Mosca ormai dipende da Xi Jinping
Il vertice di Mosca tra Vladimir Putin e Xi Jinping conferma un quadro che già si intuiva a grandi linee, ma che ora riceve una legittimazione ufficiale nonostante i tentativi Usa – piuttosto tardivi – volti ad incrinare il patto tra i due autocrati. In primo luogo, tutti ora hanno capito che la cosiddetta “alleanza senza limiti” stipulata da russi e cinesi esiste sul serio. Può darsi, come molti sostengono, che si tratti di un patto di mera convenienza, ma ciò non toglie che sia estremamente importante. La convenienza, infatti, è un tratto essenziale della politica estera e non andrebbe mai sottovalutata. Xi ha detto apertamente che “sta arrivando un cambiamento che non s’era mai visto nell’ultimo secolo”, ed è un avvertimento diretto all’Occidente. Tanto Putin quanto Xi vogliono ad ogni costo sovvertire l’ordine mondiale esistente che, in buona sostanza, è a guida americana. E, per farlo, devono stare insieme, superando le storiche e antiche diffidenze che dividono i due Paesi. Per dirla in termini ancora più schietti, vogliono porre fine all’egemonia che americani e inglesi (gli “anglosassoni”, come loro li chiamano) hanno finora esercitato sul piano globale. Ecco quindi il progetto di diminuire l’influenza militare, culturale e diplomatica che gli Stati Uniti, con l’appoggio del Regno Unito, mantengono in Europa. In questo senso, Pechino non ha alcun interesse all’indipendenza dell’Ucraina schierato nettamente con l’Occidente. Preferisce una situazione “quasi sovietica” con tante nazioni satellite rientranti nell’orbita di Mosca.
Attenzione però. Considerati gli attuali rapporti di forza, i satelliti di Mosca diventerebbero ipso facto anche satelliti di Pechino, consentendo a Xi Jinping di assumere un ruolo decisivo in Europa nonostante l’opposizione di Nato e Ue. Zelensky quindi si illude quando crede che la Repubblica Popolare possa davvero svolgere un ruolo di mediazione nel conflitto ucraino. Lo stesso discorso vale per il contesto asiatico, dove Xi (spalleggiato da Putin) giudica illegittima la presenza militare americana. Echeggiando lo slogan del Giappone imperiale negli anni ’30 e ’40 del secolo scorso, parla di “Asia agli asiatici” e sostiene che i problemi del continente debbano per l’appunto essere risolti dagli stessi asiatici, senza ricorrere a influenze esterne. L’Ucraina di Xi è Taiwan. Il capo cinese si attende dall’ordine mondiale prossimo venturo la soluzione del problema dell’isola ora indipendente de facto. E, a questo fine, può contare su alleati pure nella stessa Taiwan, dove il Kuomintang, che era il partito di Chiang Kai-shek, vuole dialogare con la “madre patria” contrapponendosi all’attuale presidente indipendentista Tsai Ing-wen. La suddetta “alleanza senza limiti” ha un prezzo molto alto per Putin. Dalle immagini del vertice si nota lo zar moscovita in posizione sottomessa e ossequiente nei confronti del “nuovo Mao”. Quest’ultimo, invece, appare molto sicuro di sé e quasi “paterno”, come se Putin fosse un fratello minore che attende aiuto e consiglio. Non è affatto escluso che, in futuro, la Repubblica Popolare decida di aiutare la Federazione Russa anche dal punto di vista militare, a dispetto degli avvertimenti occidentali (e americani in particolare). Del resto il piano di pace cinese è in realtà un fake, poiché conferma che a Pechino interessa sì la fine della guerra, ma a patto che i russi non subiscano una sconfitta disastrosa. Proprio per questo invita le parti alla trattativa, lasciando però intendere che le aree occupate dalle truppe di Putin non devono essere restituite a Kiev. Il problema vero è che la crisi ucraina coglie Stati Uniti e Occidente in un momento di grave debolezza. Sono soprattutto gli Usa a preoccupare. La debolezza di Joe Biden è ormai nota e non mette conto ribadirla. A essa vanno aggiunte le convulsioni interne che non sembrano finire mai, con Donald Trump sotto inchiesta e un Ron DeSantis che non appare abbastanza forte per sfidarlo. Senza trascurare che il caos regna anche nel campo democratico. Non bisogna infine trascurare i problemi culturali. Gli Usa sono in passato riusciti a utilizzare il loro soft power nel mondo intero. Ora con cancel culture, wokismo ed eccessi del politically correct sono un Paese ben diverso e meno attrattivo. Elemento di debolezza che le autocrazie stanno sfruttando a piene mani.
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