Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Gianni Rodari e le inquietudini del suo tempo

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Ha senso, in questi giorni difficili, parlare di cultura? Io credo fermamente di sì. Forse ancor più in questo periodo, perché, come diceva Aristotele, la cultura è un ornamento nella buona sorte e un rifugio nell’avversa.

Ricordiamo Gianni Rodari, scrittore, pedagogista e giornalista, il cui vero nome era Giovanni Francesco Rodari, nacque a Omegna, sul lago d’Orta, il 23 ottobre 1920.

In questa cittadina Gianni, un bambino con una corporatura minuta e un carattere piuttosto schivo, frequentò le scuole elementari.

All’età di dieci anni, a seguito dell’improvvisa morte del padre, si trasferì in provincia di Varese, zona della quale la mamma era originaria.

Gianni si iscrisse al ginnasio presso il seminario di Seveso, mettendosi in luce per le ottime capacità che lo portarono ad essere il migliore della classe, e conseguì il diploma nelle scuole Magistrali nel 1937, a soli diciassette anni.

Nel frattempo abbinò allo studio un corposo impegno sociale, militando nell’Azione Cattolica dove svolse le funzioni di presidente nell’ambito della sua zona di residenza. A tale attività si aggiunse la passione per la scrittura.

Ancora sedicenne pubblicò alcuni racconti sul settimanale cattolico L’azione giovanile e iniziò una collaborazione con il periodico Luce.

 

Nel 1941 Rodari, giudicato rivedibile alla visita medica per il servizio militare a causa della sua corporatura eccessivamente minuta, vinse il concorso per maestro e incominciò ad insegnare nei paesi della provincia di Varese.

Gli orrori della guerra e, soprattutto, la morte del fratello Cesare in un campo di concentramento nazista avvicinarono Rodari alla Resistenza e, quindi, al Partito Comunista, a cui si iscrisse nel 1944.

Dopo la Liberazione venne assunto al quotidiano l’Unità.

Fu proprio in questo periodo che Rodari incominciò a scrivere racconti per bambini, tra i quali Il libro delle filastrocche e Il Romanzo di Cipollino.

Nella redazione del quotidiano Rodari era visto con una certa sufficienza, per il suo continuo narrare, a detta dei redattori, storie per bambini.

Ma le critiche peggiori giunsero dai vertici del PCI. Anche perché Rodari inventò le storie di Cipollino, pubblicate nell’edizione domenicale, in forma di fumetto, con le tavole disegnate da Raul Verdini e i suoi testi.

Tuttavia il pensiero del PCI circa i fumetti era stato espresso chiaramente da Nilde Iotti in Parlamento nella seduta del 7 dicembre 1951:

«Oggi, nei giornali a fumetti troviamo soprattutto la esaltazione dello spirito di violenza, degli istinti di aggressione in quanto tali, l’esaltazione dell’uccisione per il piacere dell’uccisione stessa, in un modo che non può non preoccupare coloro che sono pensosi della educazione dei nostri giovani; vi è insomma l’esaltazione dell’istinto della lotta fra gli uomini. […] Io arriverei perfino ad affermare che il fumetto, così come viene presentato, porta al dissolvimento della personalità del ragazzo che in un tempo successivo può avere delle serie conseguenze nello sviluppo completo della personalità dell’uomo.»[Iotti 1951, 49-51].

Posizione identica a quella espressa cinque giorni prima, il 2 dicembre del 1951, da L’Osservatore Romano in un articolo ampiamente citato, nel suo intervento, dalla stessa Iotti.

Rodari passò al quotidiano Paese sera di Roma, riuscendo a realizzare il suo obiettivo di affiancare al lavoro di scrittore per l’infanzia quello di un giornalismo libero, non più alle dipendenze dirette di un partito.

Nel 1960 incominciò a pubblicare per Einaudi.

Il primo libro che uscì con la nuova casa editrice fu Filastrocche in cielo ed in terra.

Anche in questa prestigiosa casa editrice Rodari incontrò qualche difficoltà.

L’Einaudi era il regno di Natalia Ginzburg, di Primo Levi e di altre firme nobili delle lettere italiane.

Era presente anche Italo Calvino, il quale pure scriveva (anche) racconti per ragazzi.

Ecco quindi, come ci ha ricordato Dario Ceccarelli su Il Sole 24 Ore, che proprio Calvino, temendo forse una invasione di campo, all’inizio tenne verso Rodari un atteggiamento cordiale nella forma ma freddo nella sostanza.

La morte lo colse a soli sessant’anni, a seguito di un intervento chirurgico risultato più complesso del previsto.

Certamente Rodari fu un grande scrittore per l’infanzia. Ma considerare questo autore solamente come creatore di fiabe e filastrocche sarebbe estremamente limitativo.

Dopo tanti studi critici, convegni, saggi e riflessioni sulla sua figura, oggi resta da dire soltanto che si tratta di un vero e proprio protagonista della letteratura, che ha vissuto le inquietudini del suo tempo e che ha lasciato una traccia indelebile nella memoria di tante generazioni di bambini e scolari: quasi ogni testo scolastico o antologia riporta un suo racconto o una filastrocca.

Come ha scritto in un saggio Lodovica Cima, «per un insegnante, un testo di Rodari è una garanzia e un riferimento, come per un legislatore il codice».

Il suo ruolo nella trasformazione della letteratura per l’infanzia fu assolutamente fondamentale.

Nel secondo dopoguerra i libri per ragazzi venivano scritti sulla scia di De Amicis, con obiettivi educativi palesati attraverso descrizioni lacrimose e forzatamente edificanti. Si trattava di pubblicazioni noiose e molto distanti dalla realtà di una nazione in piena rinascita e ricostruzione.

In un Paese annientato dalla guerra, pochi si potevano permettere di comprare libri che non fossero testi scolastici e altrettanto pochi erano attenti alle esigenze quotidiane dei bambini.

Molti pedagogisti ed educatori teorizzavano i libri come strumenti di crescita, da costruire su obiettivi di istruzione specifica, ma non c’era ancora spazio per la fantasia e il gioco.

Fu appunto Rodari che seppe dare la vera svolta alla letteratura italiana per ragazzi, mantenendo un legame con la tradizione educativa ma rinnovandola profondamente e rendendola vera letteratura, libera da intenti pedagogici troppo specifici e condizionanti.

Tutto sembra semplice, in Rodari. Ma in realtà alla base del suo lavoro vi è una grande attività di studio ed elaborazione.

La sua opera Grammatica della fantasia, nella sua parte conclusiva, contiene una bibliografia di oltre quaranta titoli di opere di linguistica, letteratura, pedagogia e psicologia.

Rodari è un autore solo in apparenza facile, ma in realtà è un intellettuale che vive in pieno le contraddizioni e le speranze, la realtà e l’utopia del Novecento.

Uno scrittore sempre attento alle nuove forme di comunicazione: abbiamo detto del fumetto, ma apprezzò i cartoni animati (disse di «stare dalla parte di Goldrake»), le nuove forme radiotelevisive e persino la pubblicità, nell’ambito della quale scrisse alcuni testi per la British Petroleum.

Non scordiamo, inoltre, l’influenza del surrealismo, movimento al quale Rodari si era avvicinato da giovane.

Alcuni passi della Grammatica della fantasia sono stati ripresi dal primo Manifesto del Surrealismo del 1924 di André Breton: si pensi al cosiddetto “binomio fantastico”, palesemente mutuato dal “sistema del fortuito incontro” di Breton.

È stato scritto che le sue invenzioni linguistiche sono state pari a quelle di Raymond Queneau.

Che la sua raffinatezza di intellettuale è stata la stessa di Roland Barthes. Che la sua disponibilità al fantastico è stata molto simile a quella di J.M. Barrie, di Lewis Carroll.

Uno scrittore, soprattutto, di grande attualità. Che ha declinato il suo lavoro su due valori portanti: speranza e comunità.

Il celebre paradigma gramsciano dell’ottimismo della volontà e del pessimismo della ragione è risolto in modo brillante da Rodari: nei momenti di crisi questa contraddizione ci deve servire per immaginare il futuro.

«L’utopia non è meno educativa dello spirito critico. Basta trasferirla dal mondo dell’intelligenza a quello della volontà».

Sempre, tuttavia, nell’ambito della comunità. Perché quando il momento è difficile occorre appellarsi
allo spirito solidale della comunità.

Infatti, afferma Rodari citando una frase di Don Milani, «il problema degli altri è sempre uguale al mio, uscirne da soli è avarizia, uscirne insieme è la politica». Quella vera, quella nobile.

Quella ormai pressoché sconosciuta.

 

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