Cudjo, schiavo su Clotilda, l’ultima nave negriera

Categoria principale: Storia
Categoria: Storia Contemporanea
Creato Martedì, 05 Luglio 2022 16:56
Ultima modifica il Martedì, 05 Luglio 2022 17:05
Pubblicato Martedì, 05 Luglio 2022 16:56
Scritto da Alberto Dolara
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Cudjo è stato uno degli schiavi africani che attraversarono l’Atlantico sull’ultima nave negriera, la Clotilda, nel luglio 1860.

Il relitto è stato rinvenuto in una palude dell’Alabama nel gennaio del 2018 dove la nave fu affondata per nascondere il reato di traffico degli schiavi.

Il nome originario di Oleale Kossula, era stato modificato dai padroni bianchi in Cudjo Lewis più facile da pronunciare.

Si calcola che prima di lui, nel periodo che intercorre tra il XVI e il XIX secolo, circa 12 milioni di africani vennero trasportati nelle Americhe, e di questi almeno 645.000 furono destinati agli Stati Uniti.

Il commercio transatlantico di schiavi venne vietato dal 1807, tranne che all’interno di quel Paese.

Nel 1927 Zora Neale Hurston (1891-1960), scrittrice afroamericana, antropologa e studiosa del folklore statunitense, intervistò Cudjo in Alabama e nel 1931 registrò il racconto completo delle sue peripezie, dall’infanzia in Africa, alla cattura, la sosta nel «barracoon», la prigione in riva al mare dove fu venduto agli schiavisti americani, la traversata dell’oceano insieme ad altri cento prigionieri, l’emancipazione dalla schiavitù con la fine della Guerra Civile e la sua vita successiva negli Stati Uniti.

 

Il libro è intitolato Barracoon. The story of the last Black Cargo.

Il termine “barracoon” deriva dallo spagnolo baracca, e indica gli edifici dove sulla costa africana venivano ammassati gli schiavi prima dell’imbarco sulle navi.

I racconti di Cudjo, trascritti direttamente nel linguaggio dell’intervistato, un inglese “dialettale” parlato dalla popolazione di colore, non risultarono graditi all’editore che pretese la riscrittura in un inglese corretto, ma la Hurston non accettò la richiesta a scapito della pubblicazione del libro.

Anche gli intellettuali afroamericani dell’epoca non lo apprezzarono per quel linguaggio che, secondo loro, amplificava il divario fra neri e bianchi, riducendo a caricatura (per il divertimento dei bianchi) la cultura afroamericana. Inoltre quella forma dialettale rappresentava la testimonianza, tanto incontestabile quanto drammatica, della responsabilità di alcune popolazioni africane nella tratta degli schiavi.

Il libro è stato pubblicato negli Stati Uniti solo nel 2018 ed in Italia l’anno successivo col titolo Barracoon, L’ultimo schiavo (editore 66dthand).

È un testo potente, capace di illuminare un passato cupo, le cui ombre continuano ad allungarsi sul presente.

La vita giovanile di Kossula nel villaggio nel Takkoi (Guinea) è raccontata dal protagonista all’intervistatrice attraverso con ricordi vividi:

«Nel recinto io facevo i giochi con tutti i figli di mio padre. Facevamo la lotta. Facevamo a chi correva più veloce. Ci arrampicavamo sulla palma dove c’erano i cocchi e poi ce li mangiavamo, andavamo nel bosco a cercare le banane e gli ananas e ce li mangiavamo anche quelli.

Lo sai come facevamo a trovare la frutta? Dall’odore. Poi sono diventato grande e grosso. Potevo correre nella boscaglia per un giorno intero senza stancarmi. […]

Quando sono andato via dall’Affficky ero un ragazzo di diciannove anni, avevo fatto un’iniziazione. Però per diventare un uomo ne devi fare tante. […] Mi piaceva anche andare nella piazza del mercato a vedere le ragazze carine con i braccialetti d’oro che partivano dalla mano ed arrivavano fino al gomito. […]

Un giorno ho visto una ragazza che volevo tanto sposare, ma ero troppo giovane per il matrimonio.»

La cattura: «Ghezo re del Dahomey, oggi Benin, aveva un corpo scelto di feroci amazzoni e guerrieri armati con armi da fuoco. Erano soliti fare incursioni annuali a caccia di persone da vendere ai negrieri. Era quasi l’alba quando la gente che ancora dormiva si svegliò per il rumore del popolo del Dahomey che rompeva il cancello grande. Io non ero ancora sveglio.

Ho visto tantissimi soldati con fucili francesi in mano, anche con dei coltelli grandi. Anche le donne soldato che correvano con i coltelli lunghi.

Catturavano le persone e gli tagliavano il collo con il coltello. Le donne soldato gli staccavano la testa. Oddio mio! Se ripenso a quel giorno mi devo sforzare a non piangere più. Ho cominciato a chiamare mamma. Non sapevo dove era. Non vedevo nessuno della famiglia. Non sapevo dove erano. Mi hanno legato insieme agli altri.»

La traversata dell’Atlantico: «Siamo rimasti nei barracoon per tre settimane. Sulla nave ci hanno fatto sdraiare al buio. Siamo rimasti lì tredici giorni. E non ci hanno dato tanto da mangiare. Io avevo una gran sete. Ci davano un po' dì acqua due volte al giorno. Oddio che sete che avevo!

Al tredicesimo giorno ci hanno portati sul ponte. Eravamo cosi deboli che non riuscivamo a camminare da soli. La nave era una goletta di 26 metri di lunghezza e sei di larghezza veloce per sfuggire ai controlli, lo spazio a disposizione dei 116 schiavi era circa un metro e mezzo. Oddio quanto ha sofferto Cudjo su quella nave!

Il mare mi metteva cosi paura, perché l’acqua faceva tanto rumore, ruggiva come mille animali nella boscaglia. Quando sta sopra il mare il vento fa una voce grossa. Oddio! Certe volte la nave saliva verso il cielo. Certe volte scendeva giù verso il fondo del mare.»

La schiavitù: «All’arrivo i prigionieri vengono separati e quel distacco è doloroso quanto quello straziante dalla loro terra. Avevamo attraversato il mare per settanta giorni ed eravamo lontani dalla terra dell’Africa, e adesso ci separavano. Per cui piangevamo. Non potevamo trattenerci.

E cosi abbiamo cantato; il nostro dolore è grande e non riusiamo a sopportarlo. Oddio, se sognerò mia madre credo che morirò nel sonno! Il lavoro era molto pesante per noi perché non eravamo abituati a lavorare così. Ma non ci lamentavamo per questo. Piangevamo perché eravamo schiavi. Di notte piangevamo perché eravamo nati e cresciuti liberi e invece adesso eravamo schiavi. Non capivamo perché ci avevano portato via dal nostro paese per lavorare così.»

Dopo cinque anni, alla fine della Guerra Civile, gli schiavi della Clotilde vennero liberati. Desideravano tornare in Africa, ma la traversata costava troppo e quindi furono costretti a tornare nei luoghi dove erano stati ridotti in schiavitù dai loro “fratelli” neri.

Riuscirono a comprare un po’ di terra e fondarono un villaggio, Africantown, alla periferia della città di Mobile, una comunità dove vivevano solo persone provenienti dall’Africa, che parlavano nella loro lingua e seguivano antiche regole tribali.

Cudjo sposò Abache anche lei arrivata in Alabama con la Clotilda, ebbe sei figli, divenne Battista, ma la vita in Africantown fu tutt’altro che facile.

«Mentre i bambini crescevano gli americani gli davano sempre fastidio e gli dicevano che la gente dell’Afficky ammazza la gente e si mangia la loro carne . Dicevano che i miei figli erano dei selvaggi ignoranti e andavano in giro a dire che erano come le scimmie.»

Rimase vittima di un incidente che lo rese inabile a di lavorare la terra; la moglie e i figli morirono uno dopo l'altro per malattie o incidenti.  

Quando l’intervistatrice Zora Hurston, terminato il lavoro, lo salutò per l’ultima volta, Cudjo aveva circa novanta anni, era rimasto solo con i nipoti. Morirà quattro anni dopo.

L’addio e la conclusione del libro sono molto tristi: «Sono sicura che non teme la morte - scisse la Hurston -. Nonostante il lungo sodalizio con la cristianità è troppo pagano nell’intimo per lasciarsi spaventare, ma davanti all’altare del passato trema ancora di angoscia.»