Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Il centenario della nascita di don Lorenzo Milani

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Don Lorenzo Milani nacque a Firenze il 27 maggio di 100 anni fa.

Fu un prete scomodo; ma fu, soprattutto, un Maestro di vita, un pungolo costante, un punto di riferimento per la pedagogia e la didattica di una Scuola di inizio anni ’70 del secolo scorso.

 In quei tempi non così lontani, infatti, sulle porte delle scuole –metaforicamente- ancora era scritto il motto squadrista «Me ne frego».

Con don Lorenzo, invece, si cambiò e sulle porte della scuola comparve «I care». Un interesse che spinse molti a “fare ed essere Scuola”, secondo i criteri di una Istituzione statale, pubblica ed antifascista.

A Napoli, tra i primi a parlare in forma diffusa di don Lorenzo Milani e del suo impegno politico-culturale-sociale fu Nino Pino, il preside della Scuola Media “G. Lombardi” alla Sanità.

Ancora ricordo la sua prima lezione ad un corso di abilitazione all’insegnamento di materie letterarie (al quale partecipavo); presentatosi con un borsone da viaggio pieno di libri, il preside Pino disse brevemente di sé, poi, tirando fuori, uno a uno, i libri dalla sacca, parlò a noi giovani laureati in lettere in attesa di insegnamento, di ognuno di quei volumi, chiedendo se mai li avessimo letti e cosa ne pensassimo: Vittoria Ronchey Figlioli miei, marxisti immaginari, Ivan Illich Descolarizzare la società, Albino Bernardini Un anno a Pietralata, Umberto Eco Apocalittici e integrati.

 

Quando, poi, dal fondo del borsone estrasse gli ultimi due volumi, aggiunse: «Questi sono gli unici libri risparmiati al rogo del ’68: sono Il libro rosso dei pensieri di Mao Tse Tung e Lettera a una professoressa di don Lorenzo Milani».    

Un altro tramite col pensiero e l’azione del prete di Barbiana fu Gaetano Arfè: «Di don Milani mi aveva parlato Marcello Del Piazzo, un mio collega dell’Archivio di Stato, reduce dalla prigionia in Germania, dirigente dell’Azione Cattolica, cristiano oltre che democristiano. Mi aveva informato della scuola di San Donato a Calenzano e dell’opera svolta da quel giovane prete».

Quindi Arfé, poco tempo dopo, fu contattato personalmente dallo stesso don Milani. Il prete “eretico”, infatti, gli scrisse una lettera in cui presentava la “sua” scuola e lo invitava a tenere qualche lezione di storia del socialismo a degli alunni “particolari”.

«Erano tutti giovani e quasi tutti operai o contadini. La scuola aveva una disciplina prussiana: i ragazzi, infatti, finita la giornata di lavoro, andavano a scuola, pulivano, tenevano in ordine la stanza e, poi, seguivano le lezioni.

Nell’aula non c’era il crocefisso, perché la scuola doveva essere rigorosamente laica. Per chi voleva avvicinarsi alla dottrina cattolica, c’era la canonica, luogo in cui don Lorenzo teneva lezioni di catechismo. I due ambiti, infatti, erano tenuti rigorosamente distinti.

I ragazzi erano in prevalenza comunisti: alcuni si convertirono e diventarono cattolici, senza cessare di essere socialisti o comunisti. Tuttavia era una scuola per pochi, perché richiedeva qualità umane che non erano di tutti, perché i ragazzi dovevano lavorare tutto il giorno, interessarsi, contemporaneamente, di tutti i problemi relativi all’organizzazione ed alla gestione della scuola stessa e studiare con impegno. Una volta, da Prato, donarono alla scuola di don Milani alcuni biliardini: il priore, sentiti i ragazzi, lo buttò in un pozzo!».

Su don Milani e la sua scuola si girò anche un film: gli attori furono sia i ragazzi che i docenti invitati volta per volta. Ragion per cui, Arfè fu chiamato a ripetere, davanti ad una macchina da presa, una delle lezioni tenute ai giovani studenti fiorentini. Altri interpreti di se stessi, nel film, furono Giorgio La Pira ed Amintore Fanfani.

Gaetano Arfè, in tutti gli anni in cui l’ho frequentato, ha sempre parlato di don Lorenzo Milani con un sentimento di rispetto e di stima. 

«Era rigorosissimo in tutto. E non era affatto un prete accomodante. Ogni suo interlocutore era visto in funzione del suo disegno. Parlava solo con quelli che potevano essere utili alla sua attività pastorale. Non coltivava amicizie convenzionali.

Le sue relazioni erano sempre in funzione del suo disegno pastorale. In questo aveva la forma mentis del vero rivoluzionario. Per la sua scuola, poi, selezionava personalmente i docenti invitati a tenere conversazioni. Ad essi era concessa massima libertà di opinione, purché espressa con buona fede. Ed il giudice della buona fede era lui. 

Posso dire che conquistai la sua stima al punto che mi fece leggere il dattiloscritto di “Esperienze Pastorali”. Nelle aspre polemiche che seguirono la pubblicazione del suo libro negli ambienti cattolici, egli scrisse in una lettera, pubblicata, che io, laico, a differenza di molti suoi confratelli, avevo capito l’ortodossia del suo cattolicesimo.»

A 100 anni dalla nascita ed a 56 dalla pubblicazione di Lettera a una Professoressa, cosa resta della lezione di don Lorenzo Milani?

A parole (come sempre accade) tutto il bene possibile. Serve però una vera didattica innovativa, una capacità di “saper leggere i tempi”, la necessità di far capire che non servono eroi ma martiri di una causa comune. E don Lorenzo Milani fu ed è martire, perché il martire è un testimone.

A 100 anni dalla nascita, don Lorenzo può essere onorato in un solo modo a lui congeniale. Riconoscendo spazio al suo apostolato ma, soprattutto, chiedendo alla Scuola di riscrivere sul portone d’ingresso «I care».

Per educare ad un nuovo umanesimo, senza revisionismi della Storia, senza animare fantastici complotti che portano a sostituzioni etniche, senza paura di coltivare il seme dell’unica rivoluzione possibile: quella che si combatte con le armi della conoscenza, della cultura, della partecipazione.

 

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