La negazione della morte nella filosofia occidentale
L’uomo è “l’animale che seppellisce i propri morti” e se ciò è specifico dell’umanità allora la storia umana può essere considerata come lo svolgersi ed il variare del rapporto con la morte. La risposta al problema della finitezza umana muta nel corso dello sviluppo della società. Secondo il sociologo tedesco Norbert Elias, la presa di distanza e il sentimento di disagio con cui oggi si affrontano la morte ed il morire, possono essere paragonati alle reazioni provocate dai problemi della sessualità in epoca vittoriana. Sembra che le resistenze innalzate sopra ad un rapporto più disteso con la morte siano più forti di quelle che si incontrano nel campo delle relazioni fra i sessi. Si può supporre che la differenza derivi dalla diversità dei pericoli: quello rappresentato da una sessualità sfrenata o, al contrario, troppo repressa, è, per così dire, un pericolo parziale. Può accadere che le frustrazioni sessuali, trasformatesi in aggressività, costituiscano una minaccia per gli altri e per se stessi. Purtuttavia la vita continua. Paragonata a questa, la minaccia della morte è totale. La sua demistificazione risiede probabilmente nel fatto che essa costituisce il pericolo più grande.
In passato la morte era una questione pubblica in misura assai maggiore di quanto lo sia oggi. La nascita e la morte, analogamente ad altri aspetti della vita umana, erano eventi pubblici e, dunque, comunitari, aspetti oggi sostituiti da una rigorosa privatizzazione. Inoltre, l’espressione di forti emozioni, sia nella sfera pubblica che in quella privata, è stata paralizzata da un timore spesso assai profondo. Nel XVII secolo gli uomini potevano piangere in pubblico, cosa che ai nostri giorni risulta assai più difficile. Le persone che sono a contatto con i moribondi fanno fatica a stringere e ad accarezzare la mano di una persona che muore. Unica a conferire una forma sociale alla morte è la routine istituzionalizzata degli ospedali che si contraddistinguono come luoghi freddamente asettici e contribuiscono in larga misura all’isolamento del morente. Di conseguenza appare ovvio il fatto che si debba morire da soli, tanto da riconoscervi una esperienza comune a tutti gli uomini e in ogni epoca. Secondo Elias, invece, questa idea non è affatto presente ad ogni stadio dello sviluppo umano. Essa è la caratteristica di un livello di individualizzazione e di autocoscienza relativamente tardo. L’idea di essere soli rimanda ad un complesso di significati in reciproca correlazione. Può riferirsi alla consapevolezza del fatto che l’esperienza della morte non può essere condivisa con nessuno, può esprimere il sentimento che con la morte sparirà per sempre il piccolo mondo legato alla propria persona con tutte le sue memorie uniche, con tutti i suoi sentimenti, esperienze, conoscenze e sogni noti unicamente a colui che sta morendo. Può anche riferirsi alla sensazione di essere abbandonati nella morte da tutte le persone a cui si è affezionati. Ad ogni modo, quale che sia il significato accentuato, il motivo della morte in solitudine ricorre assai più frequentemente in epoca moderna che in passato. Secondo una concezione umanistica esistenziale, la fine della vita rappresenta lo “shock primario” che l’uomo ha subito quando ha preso coscienza del proprio inesorabile destino, e le sue capacità intellettive e affettive hanno moltiplicato in lui l’angoscia e la sofferenza. Se si esplorano le origini della cultura si resta colpiti da un fatto molto significativo: il primo reperto di cultura umana finora conosciuto sono le sepolture neandertaliane del paleolitico medio, ossia documenti inequivocabili di una formazione reattiva all’angoscia di morte. Queste tombe arcaiche indicano, infatti, con certezza l’esistenza di una primordiale attività ideativa e culturale già imperniata sulla negazione della morte. Negare la morte, affermare la continuità dell’esistenza dopo di essa, è stato dunque un bisogno ancestrale dell’uomo che ha dato origine alle più antiche forme di cultura finora conosciute ed è riscontrabile in tutte le culture primitive finora studiate dall’antropologia moderna. Molteplici sono state in seguito le espressioni che lo “shock esistenziale” e le relative formazioni reattivo-difensive hanno avuto nella civiltà umana: religiose, filosofiche, politiche, economiche, psicoanalitiche etc. Proviamo ora a spiccare un volo pindarico sul pensiero filosofico occidentale, una carrellata a grandi linee, che certamente non ha la pretesa di risultare esaustiva data la vastità dell’argomento, ma almeno spera di offrire alcuni spunti di riflessione. Il problema della morte è coevo alla nascita del pensiero magico – religioso ed è contemporaneo anche alla nascita del pensiero filosofico. Il termine Filosofia, in greco antico φιλοσοφία, philosophía, composto di φιλεῖν (phileîn), "amare", e σοφία (sophía), "sapienza", significa amore per la sapienza" e pertanto essa è lo studio sistematizzato di questioni generali e fondamentali, particolarmente sul senso della vita e della morte. I presocratici Eraclito e Parmenide approdarono per vie diverse ad una identica negazione della morte. Eraclito sottolineò la transitorietà e la caducità di tutte le cose, ma al tempo stesso vide nel Fuoco l’archè, l’elemento primigenio a cui tutto torna, ma dal quale anche tutto ritorna. La sua fu una delle prime enunciazioni occidentali della teoria dell’Eterno Ritorno, che aveva avuto fortuna in molte culture sia primitive che orientali e che costituisce anch’essa una forma di negazione della morte. Parmenide, famoso antagonista di Eraclito, negò la realtà della natura e dei mille cambiamenti che la caratterizzano, sostenendo che la sola autentica realtà era quella dell’Essere, eterno ed immutabile, intuito dalla mente umana. Ma se il cambiamento è illusione, sosteneva Parmenide, lo era anche la morte, e in primo luogo, la propria morte, tanto temuta dai comuni mortali. Insomma, non solo Parmenide, ma quasi tutti i filosofi presocratici tesero a negare la morte, mentre i pitagorici adottarono una negazione più apertamente religiosa. Il supremo maestro della radicale negazione filosofica dell’angoscia di morte nella Grecia antica fu Epicuro che ritenne di aver individuato questo terrore nel timore degli Dei e delle loro punizioni diffuso dalle religioni del suo tempo. Ma gli Dei, nella concezione epicurea, non si curavano affatto delle cose umane e pertanto il mondo era governato dal caso. Ed allora per sconfiggere la più grande pena dell’anima Epicuro ideò nella sua lettera al discepolo Meneceo il famoso “argomento” che attraverso i secoli doveva consolare gli uomini attanagliati dall’angoscia della fine. «Abituati a pensare che la morte non è nulla per noi, poiché finché viviamo la morte non è con noi, e quando arriva noi non esistiamo più. Essa non riguarda, insomma, né i vivi e né i morti, perché quando ci siamo noi non c’è la morte, e quando c’è la morte non ci siamo noi.» Fu Socrate a dimostrare una completa serenità di fronte alla morte anche al di fuori di certezze religiose, pur se quella serenità fu sorretta da una certezza nell’immortalità dell’anima. Platone radicò la certezza socratica in un sistema filosofico, l’idealismo, che vedeva nella realtà del mondo naturale solo una copia approssimativa di una realtà superiore. Dopo una fase iniziale vicina alla visione Platonica, Aristotele approdò alla consapevolezza dell’unità psicosomatica dell’essere umano. Tutti gli esseri viventi, secondo il filosofo stagirita, sono unione fra materia e forma e, dunque, anche l’anima appartiene al corpo e, quando essa esce, il corpo si scompone. L'anima corrisponde alla formula definitoria dell'essenza, ovvero all'essere essenziale, di un corpo che ha vita. E in questo senso è causa finale della materia che costituisce il corpo di un vivente. Ma Aristotele introduce un elemento di novità, che lo porterà a parlare di “spirito”. L'anima non può avere un'esistenza separata dal corpo, mentre per lo spirito si può ammettere che non sia soggetto alla distruzione e quindi possa esistere anche di per sé. Lo spirito è un qualcosa di più elevato dell'anima ed è meno legato al corpo. Sembra trattarsi di una sostanza indipendente che si fissa nell'anima. Lo spirito è ciò che ci consente di comprendere la filosofia e la matematica e, dal momento che esse sono materie immortali, perché al di fuori del tempo, allora si può pensare che anche lo spirito sia immortale. La funzione rassicurante di queste teorie dinanzi alla morte fu ripresa con grande e durevole impegno nelle epoche successive. Con l’avvento del Cristianesimo, e per oltre un millennio, tutta la filosofia si ridusse ad essere esegesi delle Sacre Scritture. Nella promessa Cristiana, non solo di immortalità, ma di resurrezione dalla carne, essa ebbe il suo fattore determinante. S. Agostino in un brano del capitolo 29 del suo Encheiridion scrisse: «Nel tempo fra la morte e l’ultima resurrezione, le anime si trovano in un luogo sconosciuto, a seconda che un’anima sia meritevole del riposo o del castigo, cioè a seconda di quanto essa ha compiuto nella sua vita terrena». E ancora: «Non uscire da te stesso; rientra in te, nell’interno dell’uomo abita la verità». La via alla verità è agostinianamente itinerarium mentis in Deum, un itinerario della mente a Dio: Dio è la Verità; Dio illumina la mente umana e la fa capace di verità. La verità si impone sull’errore e l’inganno: Si fallor, sum, “Se sbaglio, esisto”, dice Agostino; nel dubbio ho almeno la certezza di esistere, perché per essere nello stesso falso la mia mente deve pur sussistere. La mente, il pensiero, la coscienza, l’anima è il naturale presupposto dell’attività e della vita soggettiva: la certezza di sé porta dal dubbio alla verità. In qualche modo S. Antogostino anticipava il cogito, ergo sum cartesiano. Lo scetticismo religioso sopraggiunse durante l’Umanesimo e il Medioevo: Guicciardini reagì all’ecclesiastico memento mori col suo memento vivere. Pomponio scrisse che la paura della punizione e la speranza del premio portavano l’uomo ad un servilismo incompatibile con la vera grandezza d’animo. Montaigne riconquistò alla filosofia la sua funzione autonoma di ricerca e al filosofo la sua dignità e indipendenza intellettuale. Per l'esistenza e la natura di Dio il suo pensiero si colloca molto vicino all'agnosticismo, secondo cui non è umanamente conoscibile una risposta e pertanto non è possibile esprimersi in modo certo. Più della fede è posto in rilievo il dubbio, che rappresenta un incentivo per il giudizio. Cartesio sostenne una concezione dualistica che si espresse nella famosa divisione dell’uomo in res cogitans (lo spirito immortale), e res extensa (il corpo caduco). Per tutta la sua vita Cartesio ebbe l’aspirazione di vincere la morte e non solo quella dell’anima, ma anche quella del corpo e per anni sostenne che con una opportuna dieta ed una maggiore conoscenza della fisiologia sarebbe stato possibile prolungare la vita umana di vari secoli. E lo sostenne con tanta convinzione che Cristina di Svezia non risparmiò i suoi sarcasmi quando Cartesio morì a 53 anni. Con Pascal, Spinoza e Leibniz la filosofia tornò al suo ruolo ancillare rispetto alla religione. «L’interesse ci impone di credere in Dio – affermava Pascal - Non c’è più sventura per chi abbia con la religione una solida assicurazione, come non c’è più gioia per chi non abbia tale assicurazione.» Il tema del destino trascendente dell’uomo trovò una forte originalità in seguito, nel pensiero di Immanuel Kant. Nella Critica della Ragion Pura il filosofo riconobbe i limiti dell’intelletto umano nella soluzione dei grandi problemi: Dio, la libertà e l’immortalità. Nella Critica della Ragion Pratica ritenne di aver trovato tuttavia la prova del destino immortale dell’uomo nell’ “Imperativo Categorico”, ossia nell’universale bisogno umano di cercare ed onorare una legge morale. Nel quadro della loro coraggiosa e instancabile polemica anticlericale, i pensatori illuministi si impegnarono a fondo nella demolizione della superstizione di stampo ecclesiastico in materia di immortalità dell’anima. Nel pensiero idealistico tedesco, Fichte finì per identificare l’Io puro con Dio e la morte come un ritorno a Lui. Hegel, per il quale tutta la realtà era espressione dello Spirito, vedeva nell’individuo una semplice autoalienazione dello Spirito stesso, e in questo senso la morte poteva essere definita come “Amore Supremo” perché nella morte Dio veniva a riconciarsi con se stesso e con il mondo eternamente. Ludwig Feuerbach fu il più coraggioso e radicale demolitore dei miti religiosi e dogmi accademici di tutto il XIX secolo, e pertanto dovette pagare con un tremendo isolamento e una disperata povertà questo suo coraggio intellettuale. Secondo Feuerbach nel rapporto fra Uomo e Natura c’è un’armonia prestabilita, una volontà autentica dell’uomo e la morte dell’individuo appare espressione di questa armonia. Piante a animali muoiono solo perché muoiono gli uomini. È la morte degli esseri umani veramente amorevoli a produrre la morte di quelli il cui amore è limitato. «O morte, non riesco a staccarmi dalla contemplazione della tua dolce natura, così intimamente fusa con la mia. Specchio del mio spirito, riflesso del mio essere! Dalla separazione dell’unità della natura è sorto il mio spirito consapevole […] Tu sei la stella serale della Natura e la stella mattutina dello Spirito.» La coscienza della morte, quale prima forma di cultura umana nel suo complesso trovò radici nel pensiero di Arthur Schopenhauer. Ne Il mondo come volontà e rappresentazione la morte rappresenta la musa, il vero genio ispiratore della filosofia. «La terrificante certezza della morte entrò indubbiamente in scena col raziocinio, ma come sempre accade in Natura ove ogni male trova una sua cura o perlomeno un suo compenso, la stessa riflessione razionale che introdusse la consapevolezza della morte ci ha aiutato a sviluppare le concezioni metafisiche che ci danno conforto. Tutti i sistemi religiosi e filosofici sono tesi principalmente a questo fine e sono quindi, essenzialmente, altrettanti antidoti contro la certezza della morte, prodotti dal raziocinio e dalla riflessione con i mezzi propri.» Fermo restando che ci furono tantissimi altri pensatori che affrontarono la problematica della morte offrendo concezioni interessanti e diverse, concludiamo ora questa incompleta e sommaria panoramica con Friedrich Nietzsche. Al tremendo messaggio schopenhaueriano «Dio è Morto», Nietzsche non rispose con l’impassibilità. Ne La Gaia Scienzascrisse che nell’uomo moderno, il senso già insopportabile di solitudine e vulnerabilità connesso alla morte di Dio è esasperato da un irrimediabile senso di colpa, perché se Dio è morto siamo stati noi ad ucciderlo. Pertanto, a differenza di Schopenhauer, Nietzsche non concluse buddisticamente che se la vita è dolore, la sola risposta possibile sta nella negazione della volontà di vivere. La sua fu invece una riaffermazione eroica dell’amore per la vita, al di sopra di ogni dolore fisico e psichico. Ed è importante ricordare che Nietzsche fin da giovanissimo ebbe un’esperienza lancinante della sofferenza causata da atroci cefalee, cecità periodica, isolamento sociale, frustrazioni ed umiliazioni amorose che lo portarono a tentare il suicidio per ben tre volte. La sua fu davvero una risposta indomita. «La mia esistenza è un peso atroce e da tempo me ne sarei sbarazzato se non fossi riuscito a compiere le analisi e le esperienze più illuminanti proprio in questi stati di sofferenza.» Solo il Superuomo può sopportare la verità e insieme godere la vita. All’uomo qual è oggi è impossibile convivere con la verità perché la verità è brutta, al punto che per non morire di verità l’uomo ha creato l’arte. E con questo sogno del Super uomo prese vita in Nietzsche il sogno dell’Eterno Ritorno. Tutto va e tutto torna – dice Zarathustra – tutto muore e tutto rinasce, tutto ritorna eternamente e noi stessi siamo vissuti già infinite volte e le cose con noi. Tra l’ultimo istante di vita cosciente e il primo raggio di luce della nuova vita non passerà nessun tempo.
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