La reificazione del linguaggio

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Pubblicato Venerdì, 03 Giugno 2022 20:59
Scritto da Michele Marsonet
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In un suo saggio, Richard Rorty affermò che ciò che Gustav Bergmann definiva “svolta linguistica” «fu un tentativo alquanto disperato di mantenere la filosofia al livello di disciplina prettamente teorica. L’idea era di circoscrivere uno spazio per la conoscenza a priori all’interno del quale la sociologia, la storia, l’arte e perfino la scienza naturale non sarebbero mai riuscite ad infiltrarsi.»

In effetti l’analisi linguistica è diventata, con il trascorrere del tempo, una sorta di “filosofia prima”, destinata a sostituire proprio quella metafisica di cui i padri fondatori del positivismo logico avevano redatto il certificato di morte.

Rorty prosegue quindi dicendo che quella che Ian Hacking ha chiamato “la morte del significato”, vale a dire la fine di ogni tentativo volto a fare del linguaggio un soggetto trascendentale, ha consentito di concepire il linguaggio stesso lungo linee più naturalistiche.

In sostanza siamo passati da Frege e dal primo Wittgenstein, e cioè i filosofi cui spetta la responsabilità primaria di aver introdotto l’idea che il linguaggio possa essere definito come una struttura chiaramente condivisa, al secondo Wittgenstein (più tardi seguito da Quine, Davidson e dallo stesso Rorty) il quale rinunciò a quest’idea.

Per chiarire la posta in gioco, possiamo affermare che siamo in presenza di due concezioni opposte del linguaggio.

La prima sostiene che (i) il linguaggio è qualcosa di auto-esplicativo il quale, inoltre, è in grado di spiegare tutto il resto.

Ciò significa postulare oggetti di tipo A, vale a dire degli esplicatori non spiegati come le idee platoniche, le categorie kantiane, gli oggetti logici di Russell, in base ai quali oggetti di tipo B - gli explananda - possono a loro volta essere spiegati.

La seconda concezione, invece, afferma che (ii) non c’è in realtà alcuna distinzione fra oggetti di tipo A e di tipo B.

Tutti gli oggetti sono al medesimo livello, per quanto in un senso piuttosto speciale. Rorty ricorre infatti all’immagine - che ci rammenta scritti di Quine come “Due dogmi dell’empirismo” - di una rete e dei suoi nodi.

Se vogliamo evitare il problema auto-referenziale in cui si imbattono costantemente coloro che ammettono la distinzione tra oggetti di tipo A e di tipo B, è necessario cambiare radicalmente il quadro.

Poiché secondo Rorty la distinzione, presente nel Tractatus, fra il mondo accessibile e nominabile e la “sostanza del mondo” inaccessibile e ineffabile è errata, tutto ciò che resta da fare è rinunciare completamente a tale distinzione.

Si tratta indubbiamente di una mossa astuta.

Eliminate con un tratto di penna ineffabilità e inaccessibilità, tutti i problemi scompaiono. È però necessario chiedersi fino a che punto l’abile mossa di Rorty sia giustificata. Abbiamo infatti buone ragioni per essere sospettosi poiché, dopo tutto, Immanuel Kant doveva pur avere qualche motivo per adottare quel modello, e lo stesso Wittgenstein lottò, sino alla fine della sua vita, con il vecchio problema del divario esistente tra la realtà e le rappresentazioni che noi ne diamo.

A questo punto, infatti, Rorty proclama apertamente la propria fede nell’olismo, sostenendo che, contrariamente all’assunto che vi possano essere entità che sono quello che sono in totale indipendenza dalle relazioni che valgono tra loro, occorre adottare un olismo davidsoniano (e anche quineano) secondo il quale “tutte le entità sono semplicemente dei nodi in una rete di relazioni”.

A mio avviso, la pericolosità di una simile situazione è data dal fatto che, nonostante tutte le differenze che Rorty individua tra il primo e il secondo Wittgenstein, e tra se stesso e la filosofia analitica ortodossa, anche nella sua visione il linguaggio diventa non solo l’arbitro della verità, ma pure il componente principale - se non forse l’unico - della realtà.

È importante notare che simili considerazioni non sono affatto estrinseche come potrebbe sembrare a prima vista. Rorty, infatti, riconosce apertamente il suo debito intellettuale nei confronti di John Dewey, e lo considera - assieme al Wittgenstein del secondo periodo - il filosofo più importante del ’900.

È comunque chiaro che, adottando una tale posizione, si finirà prima o poi col tornare alla vecchia tesi idealista secondo cui gli uomini non possono uscire dal pensiero, con l’unica differenza che ai nostri giorni il pensiero è sostituito dal linguaggio.

Ovviamente non è questa l’interpretazione che Rorty dà della propria posizione. Egli afferma infatti di aver scelto - assieme ad altri pensatori contemporanei quali, appunto, Quine e Davidson - di superare la svolta linguistica per adottare una visione della realtà “libera da condizionamenti”.

«L’accessibilità - egli continua - richiede che le entità siano messe in correlazione con qualcosa di diverso da se stesse. Abbiamo fatto emergere la domanda sul perché si sia mai pensato che esistesse un problema, proprio in merito all’accessibilità. Di modo che abbiamo anche messo in discussione la necessità della filosofia, nella misura in cui venga pensata come studio delle condizioni di accessibilità.»

Si può, tuttavia, eliminare il problema dell’accessibilità così facilmente? Rorty aggiunge che occorre volgersi al naturalismo, col che egli intende la visione secondo cui tutte le cose avrebbero potuto assumere un corso diverso e non ci possono essere “condizioni incondizionate”, e proclama che lo storicismo è un caso particolare del naturalismo così concepito.

È comunque interessante notare la sua definizione di “naturalismo”. Con tale termine, infatti, ci riferiamo alla tesi per cui ogni spiegazione, per essere significante, deve essere riportata ad un ordine naturale nel quale tutti gli uomini sono inseriti sin dalla loro nascita, sottintendendo che la collocazione naturale (vale a dire spazio-temporale) degli individui non dipende in alcun modo dalla loro volontà personale.

La soluzione che Rorty propone, pertanto, si basa sull’interpretazione standard del secondo Wittgenstein, il quale a suo parere lasciò cadere l’idea di trovare condizioni non empiriche per la possibilità della descrizione linguistica. Ma che cosa intende il secondo Wittgenstein per empirico? Ciò non è affatto scontato, benché molti interpreti del filosofo austriaco dichiarino di avere idee chiare in proposito.

Secondo Rorty «Egli [il secondo Wittgenstein] si sottomise di buon grado all’idea che l’aver senso di una proposizione dipendesse, in effetti, dall’esser vera un’altra proposizione, una proposizione, cioè, sulle pratiche sociali delle persone che usano i segni e i rumori che la compongono.»

Il fatto è che né i testi del primo Wittgenstein né quelli del secondo si prestano a interpretazioni chiare ed univoche (come invece Rorty vorrebbe far credere).

La vera questione, allora, è data dal rapporto tra ontologia e teoria della conoscenza.

Certamente molti autori direbbero che una distinzione simile risulta, nel pensiero di Wittgenstein, insostenibile, e in particolare se ci riferiamo alla seconda fase della sua parabola filosofica.

Ciononostante, penso che qui ci si trovi di fronte al problema di determinare che cos’è realmente la cornice di riferimento di cui il filosofo austriaco parla così spesso, e che si suppone sia condivisa da tutti gli esseri umani in quanto tali.

Egli afferma che lo scetticismo solleva dubbi proprio quando non ha senso porsi degli interrogativi, mentre Ray Monk sostiene correttamente che in Della certezza Wittgenstein si sforza di giungere al «punto in cui anche il dubbio stesso diventa privo di senso.»