Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Pragmatismo e pensiero contemporaneo

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Donald DavidsonUno degli assunti di base del pragmatismo è che tutti gli esseri umani in quanto tali condividono certi tratti della realtà e, di conseguenza, hanno accesso ad un insieme comune di percezioni e di rappresentazioni; tale insieme, a sua volta, produce delle credenze intersoggettive che formano una base “ragionevolmente” oggettiva per agire nel mondo.

È ovvio che il termine “oggettività” assume, in questo caso, un significato diverso rispetto a quello tradizionale.

Si tratta di un’oggettività tutto sommato debole, e non riconducibile alla nozione di rappresentazione fedele (o “rispecchiamento”) di una realtà indipendente dal soggetto che conosce.

Tuttavia è opinione dei pragmatisti che tale oggettività debole sia l’unica a nostra disposizione, il che significa che essa deve essere il punto di partenza delle indagini umane intorno al mondo. Ne consegue, in ultima analisi, che possiamo certamente parlare di teorie scientifiche “migliori” di altre, ma tale aggettivo non dev’essere inteso in termini assoluti.

Una teoria è migliore quando ci consente di organizzare in modo più adeguato (nel senso pratico del termine) le percezioni sensoriali che noi tutti condividiamo in quanto esseri umani, e di dar quindi vita a credenze che, per quanto fallibili, sono ferme e difficili da abbandonare.

L’influenza di tali tesi è percepibile negli scritti di un autore come Donald Davidson, che pure non si è mai auto-proclamato pragmatista. Egli ha a più riprese proposto di fare ricorso al cosiddetto “principio di corrispondenza”, il quale spinge un interprete a presumere che il parlante reagisca alle medesime caratteristiche del mondo cui egli stesso reagirebbe in circostanze analoghe.

Non si tratta, in fondo, di un principio molto diverso da quello costantemente invocato dai teorici della simulazione. Essi partono dalla premessa che nella vita di ogni giorno, quando vogliamo comprendere azioni e comportamenti dei nostri simili, ci impegniamo in una sorta di “simulazione pratica” che acquista le caratteristiche di un gioco (per quanto molto serio).

 

La simulazione è assai simile alla capacità, posseduta soprattutto dagli attori, di calarsi nei panni di un’altra persona dimenticando le proprie caratteristiche individuali. Ma non si tratta soltanto di decidere che cosa noi stessi faremmo in quelle circostanze.

Occorre pure cercare di capire che cosa faremmo se fossimo al posto dell’individuo il cui comportamento intendiamo prevedere: è chiaro, insomma, che preferenze, idiosincrasie ed aspettative personali devono recedere - per quanto è possibile - sullo sfondo.

Entro la prospettiva davidsoniana, soltanto facendo ricorso a un principio di corrispondenza come quello dianzi accennato siamo in grado di attribuire dei contenuti alle espressioni linguistiche del soggetto da interpretare. Si manifestano tuttavia dei problemi, il primo dei quali deriva dalla natura olistica che Davidson, sulla scia di Quine, attribuisce al significato.

Se è corretto affermare che il significato emerge soltanto all’interno di un contesto, allora è evidente che non possiamo attribuire un contenuto ad un enunciato senza prima assegnare contenuti ad un insieme di altri enunciati. Sembra pertanto conseguire da tale constatazione l’impossibilità della stessa traduzione radicale, dal momento che i dati su cui viene costruita la nostra teoria della verità discendono dall’esame di singoli enunciati. In altre parole, non potremmo affatto sviluppare una teoria della verità senza prima attribuire dei contenuti iniziali ad enunciati presi singolarmente.

D’altro canto, non siamo in grado di attribuire tali contenuti iniziali prima di disporre di una teoria della verità: non si dimentichi, infatti, la summenzionata caratterizzazione olistica del significato che Davidson sottolinea.

La risposta davidsoniana si fonda sull’appello alle nostre conoscenze - che egli reputa condivise - circa il carattere fondamentale degli interessi e delle risposte umane all’ambiente circostante. Utilizzando per l’appunto la nostra capacità di simulare il comportamento altrui, possiamo decidere quali sono gli aspetti della realtà ai quali si riferiscono gli enunciati del soggetto da interpretare.

Dato quello che sappiamo circa le caratteristiche fondamentali degli esseri umani, possiamo formulare delle ipotesi ragionevoli circa ciò che un soggetto intende dire pronunciando degli enunciati. Trattandosi di ipotesi è ovvio che corriamo sempre il rischio di incorrere in errori, ma è d’altro canto evidente che gli errori si possono accertare solo tentando il gioco di simulazione di cui abbiamo in precedenza parlato.

Il principio di corrispondenza, dunque, presuppone che vi sia un certo livello di accordo, non soltanto circa ciò che interprete e soggetto da interpretare “vedono”, ma anche a proposito di come (e perché) essi reagiscono all’ambiente in un modo piuttosto che in un altro.

Ed è proprio tale accordo che rende possibile l’interpretazione linguistica. L’idea di trattare gli esseri umani come se condividessero un mondo comune è necessaria all’interpretazione, e ci consente altresì di comprendere il fenomeno del significato.

Indubbiamente, le cose si complicano quando si tratta di interpretare espressioni linguistiche molto sofisticate come le metafore e gli enunciati teorici della scienza; tuttavia, dando per scontato che il significato sia verificabile, le difficoltà sono destinate ad appianarsi via via che le nostre capacità di comprensione si sviluppano e si affinano.

Le precedenti considerazioni ci mostrano che l’influenza del pragmatismo sulla filosofia analitica e postanalitica contemporanea assume spesso un carattere mediato, che solo un interprete attento e a conoscenza delle tesi di Peirce, James e Dewey è in grado di discernere. A ciò va aggiunto che buona parte delle idee pragmatiste risultano compatibili con le idee di fondo della tradizione analitica.

Il lavoro di autori come Quine e Rescher, ad esempio, dimostra che la filosofia analitica può salvaguardare la propria eredità intellettuale e metodologica interagendo con tradizioni di pensiero che siano con essa in sintonia circa alcune tematiche di fondo. Rescher ha sviluppato, a partire dagli anni ’60, intuizioni contenute in articoli quineani apparsi nel decennio precedente. In seguito Putnam, Rorty e, in una certa misura, Davidson, hanno seguito la stessa strada.

Una delle ragioni principali che induce parecchi filosofi analitici a guardare con sospetto il pragmatismo è la sottovalutazione pragmatista della logica formale.

Ovviamente ciò non vale per Charles S. Peirce, i cui contributi alla logica come noi oggi la conosciamo sono innegabili; tuttavia Peirce è un filosofo del secolo scorso, e gli strali polemici di solito sono rivolti a un pensatore più recente come John Dewey.

Occorre riconoscere che un logico contemporaneo può trovare “strane” molte tesi contenute nella fondamentale opera deweyana Logica: teoria dell’indagine.

Questo lavoro, infatti, critica alcuni presupposti fondamentali della logica simbolica così come essa è stata sviluppata a partire dalla metà del secolo scorso, presupposti che trovano una formulazione esplicita e precisa nel manifesto del Circolo di Vienna.

Dal momento che secondo i neopositivisti il significato di ogni asserto scientifico deve essere specificabile ricorrendo ad asserti concernenti dati empirici, anche il significato dei concetti scientifici deve essere riducibile in ultima istanza a concetti del più elementare livello possibile, cioé a quelli correlati ai dati empirici fondamentali. In un simile approccio riduzionista l’analisi logica gioca un ruolo fondamentale, essendo legata alla stessa visione scientifica del mondo sostenuta dai neopositivisti.

La Logica di Dewey anticipa parecchie delle critiche che i postempiristi hanno in seguito rivolto a tale visione. Se essa viene vista da una prospettiva storica diventa, come affermano Richard Rorty e altri autori postanalitici, uno “stile di ragionamento” fra molti altri, le cui radici filosofiche possono esser fatte risalire alle tesi di Ernst Mach e all’atomismo logico di Bertrand Russell e del primo Wittgenstein. Ma ciò significa che anche la logica vive “nella” storia.

Non si può considerare una sua particolare formulazione come stabilita una volta per tutte, né essa può essere imposta come un paradigma da accettare senza discussione.

Contrariamente a neopositivisti e neoempiristi, Dewey non traccia una linea di confine rigida tra soggetto e oggetto. Tale linea di confine altro non è per lui che una distinzione “funzionale” che noi adottiamo nella vita di ogni giorno per scopi pratici; essa non dovrebbe però nascondere un fatto ben più importante, e cioé che la conoscenza umana sorge all’interno di un processo unitario nel quale stimoli e risposte si riferiscono sempre a situazioni concrete. Si noti, a tale proposito, la concordanza con quanto emerge dallo studio della meccanica quantistica. Afferma ad esempio Werner Heisenberg che «La scienza naturale non descrive e spiega semplicemente la natura; descrive la natura in rapporto ai sistemi usati da noi per interrogarla. È qualcosa, questo, cui Descartes poteva non aver pensato, ma che rende impossibile una netta separazione fra il mondo e l’Io».

 

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