Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Amatore Sciesa e Don Enrico Tazzoli, eroi del Risorgimento

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Della storia del nostro Risorgimento si rievocano di solito figure mitiche, battaglie epiche, intrighi diplomatici internazionali, ma rimangono talora in ombra le umiliazioni, la prigionia, le torture, e infine la perdita della vita di personaggi meno conosciuti come Amatore Sciesa e Don Enrico Tazzoli, fucilati ed impiccati per la loro azione patriottica, due eroi da ricordare.

Amatore Sciesa era nato a Milano il 12 febbraio 1814, di umili origini, popolano, di professione tappezziere.

Nel 1850, a 34 anni, entrò in contatto con alcuni gruppi clandestini repubblicani che lottavano contro il dominio dell’l’Austria sulla Lombardia e sul Veneto.

Erano passati appena due anni dalle cinque giornate di Milano e Radetzky, governatore del Lombardo Veneto, perseguiva una politica ferocemente repressiva, che non lasciava altro scampo ai patrioti lombardi che la sottomissione, la forca o l'esilio.

Il suo proclama era perentorio: «in considerazione della aumentata pericolosità di sette e di movimenti fanatici, che tentano di contrastare l'autorità dell'Imperial-Regio Governo, chiunque sarà colto nell'atto di svolgere attività sovversiva in qualunque forma sarà consegnato alla Gendarmeria e immediatamente impiccato».

La sera del 30 luglio 1851 Sciesa venne bloccato, in corso di Porta Ticinese, in possesso di manifestini rivoluzionari, e arrestato con l'accusa di averne affisso alcune copie.

Rifiutandosi d’indicare i nomi degli altri congiurati fu condannato a morte con un processo sommario. Ma in assenza del carnefice, non fu impiccato, bensì fucilato.  

Sono diverse le versioni della frase che lo ha reso noto nei libri di scuola, e che conferma la sua volontà di non tradire: secondo la tradizione popolare, l’avrebbe detta in dialetto milanese, «Tiremm innanz» (Andiamo avanti) rivolgendosiad un gendarme, che conducendolo al luogo di esecuzione, l'aveva fatto passare sotto le finestre di casa sua, esortandolo, col pensiero della famiglia, a rivelare i nomi di altri rivoluzionari in cambio del rilascio.

Una seconda versione proviene da don Giuseppe Negri, il sacerdote che lo accompagnò al patibolo: la frase sarebbe stata rivolta a lui che lo esortava a confessare.

Dagli atti del processo sembra infine che le parole siano state pronunciate durante il processo stesso: «Mi soo nagott! Podi minga parlà, e parli no! Quel che è faa, è faa!» (Non so niente! Non posso parlare e non parlo! Quello che è fatto, è fatto).

In ogni caso, le diverse versioni non modificano l’eroica decisione di rinunciare alla vita pur di non tradire i compagni. 

Don Enrico Tazzoli nacque a Canneto sull’Oglio il 19 aprile 1812, da nobile famiglia mantovana.

Iniziò a manifestare inclinazione alla vita sacerdotale fin dagli anni giovanili; dopo il liceo completò gli studi teologici e fu ordinato sacerdote a Verona e nel 1835, celebrò la sua prima Messa. Insegnante di filosofia e storia universale nel seminario vescovile di Mantova nel corso ginnasio-liceale, nel 1844 pubblicò il Libro del popolo contro le disuguaglianze.

Fu arrestato la prima volta il 12 novembre 1848 per aver pronunciato nel Duomo di Mantova una predica contro le potenze imperiali che vollero il saccheggio di Mantova del 1630 da parte dei lanzichenecchi, una evidente  allusione agli “imperiali” austriaci contemporanei.

L'arresto ebbe solo una valenza intimidatoria; durante la perquisizione della casa si chiuse un occhio sulla sciarpa tricolore che si trovava esposta in mezzo ai libri, e si intimò alla madre del sacerdote di bruciare l’opera di Ignazio Cantù, Le 5 giornate di Milano e le poesie del Berchet.

Tazzoli fu rilasciato, e ritornando a casa trovò una nutrita folla ad applaudirlo.

Molto impegnato nell'assistenza filantropica e nella educazione popolare, secondo i principi di un suo cristianesimo “illuminato”, con lo spirito umanitario e “democratico” delle lotte risorgimentali, tanto da definire il supremo amor di patria la sua “seconda religione”.

Pur non condividendo la visione religiosa di Mazzini, riteneva che il movimento della Giovine Italia fosse l'unico ad avere organizzazione e adesioni sufficienti ad assicurare concretezza d'azione.

Nel novembre 1850 venti patrioti mantovani parteciparono ad una seduta per porre le basi di un comitato insurrezionale antiaustriaco.

Enrico Tazzoli fu il principale organizzatore e coordinatore della congiura.

In accordo con Mazzini, esule a Londra, s’impegnò attivamente nella sottoscrizione delle cartelle del prestito interprovinciale mazziniano.

La polizia austriaca venuta in possesso di alcune cartelle anche infliggendo la tortura, scopri la congiura e Tazzoli fu arrestato nel gennaio 1852.

Gli vennero sequestrati molti documenti, fra i quali un registro cifrato in cui aveva annotato incassi e spese, con i nomi degli affiliati che avevano versato denaro.

La chiave di lettura del registro era incentrata sul Pater Noster. Furono arrestati inscritti di Mantova, Verona, Brescia e Venezia.

Per non entrare in conflitto con il diritto ecclesiastico, le autorità austriache ottennero un ordine speciale di Pio IX per la riduzione allo stato laico di Tazzoli.

Il vescovo di Mantova, noto per e sue posizioni contro il potere temporale antiaustriache e filoliberali, e che si era rifiutato in precedenza di sconsacrare don Giovanni Grioli, il primo dei martiri di Belfiore, fu costretto ad ubbidire.

Lesse a Tazzoli la formula di condanna, gli tolse i paramenti sacri che indossava e raschiò con un coltello le dita, che avevano sorretto l'ostia consacrata.

La condanna a morte per impiccagione fu eseguita il 7 dicembre 1852 in località Belfiore, poco fuori le mura della città di Mantova.

Nel marzo successivo furono impiccati nella stessa località Angelo Scarsellini, Carlo Poma, Bernardo Canal, Giovanni Zambelli, Tito Speri, Carlo Montanari, Bartolomeo Grazioli, Piero Frattini.

Da allora sono ricordati come i Martiri di Belfiore.

Venti anni dopo il 7 dicembre 1872, furono commemorati nel dramma di Riccardo Bonati, Enrico Tazzoli e i martiri del 1852, rappresentato a Mantova anche negli anni successivi.

 

 

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