Analisi del linguaggio e metafisica
I filosofi di ispirazione analitica ritengono che l'ontologia aristotelica classica sia stata definitivamente superata dalle acquisizioni dell'analisi del linguaggio e della moderna logica formale. Si può replicare che simili posizioni si basano in primo luogo su un equivoco di fondo, consistente nel confondere il piano ontologico con quello logico-linguistico. Ma c'è di più. La posizione anti-metafisica assunta dal neopositivismo logico e dalla filosofia analitica è, a sua volta, frutto di una scelta che si può a buon diritto considerare metafisica, anche se la maggior parte degli autori che l'hanno compiuta non sarebbero ovviamente disposti a riconoscerla in quanto tale. Chiarisco che in questo contesto assumo i termini “metafisica” e “ontologia” come equivalenti, essendo entrambi riconducibili alla caratterizzazione aristotelica di studio dell'essere-in-quanto-essere o della realtà in quanto tale, ciò che ora mi preme rilevare è che le posizioni analitiche “forti” nascono appunto da un presupposto assai forte: quello che nulla vi sia al di fuori della sfera dell'esperienza sensibile. Ciò che travalica tale sfera verrebbe in pratica “inventato” dal linguaggio umano, come ad esempio il concetto di “essere”, e compito della filosofia intesa come mera analisi del linguaggio è semplicemente quello di smascherare le trappole che il nostro stesso linguaggio ci tende facendoci credere che a parole come “essere” e “causa” corrisponda qualcosa di reale.
Un simile ragionamento è perfettamente fondato se si accetta il presupposto metafisico di cui prima si diceva, e cioè che nulla esiste al di là dell'esperienza sensibile. Diventa invece fallace se non si accetta un presupposto del genere, e occorre anche rilevare che i filosofi analitici quasi sempre si limitano a “dare per scontato” che le cose stiano effettivamente così, sembrando loro che la limitazione della realtà a quella esperibile empiricamente sia un fatto così auto-evidente da non dover nemmeno essere dimostrato. Mi pare opportuno, a questo punto, mettere in rilievo una conseguenza che discende in modo diretto dall'assumere acriticamente il presupposto metafisico analitico e neopositivista. Essa consiste nel far assumere al linguaggio un ruolo di assoluta preminenza all’interno del lavoro filosofico. Abbandonate le tesi moderate e pienamente condivisibili secondo cui l'analisi del linguaggio può effettivamente giovare alla filosofia in quanto tale, consentendole di assumere vesti per quanto possibile rigorose (ma mai “esatte”, come pretendono alcune correnti della filosofia analitica contemporanea, in quanto l’esattezza non è una dimensione che compete al discorso filosofico), e di non cadere nella verbosità fine a se stessa che caratterizza tendenze che si oppongono allo stile analitico, parecchi autori hanno finito con l’investire il linguaggio di carichi che esso, in quanto strumento del comunicare, non è in grado di assumere. Lo spostamento dei problemi ontologici dal piano della realtà (intesa in tutte le sue molteplici determinazioni) al piano linguistico denota una tendenza, che non è propria della sola filosofia analitica, a disconoscere la portata conoscitiva della filosofia stessa per concederle soltanto una funzione ausiliaria. Le convergenze che si sono verificate in questi anni tra alcuni settori della tradizione analitica e il pensiero ermeneutico nascono proprio da una comune sopravvalutazione del linguaggio, da un comune riconoscimento della cosiddetta “assolutezza dell'orizzonte linguistico” (anche se, occorre rilevarlo, l’ermeneutica è sempre stata immune da tentazioni scientiste e non ha quindi mai inteso attribuire alla filosofia una funzione ausiliaria nei confronti, ad esempio, della scienza). Ebbene, tale progressiva convergenza si è andata dipanando proprio sulla base cui prima dicevo, e cioè dal comune riconoscimento dell'assolutezza della dimensione linguistica (ovviamente rammentando che il linguaggio non viene più inteso come strumento, ma come dimensione onnicomprensiva ed onnipervasiva: tutto è, insomma, linguaggio). È tuttavia difficile capire come una simile strategia possa salvaguardare la portata referenziale del linguaggio stesso, caratteristica che a mio parere è la più importante (e anche la più interessante) tra le molte che possono essergli ascritte. Il linguaggio, in altri termini, sorge come risposta a qualcosa che linguistico non è, e che possiamo definire “esperienza immediata del mondo circostante”. Si può ovviamente replicare che anche tale esperienza immediata è linguaggio, ma a quel punto avremmo tutti i diritti di chiedere al nostro interlocutore di spiegarci che cosa egli intenda per “linguaggio”. Il fatto è che la dimensione linguistica non può essere originaria, in quanto implica, per il suo stesso stabilirsi, la presenza di un qualcosa cui la lingua deve riferirsi, e cioè il referente. Si può con ragione affermare che il linguaggio retroagisce (ha cioè un effetto di feed-back) sulla realtà, che esso costituisce una condizione tra le più importanti per il sorgere della conoscenza, etc. Non si potrà invece affermare che esso sia l’originario oppure che determini la realtà in quanto è e non in quanto l’uomo la conosce o ne parla. Molti dei problemi in cui si imbatte l'odierna filosofia analitica derivano proprio da questa confusione, dal non aver distinto con sufficiente precisione il piano ontologico da quello logico-linguistico.
Ora che si comincia finalmente a dubitare circa l'effettiva capacità della logica, e della teoria della quantificazione in particolare, di trattare adeguatamente i problemi legati al concetto di esistenza, possiamo affermare che il modo in cui gli enunciati giungono ad essere veri o falsi dipende dal rapporto che si istituisce con una realtà extra-linguistica. Ed è appunto per tale - fondamentale - ragione che il linguaggio non basta a se stesso, che la quantificazione sostitutiva non può essere quell’ancora di salvezza che alcuni avevano sperato.
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