Epistemologia e complessità

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Pubblicato Martedì, 24 Maggio 2022 09:17
Scritto da Michele Marsonet
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L’analisi metodologica della scienza è andata incontro, negli ultimi decenni, a una serie di drastici cambiamenti che hanno in pratica stravolto l’immagine dell’epistemologia quale ci era stata tramandata da Rudolf Carnap, Ernest Nagel e altri classici della filosofia della scienza neopositivista del ’900.

Si tratta della crisi della cosiddetta “visione ricevuta” (received view) elaborata dal neopositivismo logico.

La prima e decisiva spallata al modo tradizionale di concepire i rapporti tra scienza e filosofia venne portata da Karl Popper il quale, pur essendo per molti versi ancora vicino ai canoni neopositivisti, ha dato vita a un’epistemologia “falsificazionista” che costituisce la vera e propria base dei grandi mutamenti successivamente intervenuti in questa disciplina.

Al pensiero popperiano, infatti, si possono in ultima analisi ricondurre gran parte dei rivolgimenti che hanno poi condotto al successo della cosiddetta “epistemologia post-empirista”, la quale trova in Thomas Kuhn e Paul Feyerabend i suoi principali rappresentanti.

 

Il problema è che, oggi, anche il post-empirismo è in crisi, e per una ragione ben precisa. Pur insistendo giustamente sia sull’importanza del contesto storico-sociale in cui la ricerca scientifica viene condotta, sia sulla necessità di prendere in considerazione e di approfondire i rapporti tra storia della scienza e filosofia della scienza, questa corrente ha finito con l’esagerare in senso opposto rispetto ai neopositivisti.

In altre parole, i post-empiristi portano alle estreme conseguenze una visione unicamente storico-sociologica della scienza (proprio come i neopositivisti avevano portato alle estreme conseguenze una visione unicamente logico-linguistica).

Riducendo in sostanza la scienza a un processo storico che è relativo agli abiti mentali e ai comportamenti sociali che si osservano nelle comunità scientifiche, essi danno vita a una concezione meramente sociologistica e psicologistica della scienza stessa, approccio che non è certo più popolare di quello neopositivista presso gli scienziati di professione.

A fronte di questo stato di cose è cresciuta la consapevolezza che occorre battere altre strade, se davvero si vogliono ricostruire quei ponti tra scienza e riflessione epistemologica sulla scienza che sono stati distrutti dal prevalere della svolta linguistica da un lato, e dalla dissoluzione della pratica scientifica nella storia e nella sociologia sostenuta dal post-empirismo dall’altro.

Una possibile soluzione è quella intervenuta con la cosiddetta “svolta naturalistica” che, riscoprendo l’epistemologia del pragmatismo, si propone di naturalizzare il linguaggio, facendone semplicemente uno strumento sociale costruito dall’uomo a fini essenzialmente pratici. Il linguaggio stesso, quindi, non viene più visto come un’entità misteriosa e dotata di consistenza ontologica autonoma che, pur essendo in grado di spiegare tutto il resto, non può spiegare la propria nascita.

Occorre, piuttosto, inserire la dimensione linguistica nell’ambito di un processo evolutivo naturale e, a tal fine, va abbandonato l’anti-psicologismo reinserendo nell’epistemologia idee tratte dalla psicologia, dalla biologia e dalle scienze umane non concepite secondo canoni riduzionistici. Un’altra soluzione viene offerta da una variegata corrente che si suole definire “epistemologia della complessità”.

Il fatto di aver definito “variegata” l’epistemologia della complessità già indica che non è facile darne una rappresentazione unitaria. Molti sono gli autori e le tendenze che ad essa fanno capo; di conseguenza, ritengo sia meglio limitarsi ad enucleare alcune idee di fondo che formano il tessuto connettivo di un approccio che è oggi abbastanza popolare - ma non certo maggioritario - nei circoli epistemologici.

L’assolutizzazione operata da Kant della geometria euclidea e della meccanica newtoniana era, al tempo in cui il filosofo di Königsberg viveva, tutt’altro che immotivata, dal momento che esse erano in grado di dare un quadro unitario ed estremamente preciso dell’intera realtà.

Si noti, tuttavia, che lo stesso Kant non aveva elaborato la propria teoria a tavolino e in modo astratto, ma aveva studiato in profondità i risultati della scienza della sua epoca; se un rilievo gli si può rivolgere, è quello di non aver compreso che nella scienza non si dà mai nulla di definitivo e incontrovertibile.

Occorre, insomma, seguire l’esempio di Kant nel suo significato migliore, poiché egli era partito dallo studio della scienza del suo tempo per costruire il proprio sistema filosofico.

Ai nostri giorni la scienza non è più - o, almeno, non è soltanto - studio delle condizioni di equilibrio; in essa acquista grande rilievo l’indagine concernente le cosiddette “strutture dissipative”, e uno scienziato che costituisce un costante punto di riferimento dell’epistemologia della complessità come Ilya Prigogine nota che, anche in assenza di equilibrio termodinamico, possono pur sempre sorgere delle strutture le cui proprietà non risultano deducibili da leggi a carattere generale.

Oggi si parla ormai apertamente di una terza rivoluzione nella fisica, dopo la prima che prese avvio dall’opera di Galileo e di Newton, e la seconda che, nella prima parte del secolo scorso, venne realizzata grazie alla relatività di Einstein e alla meccanica quantistica.

La prima rivoluzione galileiano-newtoniana scelse esplicitamente di considerare la realtà dal puro punto di vista quantitativo, ipotizzando che il libro del mondo sia scritto in caratteri matematici. Se, attraverso adeguati apparati di misura, riusciamo a tradurre in numeri le cose, ecco che risulta possibile raggiungere l’accordo inter-soggettivo sul genere di misura di cui abbiamo bisogno eliminando errori, fraintendimenti e ambiguità.

Questo modello di spiegazione, che ha influenzato in maniera evidente il positivismo classico e il neopositivismo del ’900, sembra condurci verso un grado sempre più alto di “predicibilità” dei fenomeni, e certo non si può negare che esso abbia conseguito dei successi di grande rilievo.

La seconda rivoluzione relativistica e quantistica ha mostrato l’infondatezza, oltre che della concezione di un tempo e di uno spazio assoluti, anche del determinismo che caratterizzava la rivoluzione precedente.

Oggi nessuno oserebbe più sposare la celebre tesi di Laplace, secondo il quale, conoscendo velocità e posizione di tutte le particelle dell’universo in un certo istante, si potrebbe altresì conoscere esattamente il futuro dell’universo stesso. Il principio di indeterminazione di Heisenberg sfatò questa tesi a livello microscopico, anche se, per un certo periodo, la fede nel determinismo macroscopico rimase sostanzialmente immutata.

Con la terza rivoluzione entra in scena lo strano - per il senso comune - concetto di “caos deterministico”. Si tratta di un’espressione che, di primo acchito, pare contraddittoria, essendo il caos per lo più considerato come la negazione di ogni tipo di determinismo. In realtà la fisica contemporanea ha appurato che il caos, e cioé l’impossibilità di effettuare predizioni di lungo periodo, è tutt’altro che una caratteristica dei sistemi complessi, in quanto esso si manifesta già al livello di sistemi relativamente semplici.

Tutto ciò significa che la predicibilità di lungo periodo diventa una sorta di chimera, e i modelli semplificati con i quali la realtà naturale veniva studiata in un passato non troppo lontano si rivelano sempre più inadeguati.

Noi viviamo in un universo che è intrinsecamente complesso, e di qui l’emergere di un “paradigma della complessità” che costituisce il fulcro della terza rivoluzione scientifica di cui dicevo dianzi.

A partire dall’ormai classico “Il caso e la necessità” di Jacques Monod, è cresciuto in grande misura decisiva il numero degli scienziati che del nuovo paradigma hanno fatto la base delle proprie ricerche. Molti studiosi hanno compreso che la fiducia nella possibilità di determinare un punto di vista “privilegiato” in base al quale effettuare le misurazioni era mal riposta; i punti di vista sono, inevitabilmente, più d’uno, e occorre quindi passare a una visione funzionale della ricerca scientifica, nella quale gli oggetti non vengono considerati isolatamente, bensì in funzione l’uno dell’altro e del contesto più generale in cui sono inseriti.

 Caos deterministico e complessità limitano dunque seriamente la predicibilità a lungo termine, il che significa che abbiamo continuamente bisogno di introdurre nuova informazione per poter fare previsioni sul futuro. Passando dallo studio dei sistemi semplici a quello dei sistemi complessi, siamo inoltre in grado di giudicare meglio la fisica del vivente, giacché è un dato di fatto che proprio in tale contesto la complessità trova la sua massima espressione (si pensi, per esempio, al cervello umano).

L’abbandono del punto di vista classico, che era privilegiato e assoluto, comporta altresì l’introduzione del pluralismo all’interno dell’edificio scientifico, e le conseguenze di questo stato di cose sono ovviamente fondamentali ai fine dei rapporti tra scienza e filosofia della scienza.

In altri termini, si riapre l’annoso dibattito tra le “due culture”, dal momento che non appare più legittimo separare con una cesura netta il mondo naturale da quello linguistico e sociale.

Il sociologo e filosofo francese Edgar Morin ritiene che la terza rivoluzione scientifica offra l’opportunità di rifondare la riflessione sulla scienza partendo da basi nuove, e l’attuale “epistemologia della complessità” deve proprio a lui buona parte dei suoi strumenti concettuali.

Morin parte dalla constatazione che l’epistemologia non può - e non deve - isolarsi dal contesto più vasto della cultura tout court; se è vero che la scienza rappresenta l’oggetto primario della sua riflessione metodologica, è pure legittimo affermare che la scienza stessa non vive in isolamento rispetto alla società nel suo complesso.

La scienza altro non è che una delle più importanti pratiche umane, e in quanto tale va giudicata sia in riferimento alla storia, sia avendo presenti le altre pratiche umane che con essa interagiscono. Vi è a suo avviso qualcosa di profondamente errato nella razionalità semplificatrice che il neopositivismo attribuisce alla conoscenza scientifica.

L’atomismo logico di Bertrand Russell e del primo Wittgenstein intende “risolvere” la complessità scomponendola nei suoi elementi primari i quali, una volta analizzati singolarmente, vengono usati quali mattoni per costruire un insieme inteso soltanto come “somma delle parti”.

Ma questo - secondo lo studioso francese - è semplicemente “riduzionismo”, che pretende di annullare la diversità per costruire un sistema totalizzante.

È una strategia votata al fallimento, in quanto non tiene conto della complessità del reale e delle interrelazioni che ne formano il vero tessuto connettivo.

Ecco quindi la necessità di dar vita a un nuovo paradigma che, invece di semplificare in modo arbitrario, tenga conto degli sviluppi scientifici più recenti e delle nozioni di complessità e caos deterministico.

Morin parla, a tale proposito, di “indeterminazione fondatrice”, e ritiene che l’“indeterminato”, anziché essere assimilato al caso, vada inteso come elemento costitutivo del divenire.

Ciò significa, tra l’altro, la fine delle concezioni che vedono nella scienza tanto l’unico paradigma del conoscere, quanto una forma di conoscenza certa e perfetta; i grandi interrogativi che vengono posti all’interno della società non sono affatto estranei alla ricerca scientifica, e se quest’ultima non intende rispondervi corre il rischio non solo di isolarsi, ma anche di rendere sterili le sue prospettive future.

Nel suo saggio Le vie della complessità troviamo queste considerazioni: «La complessità si presenta come difficoltà e come incertezza, non come chiarezza e come risposta. Il problema è di sapere se sia possibile rispondere alla sfida dell’incertezza e della difficoltà.

Per lungo tempo molti hanno creduto - e molti forse credono ancor oggi - che la carenza delle scienze umane e sociali stesse nella loro incapacità di liberarsi dall’apparente complessità dei fenomeni umani, per elevarsi alla dignità delle scienze naturali, scienze che stabilivano leggi semplici, principi semplici, e facevano regnare l’ordine del determinismo.

Oggi vediamo che le scienze biologiche e fisiche sono caratterizzate da una crisi della spiegazione semplice. E di conseguenza quelli che sembravano essere i residui non scientifici delle scienze umane - l’incertezza, il disordine, la contraddizione, la complicazione, etc. - fanno ora parte della problematica di fondo della conoscenza scientifica.»

Ricollegandosi a Kuhn, Morin nota che le teorie scientifiche sono organizzate a partire da principi che non dipendono interamente dall’esperienza. Ragion per cui non si perita di sottolineare che «Si tratta di un paradosso sconcertante. La scienza si sviluppa non soltanto nonostante ciò ma anche grazie a ciò che in essa vi è di non scientifico.

Qual è l’errore del pensiero formalizzante e quantificatore che ha dominato le scienze? Non è certamente quello di essere un pensiero formalizzante e quantificatore, e non è nemmeno quello di mettere fra parentesi ciò che non è quantificabile e formalizzabile.

Sta invece nel fatto che questo pensiero è arrivato a credere che ciò che non fosse quantificabile e formalizzabile non esistesse, o non fosse nient’altro che la schiuma del reale. Sogno delirante, e sappiamo che niente è più folle del delirio della coerenza astratta.»

Ne consegue la necessità di riscoprire quello che egli chiama “pensiero multidimensionale”, un pensiero, cioé, che attribuisca alla formalizzazione e alla quantificazione il loro giusto ruolo, senza tuttavia esaurirsi in esse.

A suo avviso una razionalizzazione come quella imposta da alcune correnti epistemologiche del ’900 si trasforma ben presto in una “patologia della razionalità”, introducendo la falsa credenza che ogni azione umana possa essere governata.

Si tratta quindi di superare le tradizionali barriere tra le scienze naturali e quelle umane. E proprio questa è, in fondo, la maggiore lezione che ci viene dall’epistemologia della complessità.

Natura e cultura non debbono più essere viste come entità tra loro irriducibili, bensì come componenti di un unicum che le comprende entrambe, e la scienza stessa diventa un elemento essenziale della cultura contemporanea.