Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Gli alterni rapporti tra scienza e filosofia

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Secondo una visione diffusa fino a qualche decennio orsono, il progresso scientifico ci consente di ottenere una conoscenza sempre più adeguata del mondo circostante. Sorgono tuttavia dei problemi quando ci accingiamo a dare una definizione della nozione di “incremento della conoscenza”. Gli empiristi, per esempio, identificano il progresso scientifico con la crescita della “adeguatezza empirica” delle teorie.

I pragmatisti, invece, lo collegano alla nostra crescente capacità di risolvere i problemi posti dagli stessi fenomeni empirici. In genere, coloro che si proclamano realisti sostengono una nozione più forte di progresso scientifico, secondo la quale l’avanzamento della conoscenza conduce a un progressivo avvicinamento alla verità.

La loro opinione non si basa sulla valutazione dell’adeguatezza empirica delle teorie o della nostra capacità di risolvere problemi; quando lo scienziato scopre i processi causali che spiegano i fenomeni osservabili, egli finisce col postulare entità non osservabili che sottendono tali processi giungendo quindi a un svelamento - per quanto parziale - della verità intorno al mondo.

Un realismo scientifico inteso in questo modo presta il fianco a numerose critiche. In genere i suoi sostenitori concordano sulla tesi secondo cui lo scopo della scienza è la scoperta della verità intorno al mondo che ci circonda. Non si tratta tuttavia - o non si tratta soltanto - di una verità intesa alla maniera di Charles S. Peirce, vale a dire del risultato (ideale) raggiunto da una scienza giunta al termine della propria ricerca; ciò che interessa ai realisti scientifici è anche la verità (o le verità) conseguibili nelle singole discipline.

 

Ne consegue tra l’altro che la nozione di “verità” e quella di “spiegazione” sono intimamente correlate; in questo senso ciò che realmente interessa è la spiegazione vera.

Lo scopo precipuo della scienza consisterebbe pertanto nel fornire spiegazioni vere dei fatti che accadono nel mondo.

Partendo da queste premesse si può fare un passo ulteriore. Ogni teoria scientifica può essere corretta o meno, giacché un realista non si sognerebbe mai di contestare la possibile inadeguatezza di tutte le teorie. Ma ciò che importa è un altro fatto: la verità o falsità di qualsiasi teoria è determinata dal modo in cui il mondo è, e questo nulla ha a che vedere con i processi mentali e cognitivi o con le nostre credenze. Contrariamente a quanto sostengono gli anti-realisti vecchi e nuovi, non è ciò che facciamo, pensiamo o diciamo a rendere corrette o scorrette le teorie; è invece la realtà stessa a stabilire se le nostre credenze circa il mondo sono vere o false. Quando affermiamo che i quark hanno certe caratteristiche, la verità (o falsità) di tale enunciato è stabilita dalla natura stessa dei quark, e non dall’opinione che noi ne abbiamo.

La posizione appena delineata implica una precisa visione del progresso della scienza. Il realismo scientifico attribuisce grande importanza sia alle entità inosservabili postulate dalle teorie, sia al fatto - oggi contestato - che è la realtà indipendente dalla mente, e composta in gran parte da tali entità inosservabili, a determinare la correttezza o meno delle teorie. Di conseguenza la crescita della conoscenza dipende in buona sostanza dai progressi che facciamo nella conoscenza delle suddette entità inosservabili. Ed è proprio questo elemento a spiegare l’importanza della nozione di “progresso scientifico” per i realisti. Essi non possono accettare l’idea che l’incremento della conoscenza si riduca all’adeguatezza empirica o alla capacità di risolvere problemi; a loro avviso è piuttosto l’avanzamento della conoscenza prodotto dalle scoperte non riconducibili al piano della mera osservazione a determinare il progresso scientifico. Se qualcuno chiede “dove” tale progresso si verifichi, la risposta non può che essere una: nella scienza moderna e contemporanea.

Il realismo scientifico classico ha una visione cumulativa del progresso, nel senso che la scienza ci fornisce sempre più verità circa il mondo. Le teorie del passato contengono elementi di verità, e quelle successive ne contengono di più; quelle future, a loro volta, ne conterranno una quantità ancora maggiore. Agendo in questo modo, la scienza progredisce aggiungendo sempre più verità a quelle che già possiede. Percorrendo tale sentiero è pressoché inevitabile concludere che le nostre attuali teorie incorporano una buona parte di verità circa il mondo: ciò che la scienza dei nostri giorni ci dice, in altri termini, corrisponderebbe - almeno in larga misura - a come è il mondo. E, pur avendo una concezione fallibilista della scienza, molti autori hanno affermato che le nostre attuali teorie ci forniscono una visione “abbastanza” adeguata della struttura della realtà.

L’obiezione principale basa sul fatto che le teorie scientifiche del passato si sono poi rivelate inadeguate o addirittura false, e sono state rifiutate.

Come affermò l’epistemologo americano Quine, Keplero ha preso il posto di Tolomeo, Einstein quello di Newton e Darwin quello di Aristotele, e la storia della scienza registra non solo successi, ma anche fallimenti. Dunque, se la storia della scienza è una successione di teorie che in un primo tempo si sono ritenute vere e poi sono state rifiutate, quali ragioni vi sono per credere alla verità delle nostre teorie attuali?

La forza di questa obiezione si può sfruttare affermando che la scienza può solo impegnarsi “plausibilmente” nei confronti dell’esistenza delle sue entità teoriche. In atri termini, l’obiettivo delle teorie scientifiche è scoprire ciò che veramente esiste, ma esse riescono a raggiungerlo soltanto in modo assai imperfetto. Di conseguenza, ciò che possiamo ottenere è, al massimo, una “consonanza imperfetta” tra le nostre idee scientifiche e la realtà in quanto tale.

Date tali premesse, occorre rimpiazzare la celebre teoria convergentista “a lungo termine” del progresso scientifico elaborata da Peirce con una posizione più modesta, legata al crescente successo riscontrabile nelle applicazioni scientifiche (particolarmente in materia di predizione e controllo). Si ritorna quindi a una visione pragmatista. Per quanto riguarda il controllo pratico-operativo delle teorie siamo in grado di raggiungere progressi significativi, ma la “perfezione” (intesa come il conseguimento di una teoria “completa”) è, in linea di principio, irraggiungibile. Risulta dunque netta l’opposizione a tutti i progetti volti alla ricerca di una teoria scientifica finale.

In altre parole, mentre è corretto sostenere la fallibilità e la continua correggibilità della scienza, in base a tali premesse non siamo autorizzati a concludere che in ambito scientifico non si devono pronunciare enunciati descrittivi circa il “mondo reale”.

Essi sono invece legittimi, ma lo spirito di queste affermazioni deve sempre essere provvisorio e ipotetico. Possiamo dire soltanto che “se” la scienza dei nostri giorni è corretta, le sue entità teoriche esistono e possiedono le caratteristiche che a loro attribuiamo. Nessuna scienza sarebbe possibile in assenza di tale atteggiamento realistico di base, giacché il suo scopo precipuo è fornire una visione della realtà fondata dal punto di vista ontologico.

Nel comprendere questo fatto si deve riconoscere, da un lato, il ruolo descrittivo ed esplicativo che la scienza si propone di svolgere mentre, dall’altro, si deve pure sottolineare che essa è destinata a essere imperfetta e fallibile nell’adempimento di tale ruolo.

Ecco perché non possiamo affermare che una particolare teoria scientifica - per esempio, la teoria della relatività di Einstein - ci fornisce la vera immagine della realtà: sappiamo fin troppo bene dalla storia della scienza che, in un futuro attualmente non prevedibile, essa sarà rimpiazzata da una teoria “migliore”.

Ma dev’essere pure notato che tale teoria del futuro sarà migliore soltanto per i nostri successori, e non in senso assoluto; niente ci porta a escludere che essa verrà prima o poi sostituita. Non abbiamo alcuna ragione di credere che la scienza sia assolutamente corretta, ragion per cui, come noi oggi pensiamo che i nostri predecessori avevano una visione della realtà fondamentalmente inadeguata, così coloro che ci seguiranno penseranno esattamente la stessa cosa a proposito della nostra.

Questa concezione del realismo scientifico è pertanto strettamente connessa alla distinzione tra una realtà-in-quanto-tale e una realtà-come-noi-la-vediamo. Non abbiamo alcun motivo di credere che la nostra scienza attuale descriva il mondo come realmente è, ed è proprio questo fatto a non consentirci di adottare un realismo scientifico assoluto e incondizionato.

Che dire della scienza futura? Potremmo in effetti essere tentati di affermare che, visto che quella dei nostri giorni è imperfetta e incompleta, forse la scienza futura sarà in grado di realizzare il progetto della perfezione.

Anche in tal caso, tuttavia, sorgono molti problemi. In primo luogo occorre chiedersi: di quale futuro stiamo parlando? A ben guardare, non vi sono buone ragioni per presumere che la scienza di domani sarà molto diversa dalla nostra per quanto riguarda la capacità di fornire l’immagine “corretta” della realtà. E ciò si deve al fatto che le teorie scientifiche hanno sempre una validità limitata.

È così per ogni prodotto umano, e la scienza lo è sicuramente. Mentre possiamo senz’altro sostenere che i suoi fini sono stabili, si dovrebbe pure riconoscere che le sue domande e le sue risposte non lo sono.

La scienza non è un sistema statico ma un processo dinamico, e ciò conduce a giudicare problematici i tentativi volti a piazzare sulle spalle della scienza futura il fardello della perfezione.

Spesso gli scienziati si fanno cogliere dalla tentazione di trarre conclusioni filosofiche dalle loro scoperte e dalle teorie che costruiscono.

Di certo non è una novità. Scienza e filosofia hanno marciato insieme sin dalle origini del pensiero occidentale, quando una distinzione chiara tra le due non era neppure possibile.

In seguito molti grandi filosofi furono al contempo scienziati di vaglia. Si pensi, per citare solo pochi nomi, a Cartesio, Pascal e Leibniz. Meno noto – ma altrettanto significativo – il fatto che alcuni scienziati di prima grandezza si siano dedicati alacremente a ricerche di tipo filosofico. In questo caso l’esempio maggiore è Isaac Newton, che fu pure cultore di studi esoterici centrati sull’alchimia.

In epoca contemporanea, quando la specializzazione nella scienza è giunta all’apice, parecchi scienziati (in particolare fisici teorici) hanno sentito l’esigenza di scrivere opere filosofiche per spiegare al grande pubblico il senso delle loro ricerche. Sono soprattutto celebri alcuni libri di Albert Einstein: Come io vedo il mondo, Autobiografia scientifica,

Il significato della relatività, etc. Senza scordare opere ormai classiche di altri autori come Fisica e filosofia di Werner Heisenberg e I quanti e la vita di Niels Bohr. Non è raro veder classificare gli autori appena menzionati come “filosofi della scienza” oltre che come scienziati.

La reazione del mondo filosofico a fronte di tale situazione è stata discordante. Alcuni hanno accettato l’inclusione degli scienziati nei dizionari di filosofia adottando i loro testi nei corsi e spronando gli studenti a leggerli con attenzione. Altri hanno preferito insistere sulle molte e inevitabili ingenuità commesse dagli scienziati quando si trasformano in filosofi sottolineando i difetti e trascurando i pregi.

È opinione di chi scrive che il primo atteggiamento sia quello giusto. Alcune considerazioni ingenue non possono far dimenticare che – come è sempre avvenuto – tra scienza e filosofia vi sono rapporti di scambio fecondo, che consentono a entrambe di crescere facendo tesoro di ciò che viene sviluppato in altri ambiti del sapere umano.

Come dicevo all’inizio la storia non è affatto finita, dal momento che anche gli scienziati dei nostri giorni avvertono spesso l’impulso di “filosofeggiare” a margine del loro lavoro professionale. Mi è per esempio capitato di leggere di recente l’intervista di un fisico teorico su un quotidiano nazionale.

Al di là del titolo chiaramente popperiano: Si cerca attraverso l’ignoranza, l’intervista contiene molti riferimenti al concetto di “Natura” inteso, però, in accezione più filosofica che scientifica. Di seguito alcune frasi.

“La Natura è complessa, iridescente, bellissima: costruisce archi di galassie, esplosioni di buchi neri, onde di probabilità, il cielo stellato, il profumo delle viole, i sorrisi della mia ragazza”. E ancora: “La fisica non mi fa sentire estraneo al mondo. Mi fa sentire profondamente parte del mondo”.

Ovviamente tali considerazioni sono affascinanti, e ancor più quando a esprimerle è uno scienziato di professione. C’è però un presupposto non dimostrato alla loro base, e cioè che la Natura “costruisca” un sacco di cose mossa da una sorta di volontà interiore paragonabile a quella di cui sono dotati gli esseri umani.

Ma è davvero così? La risposta è: “può darsi, ma noi non lo sappiamo”. Da secoli parecchi filosofi – e scienziati – cercano di dimostrare che la Natura è auto-sussistente e non ha bisogno di interventi esterni per essere spiegata. Altri filosofi, tuttavia, non concordano e cercano invece di dimostrare che la stessa idea di una Natura auto-sussistente è contraddittoria.

Chi ha ragione?

Allo stato dei fatti è impossibile dirlo. Si può notare, per esempio, che è plausibile giudicare la Verità come un prodotto dell’interazione tra uomo e Natura. Sostenendo altresì che in un mondo del tutto privo di esseri raziocinanti non vi sarebbe alcuna Verità, essendo quest’ultima uno dei risultati del processo della comunicazione.

E’, questa, una prova non solo dell’utilità, ma anche dell’indispensabilità dei rapporti tra scienza e filosofia. A dispetto di quanto sostengono alcune correnti di pensiero contemporanee, proprio dalla scienza giungono al filosofo input che gli consentono di confrontarsi con chi si occupa del mondo circostante da altri punti di vista, che non sono necessariamente in conflitto con il suo.

 

 

 

 

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