Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Rorty sugli schemi concettuali

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Richard Rorty, nell’aderire alle tesi davidsoniane, afferma che la nozione di schema (o schemi) concettuale ricorda da vicino il sistema kantiano delle categorie a priori, il quale è necessario alla costituzione stessa dell’esperienza.

Fino a che punto, tuttavia, si può essere certi che lo stesso Davidson non finisca per adottare - magari inconsapevolmente - lo stesso modello?

Giovanna Borradori ha ad esempio affermato che «Nell’orizzonte di Davidson, il linguaggio, inteso come produzione intersoggettiva di significato, viene prima di tutto: prima di condividere una visione del mondo non esistono idee.»

Il filosofo americano riesce, almeno entro certi limiti, a rispondere a tale obiezione. Tuttavia non bisogna scordare che per i pragmatisti il linguaggio nasce, a un certo punto dell’evoluzione biologico-culturale dell’umanità, come mezzo per risolvere problemi.

In Davidson, invece, esso spesso appare come un “dato” primitivo e indefinibile, una sorta di schema concettuale di carattere estremamente generale che si fonde con la realtà (essendo quindi indistinguibile da essa).

Occorre allora rammentare che dal punto di vista pragmatista il problema del significato (e quello della verità, nella misura in cui può essere chiaramente distinto dal primo) è un problema dotato di senso soltanto in relazione al mondo umano. In natura non v’è significato (né verità).

Davidson è realista nella misura in cui ammette l’esistenza di un mondo naturale che non dipende affatto da noi per la sua esistenza, mentre il suo antirealismo si riduce, a ben guardare, alla constatazione della futilità dei vari tentativi filosofici di costruire teorie del significato (e della verità).

Si affaccia a questo punto alla ribalta il problema della possibilità di «schemi concettuali alternativi.»

 

Secondo Rorty, Kant codificò le due distinzioni necessarie a sviluppare la nozione di “schema concettuale alternativo”: la distinzione fra (A) spontaneità e ricettività, e quella fra (B) verità necessaria e contingente.

A partire da Kant - egli prosegue - ci è quasi impossibile non pensare alla mente in termini di facoltà attive e passive che sono chiaramente distinte tra loro, le prime atte a impiegare concetti per interpretare quel che il mondo impone alle seconde.

Troviamo inoltre arduo non distinguere fra i concetti di cui la mente ben difficilmente potrebbe fare a meno e altri che può impiegare a sua discrezione, e pensiamo alla verità dei primi in quanto ‘necessaria’ nel senso più forte e paradigmatico del termine.

Secondo la lettura rortyana, spetta a Hegel il merito di averci fatto capire che questi concetti a priori kantiani avrebbero anche potuto essere diversi da ciò che sono.

Se è vero che essi condizionano la nostra esperienza o la nostra morale, niente ci impedisce di pensare che qualcuno (ad esempio il folle) organizzi le intuizioni condivise secondo modelli differenti, e possa quindi avere coscienza di un mondo diverso.

È, questo, un punto di fondamentale importanza. Il modello kantiano ci dice che senza sapere perché o come, gli esseri umani sono dotati di un patrimonio di categorie innate che consente loro di “creare” un mondo fenomenico, al quale fa da contrappunto un mondo noumenico che non può essere conosciuto. L’uomo, quindi, diventa creatore di realtà.

Ne deriva che si può pensare, per l’appunto, a diversi mondi fenomenici, ossia a possibilità più o meno alternative di organizzare i dati grezzi dell’esperienza sensibile in base a schemi concettuali alternativi.

Occorre tuttavia fare attenzione, in quanto si pongono problemi per quanto concerne l’esempio del folle. In quel caso, infatti, più che a un vero e proprio schema concettuale “alternativo”, si può pensare ad alterazioni patologiche dello stesso schema concettuale, ragion per cui è diverso lo status epistemico della rappresentazione fenomenica che ne deriva. È comunque ovvio che il mondo noumenico, inteso come blocco inaccessibile alle nostre facoltà cognitive, fa sempre da sfondo.

Gli attacchi alla distinzione fra l’osservabile e il teorico condotti - tra gli altri - da autori quali T.S. Kuhn, P.K. Feyerabend e W. Sellars, spiegherebbero così il rinnovato apprezzamento del principio kantiano secondo cui modificare i concetti di qualcuno vorrebbe dire mutare il suo stesso modo di fare esperienza e, di conseguenza, il suo mondo fenomenico.

Da un punto di vista strettamente kantiano, comunque, si tratta di una possibilità del tutto teorica. Infatti gli occhiali spazio-temporali che secondo Bertrand Russell Kant ci impone, impediscono in realtà di dar vita ad un mondo fenomenico diverso da quello che attualmente vediamo.

Il discorso va caso mai spostato al caso di ipotetici extra-terrestri che organizzino il mondo utilizzando categorie radicalmente diverse dalle nostre.

L’apprezzamento del punto kantiano di cui sopra mette tuttavia in crisi la tradizionale distinzione fra spontaneità e ricettività.

Secondo Rorty, ciò avviene in quanto «la possibilità di diversi schemi concettuali fa risaltare il fatto che una intuizione kantiana non sintetizzata non può esercitare alcuna influenza sul modo in cui deve essere sintetizzata o, nel migliore dei casi, può solo esercitare un’influenza sul nostro modo di descrivere relativamente a un dato schema concettuale.»

Egli prosegue affermando che la nozione kantiana di una facoltà della “ricettività” è stata messa in crisi dalla seguente constatazione:

(a) Se un’intuizione kantiana è effabile, allora essa dev’essere identificata con un giudizio percettivo il quale, proprio in quanto tale, non è puramente intuitivo.

(b) Se è invece ineffabile, non ha alcuna funzione esplicativa.

Si tratta di un dilemma parallelo a quello di cui parla Hegel a proposito delle presunte “cose-in-sé”. Nella misura in cui un noumeno è effabile dobbiamo in qualche modo conoscerlo. Se invece è ineffabile, allora postularne la presenza non spiega alcunché.

Possiamo insomma pensare che la nostra conoscenza del mondo abbia origine da due fonti indipendenti e separate: ciò che noi, in quanto esseri produttori di pensieri e concetti, siamo in grado di interpretare o concepire circa il mondo, e ciò che il mondo in quanto tale è, indipendentemente da ogni interpretazione o concetto.

La concettualizzazione diventa una sorta di struttura che dà forma al mondo della nostra conoscenza, mentre la realtà-in-sé è il contenuto che sottende tale conoscenza.

Hegel rifiutò la nozione kantiana di “entità inconoscibile”. Se, seguendo Kant, neghiamo la possibilità di conoscere le cose-in-sé, affermando che la conoscenza si dà solo delle cose come ci appaiono (o fenomeni), a quale titolo possiamo affermare di possedere un qualche tipo di conoscenza dei fenomeni stessi?

Che cosa sono, dunque, le cose in sé?

Non siamo in grado di assegnare ad esse alcuna proprietà, e per Hegel ciò che è indeterminato è pure irreale.

Ecco allora venir meno quella sorta di “intermediario” che Kant ipotizza per creare un ponte tra l’attendibilità fisica dello stimolo sull’organo e il giudizio cosciente concepito da un organismo adeguatamente educato: “non c’è quindi alcun bisogno di scindere l’organismo in una ricettiva tavoletta di cera da una parte e un interprete ‘attivo’ di quel che la natura vi ha impresso dall’altra”.

Giunti a questo punto, l’ipotesi per cui diversi concetti a priori - se davvero esistessero - darebbero luogo a diversi mondi fenomenici, non può più essere sostenuta. Si manifesta infatti una biforcazione:

 (A) Da un lato abbiamo la conclusione, invero paradossale, che diversi concetti generano mondi diversi;

(B) Oppure, dall’altro, è giocoforza lasciar cadere del tutto la nozione di “schema concettuale”.

“Concetti a priori” e “fenomeni” vanno quindi di pari passo: stanno in piedi o cadono assieme.

I fenomeni non hanno alcuna funzione se vengono staccati dalle intuizioni kantiane, poiché la tesi che i nostri concetti danno forma a “un materiale neutro” non ha più alcun senso se non esiste alcunché che possa svolgere la funzione di materiale: “gli stessi stimoli fisici non sono un utile sostituto, perché il contrasto fra i ‘costrutti’ che l’intelletto inventivo edifica per prevedere e controllare gli stimoli, e gli stimoli stessi, non può essere altro che un contrasto fra il mondo effabile e la sua causa ineffabile”.

Si possono tuttavia fare anche riflessioni di segno diverso. In che senso, ad esempio, la visione del mondo nostra e quella degli antichi Romani sono il frutto di schemi concettuali alternativi?

In realtà noi vediamo che agli antichi Romani ci lega un tessuto di credenze comuni e basilari, tra le quali si possono menzionare il credere che gli oggetti materiali si collocano al di fuori della nostra mente, che la notte e il giorno si succedono l’una all’altro, che la morte è la conclusione naturale della vita, etc.

Tutto sommato, le credenze che da essi ci separano sono in numero assai più esiguo: la forma più o meno sferica del nostro pianeta, l’inesistenza delle Colonne d’Ercole, etc.

Si potrebbe sostenere che le credenze comuni riflettono la presenza costante di un mondo naturale nel quale tutti noi siamo inseriti alla stregua di oggetti, mentre quelle che ci separano sono essenzialmente dovute ad un processo di scoperta che ha carattere storico e pratico.

Sembra indubbiamente difficile costringere le tappe evolutive di questo processo nella camicia di forza di presunti schemi concettuali alternativi che si succederebbero l’uno all’altro.

Ma a detta di Rorty la crisi della nozione di schema concettuale “alternativo” contiene in sé i germi della distruzione della nozione di schema concettuale in quanto tale: «Una volta messa in dubbio la facoltà di ricettività e, più in generale, la nozione di materiale neutro, il dubbio si estende rapidamente alla nozione di pensiero concettuale in quanto ‘informatore’ e quindi alla nozione di un Mondo-Spirito che passa da un insieme all’altro di concetti a priori.»

Giacché è evidente che questo rincorrersi di concetti a priori va fatto risalire a una dimensione che non è quella empirico-naturale, costituendo così una violazione dell’ordine naturale stesso.

I ragionamenti fatti sinora, e che riguardano la distinzione “dato/interpretazione”, possono essere estesi alla dicotomia “necessario/contingente”.

Rorty sposa la tesi quineana secondo cui non è possibile tracciare una netta linea di confine tra questioni di significato (di lingua) e questioni di fatto.

Non si dà il caso che io conosca la verità necessaria di “piove o non piove” in base a questioni di puro significato, in quanto ho bisogno di una grande quantità di informazioni empiriche per arrivare a determinare la verità di quella proposizione.

In altri termini, come afferma lo stesso Rorty subito dopo, in mancanza delle nozioni di “dato” e di “a priori”, non vi può essere alcuna nozione di “costituzione dell’esperienza”.

Da cui consegue pure che non vi può essere alcuna nozione di esperienza “alternativa”, o di mondo “alternativo”, costituito dall’adozione di nuovi concetti a priori.

Rorty passa poi a considerare le argomentazioni contro la nozione di “schemi concettuali alternativi” avanzate da Davidson nel saggio Sull’idea stessa di schema concettuale.

Si tratta di un’argomentazione verificazionista, la quale verte sulla vera e propria irriconoscibilità di esseri che facciano uso di uno schema concettuale diverso dal nostro.

Ciò può significare tre cose: (1) o vi è un solo schema concettuale, o (2) ve ne sono altri che non sono traducibili nel nostro, o (3) non c’è alcunché che possa essere assimilato alla nozione di “schema concettuale”.

Per dirla in modo diverso, noi non possiamo nemmeno riconoscere in quanto linguaggio qualcosa che non sia traducibile in una delle lingue naturali.

Tuttavia, se non possiamo trovare una traduzione, è chiaro che dobbiamo rassegnarci a non considerare il nostro ipotetico interlocutore come un utente del linguaggio.

È aperta l’eventualità che il nostro fallimento si debba al fatto che lo straniero (o, forse, l’alieno) ritagli il mondo in maniera diversa o possieda differenti “spazi qualitativi”.

In altri termini, se si possono immaginare modi diversi di ritagliare il mondo, si deve pure ammettere che qualsiasi cosa emetta dei segnali potrebbe in realtà parlare un linguaggio per noi intraducibile.

Ma Rorty sottolinea che, allora, la nozione di un linguaggio intraducibile diventa fantasiosa quanto quella di un colore invisibile.

 

 

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