Quell’11 settembre 2001
L’11 settembre del 2001 è una data che ha scandito la nostra storia recente, quasi un contrafforte tra due epoche. Due aerei provenienti da Boston e diretti a Los Angeles furono dirottati e lanciati contro le due torri dell’Word Trade Center a New York. Un altro aereo, a sua volta dirottato, fu fatto precipitare sul Pentagono. Un quarto velivolo, probabilmente destinato a colpire la Casa Bianca, si schiantò in Pennsylvania per l’eroica ribellione dei passeggeri che avevano saputo degli altri attentati e preferirono farlo cadere prima. I morti di questa indimenticabile giornata furono 2.966. Non dobbiamo dimenticare anche le vittime successive, uccise da tumori e altre malattie provocate dalle esalazioni degli incendi: sono ad oggi oltre quarantamila. Non fu un attacco agli Stati Uniti. Le vittime appartenevano a oltre settanta diverse nazionalità. Oltre 400 erano musulmane. Fu un attacco al mondo libero, ai valori di dignità e eguaglianza così insopportabili al terrorismo islamico. Un vulnus a chi viveva nella convinzione che il dialogo e il rispetto fossero i sentieri da percorrere nel cammino verso il futuro. Questo anniversario coincide con il ritiro delle forze occidentali dall’Afghanistan, dove – ventuno anni fa – fu programmata e decisa la mattanza dell’11 settembre. Devo ribadire il mio profondo dissenso verso tale scelta: tragica, pericolosa e inutile. Non nell’interesse degli afghani e non nel nostro, ma solo un affettato rigurgito di sovranismo para-nazionalista ha prima indotto Trump a programmare il ritiro e poi l’attuale presidente Biden a portarlo – malamente – a conclusione. Tale ripiegamento culturale verso la politica definita dallo slogan America First (che produce una curiosa assonanza “immorale” con il nostrano assioma «prima gli italiani»), non tiene in alcun modo conto della grande novità introdotta proprio dalle stragi dell’11 settembre: la globalizzazione del terrore. Fu proprio con quell’attentato che ci rendemmo conto che il mondo era ormai uno scenario unico e che le decisioni criminali prese in un deserto remoto di un paese dell’Asia Centrale potevano portare – come hanno portato – a migliaia di morti in tutto il mondo. Perché la spinta che induce uno jihadista a farsi esplodere non è l’odio verso una nazione, una città, una discoteca o un ristorante. Ma quello nei confronti della democrazia, della libertà, della cultura, dei diritti umani e delle donne. Non si dia neppure molto credito verso la tesi che vorrebbe i terroristi agire in nome della povertà contro il lusso o della religione islamica contro il cristianesimo. Delle vittime trucidate in attacchi jihadisti in tutto il mondo la quasi totalità era musulmana e composta da poveri e diseredati. Credo che sia corretto dire – come l’intellettuale Adam Michnik – che proprio in quell’11 settembre è nato il XXI secolo. In quel giorno si sono affacciati totalitarismi, fanatismi e populismi: tutti basati non sulla forza degli argomenti, ma sull’argomento della forza. La politica dell’esclusione ha sbarrato la strada a quella dell’inclusione e del rispetto. Per questo la fuga disordinata da Kabul, messa in scena dagli americani, è stat una pagina cupa per il mondo intero. Si è decisa nonostante l’impegno nel 2021 non fosse lontanamente paragonabile a quello di venti o addirittura dieci anni fa, in circostanze in cui il numero delle truppe era diminuito al minimo e nessun soldato alleato aveva perso la vita in combattimento da 18 mesi. È stata compiuta nella consapevolezza che, sebbene imperfetti e immensamente fragili, negli ultimi vent’anni ci sono stati reali miglioramenti nella vita in Afghanistan. Si pensi solo a tutti i lenti progressi compiuti dalle donne, ma in realtà dall’intera società afghana. La nascita di una nuova squadra di basket femminile, l’apertura di ogni palestra alle donne, le neo-giornaliste assunte nel proliferare di giornali, radio e televisioni, l’apparire sul mercato del lavoro di professioniste pronte a prendere il proprio posto in uffici che sino ad allora erano stati solo per uomini: sembravano, questi, successi destinati a durare, a cambiare il Paese per sempre. Oggi le donne protestano in piazza per difendere queste ancora poche ma significative conquiste. Un fatto assolutamente impensabile vent’anni fa. Gli americani, Biden in testa e prima di lui Trump, dissero che i Talebani avrebbero assunto atteggiamenti meno rigorosi. Mentivano sapendo di mentire. Già dai primi giorni i nuovi signori di Kabul hanno stroncato ogni novazione. Niente sport per le donne, istruzione a classi separate, niente giornaliste, insegnanti quasi sparite: nelle scuole sono state create stanze riservate per le poche docenti, che non possono più stare con i colleghi. E lo stesso vale per il personale della segreteria. I muratori hanno modificato le porte di accesso al loro ufficio. Sembrano quella di una cella, con gli studenti costretti a comunicare con loro attraverso una fessura nel muro. Le donne stanno sedute nella penombra col capo coperto. Sembrano fantasmi, sono vittime. Anche il governo creato dai Talebani è uno sberleffo alla politica americana. Ministro dell’Interno è Serajuddin Haqqani, leader della temibile e omonima rete ritenuta vicina ad Al Qaida. E’ ricercato dall’Fbi per terrorismo, con una taglia di 5 milioni di dollari, il premier Mohammad Hasan insieme a molti altri ministri. Erano il Male (e ancora lo sono) ma ora tranquillamente compongono il governo talebano. Ovviamente senza neppure una donna, perché, come ha detto il portavoce del governo dei mullah, una donna non può fare il ministro, sarebbe come metterle al collo un peso che non può sostenere. Non è necessario che le donne siano nel governo, loro devono solo fare figli. Anche per queste ragioni il ricordare assume un significato così importante. Ricordiamo le vittime del terrorismo jihadista: quelle dell’11 settembre, ma anche quelle di Parigi, Londra, Madrid, Bruxelles e quelle quotidiane in Ucraina. Il nostro mondo è fragile, imperfetto, certamente da correggere e migliorare, ma è infinitamente migliore del loro che puzza solo di vergogna e di miseria morale. Noi non dimenticheremo, ma – contrariamente a loro – non odieremo, perché noi, da tempo, abbiamo scelto la vita. |
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