, una battaglia decisiva

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Nella campagna di Calatafimi, in Sicilia, il 15 maggio 1860, faceva molto caldo nonostante fosse primavera.

I Mille, sbarcati due giorni prima a Marsala, sostavano a circa tre chilometri dall’abitato in una vallata tra un modesto rilievo pietroso, il Monte Pietralunga, e un ripido pendio traversato da numerosi terrazzamenti in muratura chiamato Pianto dei Romani.

Avevano appena ricevuto la pagnotta di mezzogiorno, quando suonò la carica; i borbonici stavano scendendo il pendio e bisognava fermarli.

Dopo un’intensa fucileria Garibaldi ordinò l’assalto alla baionetta.

La lotta divenne feroce e di esito incerto tanto che Nino Bixio, generale in seconda, propose la ritirata.

Garibaldi, valutate le conseguenze disastrose che ne sarebbero derivate, decise di proseguire la battaglia. Gli assalti, più volte ripetuti per conquistare e mantenere i successivi terrazzamenti, raggiunsero il massimo d'intensità nel primo pomeriggio.

Quando l'avanguardia dei garibaldini riuscì a raggiungere l'altura suonò la ritirata per i borbonici. La battaglia era vinta. Le pagnotte non consumate furono ritrovate alla sera nei terrazzamenti del Pianto dei Romani.

Tra le innumerevole battaglie che hanno costellato le guerre quella di Calatafimi ebbe dimensioni ridotte anche se fu decisiva per la campagna successiva.

 

L’esercito di Garibaldi era costituito da circa 1000 unità tra Cacciatori delle Alpi, provenienti dalle precedenti guerre d’indipendenza, e volontari, giovani rivoluzionari e studenti; a loro si erano aggiunti circa 1000 volontari siciliani, i picciotti.

L’esercito borbonico consisteva in circa 3000 unità ed era diretto dal generale Francesco Landi.

Allo scontro sul Pianto dei Romani parteciparono solo alcune centinaia di soldati da una parte e dall’altra.

L’armamento era modesto nei due schieramenti; la scarsità di munizioni in quello garibaldino aveva indotto lo stesso Garibaldi a raccomandare l’assalto alla baionetta contando sull’entusiasmo e lo spirito combattivo dei suoi uomini.

 «Bisogna esser ben parchi di tiri e ricorrere, se si debba pugnare, allo spediente più spiccio della baionetta.»

Lo scontro terminò dopo circa tre ore; al termine si contarono 25 morti e 94 feriti tra i garibaldini e 35 morti e 110 feriti tra i borbonici.

La vittoria di Calatafimi è stata attribuita al diverso atteggiamento di fronte al combattimento dei due eserciti: da una parte il coraggio e la determinazione dei garibaldini e l’esperienza dei loro ufficiali, compreso ovviamente il carisma di Garibaldi, dall’altra lo sconcerto dei borbonici convinti di trovarsi di fronte ad una banda male armata di malviventi e straccioni, sorpresi dalla fucileria iniziale e dai successivi attacchi alla baionetta, comportamenti molto diversi da quelli delle bande di briganti con le quali erano soliti scontrarsi.

Nelle Lettere garibaldine il 28 maggio Ippolito Nievo scrisse alla cugina : «Noi mille assalimmo, il Generale alla testa: senza posa, senza prudenza senza riserva fu impegnato fin l’ultimo soldato perché quella giornata decideva di tutta la spedizione. I tre bastioni naturali, erti come muraglie, furono espugnati con cinque cariche alla baionetta.»

La ritirata ordinata dal generale borbonico, che temeva di essere tagliato fuori da Palermo a causa delle sollevazioni popolari, pose fine alla battaglia.

Tra gli episodi celebrati dall'epica risorgimentale è riportato il primo assalto alla baionetta compiuto dai bergamaschi dell'8ª compagnia chiamati a raccolta con urla in dialetto da Francesco Nullo che non apparteneva alla stessa compagnia.

Molte furono le vittime tra i giovanissimi garibaldini.

Durante la battaglia, Schiaffino, un garibaldino, si slanciò da solo contro i borbonici per innalzare sul colle la bandiera donata a Garibaldi dalle donne di Valparaiso e fu trafitto dai colpi.

Augusto Elias, un altro garibaldino vedendo un soldato borbonico prendere di mira Garibaldi, si lanciò per coprirlo, ricevendo un proiettile in bocca. Caduto al suolo sanguinante, venne rovesciato faccia a terra dallo stesso Garibaldi, che gli disse: «Coraggio, mio Elia di queste ferite non si muore!»

Lo scrittore Cesare Abba ha attribuito a Garibaldi la famosa frase «Qui si fa l’Italia o si muore», di fronte alla proposta della ritirata.

Poiché è ormai accertato che la storia umana è un insieme complesso di personaggi ed eventi in bianco e nero, con ampie zone grigie, era inevitabile il comparire di una pubblicistica storiografica tesa a smontare il mito di Garibaldi (Cfr. I. Montanelli – M. Nozza, Garibaldi, Milano, 1972), e delle imprese garibaldine.

Su internet è consultabile La vera storia dell’impresa dei Mille, di Giuseppe Scianò, leader storico degli indipendentisti siciliani, deceduto nel 2022, il quale sosteneva che la rivoluzione garibaldina aveva segnato la fine definitiva di ogni aspirazione autonomista della Sicilia.

Queste le sue argomentazioni principali sulla battaglia di Calatafimi:

«Lo sbarco a Marsala fu possibile solo con il beneplacito delle navi inglesi ivi presenti; i garibaldini erano in realtà più numerosi dei borbonici; una parte dei volontari siciliani, i picciotti, erano sospettati di collegamenti con la mafia; la strategia di Garibaldi era confusa; la frase  “Qui si fa l’Italia o si muore” fu in realtà “Italiani qui bisogna morire”; la vittoria fu dovuta al “tradimento “ di Landi, il vecchio generale borbonico, che non solo non inviò truppe adeguate per la battaglia al Pianto dei Romani, ma ordinò la ritirata definitiva per Palermo.»

In un Paese a regime democratico non possono essere ignorate le diverse interpretazioni degli eventi storici, ma bisogna tener presente che esiste non solo la retorica, ma anche un protagonismo dell’antiretorica che tende ad appiattire il significato degli eventi.

Dopo la battaglia di Calatafimi i garibaldini entrarono a Palermo che insorse il 27 maggio, nel settembre Napoli li accolse trionfalmente, nell’ottobre fu proclamato il Regno d’Italia. Il sogno di un’Italia libera ed unita si era realizzato.

 

 

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