L’ontologia tra Kant e Quine
Secondo il filosofo statunitense Willard Van Orman Quine, l’impegno ontologico di una teoria non si può mai determinare in assoluto, ma soltanto relativamente a un ulteriore linguaggio (teoria) di sfondo, e alla scelta di come tradurre gli enunciati della prima teoria in funzione degli enunciati della seconda. Ne deriva, quindi, la radicale contingenza degli impegni ontologici, in quanto non si può mai determinare in maniera definitiva che cosa “realmente” sono gli oggetti di una teoria. Per tradurre il nostro linguaggio di partenza in un altro, adoperiamo sempre l’apparato di individuazione del linguaggio-base. Abbiamo pertanto la celebre “inscrutabilità del riferimento” quineana: non esiste alcuna base teorica che ci metta in grado di decidere tra i vari e possibili riferimenti concreti di un termine generale che appartiene a un linguaggio estraneo. Ecco quindi che i cambiamenti di ontologia sono sempre possibili: il riferimento ha senso solo “relativamente a” un certo sistema di coordinate, mentre non ha senso il riferimento assoluto. In altre parole, ha senso dire non cosa sono gli oggetti di una teoria, ma come un linguaggio è traducibile in un altro. E’, questa, l’altra celebre tesi quineana della “indeterminazione della traduzione”. Occuparsi di ontologia significa studiare la nozione di “esistenza” e la sua esatta natura. Si tratta di uno dei problemi più classici della filosofia.
A partire dalla seconda metà dell’800, tuttavia, si è manifestato un nuovo modo di pensare l’ontologia, e le riflessioni ontologiche di Quine ne rappresentano uno degli sviluppi più significativi. In cosa consiste questo nuovo approccio ai problemi ontologici? Nel secolo scorso, il filosofo austriaco Franz Brentano affermò che tutti gli enunciati altro non sono che specifiche varietà degli enunciati esistenziali. La chiave di volta per comprendere questa sua affermazione risiede nell’equivalenza - da lui affermata - tra gli enunciati “particolari”, vale a dire quelli che di solito iniziano con le parole “qualche” e “alcuni”, e gli enunciati “esistenziali”, che di solito iniziano con le parole “esiste un”, “esistono i”, “vi è un”, “vi sono dei”, etc. Com’è noto, le parole “qualche” e “alcuni” corrispondono al quantificatore esistenziale (o particolare) della logica dei predicati, mentre le parole “ogni” e “tutti” corrispondono al quantificatore universale (o generale). Brentano ha messo in luce che gli enunciati esistenziali si possono esprimere entro quella che nella logica contemporanea si chiama teoria della quantificazione. In questo senso, affermare che: “Un gatto esiste”, equivale ad affermare che: “Qualcosa è un gatto”. Ne consegue che gli enunciati esistenziali sono, in realtà, delle quantificazioni esistenziali o particolari, e che le espressioni linguistiche “alcuni”, “qualche”, “vi è un”, “vi sono dei”, “esiste un”, “esistono dei”, sono traducibili l’una nell’altra. Se adottiamo questo tipo di approccio, come i logici contemporanei fanno, allora dobbiamo concludere che l’esistenza non è un predicato o, almeno, che “esiste” non si comporta alla stregua dei predicati comuni come “è bello”, “è alto”, ecc. La tradizione analitica adotta questo punto di vista come uno dei cardini del proprio modo di concepire la filosofia. È evidente che, agendo in questo modo, la parola “esistono” non svolge più una funzione predicativa: la sua funzione è svolta compiutamente dal quantificatore esistenziale. Al contrario, parole come “miagolano”, o come “rosse” in “Le rose sono rosse”, sono predicati genuini, in quanto la loro funzione predicativa non può essere svolta da un quantificatore. Ne consegue un fatto molto importante. Tutti gli enunciati esistenziali sono enunciati quantificati “mascherati”, e la parola “esiste” diventa, secondo questa lettura, un predicato fittizio. Per dirla in modo diverso, gli enunciati esistenziali che hanno la forma “esiste un”, “esistono dei”, sono enunciati quantificati mascherati i quali hanno, in realtà, quest’altra forma: “qualcosa è un”. Dunque, il ruolo dell’esistenza viene raffigurato mediante l’uso di un quantificatore, e non da altre componenti del nostro linguaggio. Questa lettura dell’esistenza acquista peso preponderante man mano che si sviluppa la logica formale contemporanea grazie al lavoro di autori come Gottlob Frege, Bertrand Russell, Ludwig Wittgenstein e altri. In questo senso, Quine rappresenta uno dei punti terminali della tradizione filosofica - che grosso modo possiamo definire “analitica” - la quale identifica esistenza e uso dei quantificatori. Per completezza d’informazione, non si può tuttavia ignorare la posizione di Kant, altro classico che affermò che l’esistenza non è un predicato nella Critica della ragion pura. La posizione kantiana è comunque diversa da quella analitica, pur avendo con essa elementi in comune. Affermando che “l’esistenza non è un predicato”, Kant aveva due cose in mente: (l) dal punto di vista della logica dell’epoca di Kant, l’esistenza veniva spiegata mediante la copula, vale a dire le voci “è” e “sono” del verbo “essere”. Consideriamo, ad esempio, i due enunciati: “Socrate è un uomo” e “Gli uomini sono mortali”. Se questi enunciati sono veri, ciò per Kant significa che Socrate esiste e gli uomini esistono, vale a dire che gli enunciati affermativi con la forma “soggetto-predicato” possiedono valore esistenziale intrinseco. In altre parole, gli oggetti cui noi ci riferiamo mediante il termine-soggetto esistono quando i corrispondenti enunciati affermativi sono veri. O, il che è lo stesso, un enunciato affermativo è vero quando l’oggetto designato dal termine-soggetto esiste. (2) La seconda cosa che Kant aveva in mente è legata alla sua teoria della conoscenza. “Esiste” non è a suo avviso un vero predicato per il semplice fatto che esso non determina alcunché. “Esiste”, a differenza di “nero”, non aggiunge nulla al concetto che noi abbiamo di un particolare oggetto. Facciamo un esempio: se noi concepiamo un gatto come “nero”, il predicato “nero” aggiunge effettivamente qualcosa al nostro concetto di gatto. Tra il gatto sic et simpliciter, e il gatto “nero” vi è in effetti differenza, in quanto quel predicato ci consente di meglio precisare il concetto. Non è così per l’esistenza. Secondo Kant, immaginare un gatto come “esistente” nulla aggiunge alla nostra immagine del gatto: anzi, le immagini di un gatto esistente e di un gatto non-esistente sono la stessa cosa, mentre le immagini di un gatto e di un gatto nero differiscono tra loro. Sempre dal punto di vista storico, si può inoltre notare che gli empiristi classici inglesi, ad esempio Hume, avevano fatto in precedenza affermazioni simili: non possiamo avere idee o impressioni dell’esistenza - in quanto tale - di un oggetto. Non si può certo negare che l’affermazione kantiana: “l’esistenza non è un predicato” abbia avuto influenza su Brentano, Frege e la tradizione analitica. Ma non si può nemmeno sopravvalutare tale influenza, in quanto la logica dei tempi di Kant non è equiparabile alla nostra logica formale, ed egli non avrebbe potuto affermare che è la teoria della quantificazione a fornire l’unica analisi adeguata dell’esistenza (Kant aveva a disposizione la vecchia sillogistica aristotelica che, pur avendo molti punti in comune con la moderna teoria della quantificazione, non è certo la stessa cosa). Cerchiamo ora di capire in che senso la tradizione classica (ivi incluso Kant) si differenzia da quella contemporanea (Frege-Russell-Quine) per quanto riguarda il valore (o impegno) esistenziale degli enunciati. Basandosi su Aristotele, fino alla metà dell’800 i logici distinguevano tra: Enunciati singolari come: “Socrate è umano”, e “Socrate non è ignorante”, e enunciati generali che possono assumere la seguente forma: (A) universali affermativi: “Tutti i gatti sono neri”; (I) particolari affermativi: “Alcuni gatti sono neri”; (E) universali negativi: “Nessun gatto è nero”; (O) particolari negativi: “Alcuni gatti non sono neri”. Il problema dell’impegno ontologico si pone in questi termini: se gli enunciati schematici di cui sopra (A, I, E, O) sono veri, che cosa possiamo dire a proposito degli oggetti cui i loro termini-soggetto si riferiscono? E, se tali oggetti non esistono nella realtà, questi enunciati sono ancora veri oppure no? Da Aristotele a Kant, l’opinione comune era che le proposizioni affermative hanno effettivamente valore ontologico. Se A e I sono vere, allora gli oggetti cui esse si riferiscono esistono, mentre, se i referenti non esistono, allora A e I sono false. Si noti che tutto ciò significa far dipendere in modo strettissimo la verità o la falsità degli enunciati da considerazioni che riguardano il mondo. A partire dalla seconda metà dell’800, per merito di studiosi come, tra gli altri, Brentano e Boole, si ritiene che il valore esistenziale spetti soltanto agli enunciati particolari, e che quelli universali ne siano esclusi. L’esistenza, pertanto, viene strettamente legata al funzionamento del quantificatore esistenziale (o particolare).
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