Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Linguaggio e metafisica

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E’ difficile trovare nella storia della filosofia una definizione di ontologia più precisa ed esaustiva di quella che Aristotele ci fornisce all'inizio del IV Libro della Metafisica. Afferma il filosofo greco:

«C’è una scienza che studia l’essere-in-quanto-essere e le proprietà che gli sono inerenti per la sua stessa natura. Questa scienza non si identifica con nessuna delle cosiddette scienze particolari, giacché nessuna delle altre ha come suo universale oggetto di indagine l'essere-in-quanto-essere, ma ciascuna di esse ritaglia per proprio conto una qualche parte dell’essere e ne studia gli attributi, come fanno, ad esempio, le scienze matematiche.

E poiché noi stiamo cercando i principi e le cause supreme, non v’è dubbio che questi principi e queste cause sono propri di una certa realtà in virtù della sua stessa natura. Se, pertanto, proprio su questi principi avessero spinto la loro indagine quei filosofi che si diedero a ricercare gli elementi delle cose esistenti, allora anche gli elementi di cui essi hanno parlato sarebbero stati propri dell’essere-in-quanto-essere e non dell’essere-per-accidente; ecco perché anche noi dobbiamo riuscire a comprendere quali sono le cause prime dell’essere-in-quanto-essere.»

 

Queste famose parole dello Stagirita, che costituiscono una descrizione perfetta del pensiero metafisico, del pensiero, cioè, in quanto è capace di trascendere i meri dati dell’empiria per arrivare all'individuazione dei princìpi basilari della realtà, vengono spesso citate ai giomi nostri.

Tuttavia, nell’ambito della filosofia analitica, la quale ha effettivamente cercato di riprendere spunti e tematiche dell’ontologia classica, alle parole aristoteliche viene di solito attribuito un senso diverso da quello tradizionale.

Una volta ridotta la filosofia ad analisi del linguaggio, anche l’ontologia viene inevitabilmente vista più come un tentativo di chiarificazione dei termini che come la disciplina che studia l’essere inteso nella sua accezione più generale. Con ciò non intendo ovviamente affermare che tutti coloro che si rifanno alla tradizione analitica sostengono esattamente le stesse idee.

Ci sono anche qui i moderati e gli estremisti, pur uniti dalla convinzione che la dimensione linguistica costituisca la base da cui partire al fine di elaborare un’ontologia che possieda il rigore e la precisione della moderna logica formale.

Proprio come, in quel contesto, si parla di “formal philosophy” giungendo addirittura ad elaborare il concetto di “exact philosophy”, con altrettanta naturalezza si parla di “formal ontology” per distinguerla da quella, considerata futile ed inutilmente loquace, del periodo pre-analitico. Procedendo lungo queste direttrici, la storia della filosofia viene vista sotto una nuova luce, mentre capita a chi segua dei corsi in dipartimenti di filosofia di ispirazione analitica di veder trattare, ad esempio, Platone ed Aristotele alla stregua di analisti del linguaggio.

Risulta comunque eccessivo sostenere che la maggior parte del lavoro aristotelico possa essere interpretato come analisi del linguaggio. Se non viene assunta con la dovuta cautela, una simile affermazione rischia di legittimare le posizioni estremiste assunte da una parte, piuttosto consistente, della filosofia analitica.

Alfred J. Ayer Ad esempio, nel suo famosissimo saggio del 1936, Linguaggio, verità e logica,  Alfred J. Ayer si esprime così.

«Esempio anche più semplice e chiaro del modo in cui un fatto grammaticale porta alla metafisica, è il caso del concetto metafisico di Essere.

L’origine della nostra inclinazione a porre intorno all’essere domande alle quali nessuna esperienza concepibile ci metterebbe in grado di rispondere, è il fatto che nel nostro linguaggio gli enunciati esprimenti proposizioni d’esistenza e gli enunciati esprimenti proposizioni attributive possono avere la stessa forma grammaticale.

Gli enunciati ‘I martiri esistono’ e ‘I martiri soffrono’, per esempio, consistono entrambi di un sostantivo seguito da un verbo intransitivo e il fatto che abbiano lo stesso aspetto grammaticale conduce a supporre che siano del medesimo tipo logico. Nella proposizione ‘I martiri soffrono’, si vede che ai membri di una certa specie viene ascritto un certo attributo e a volte si suppone che la stessa cosa sia vera per proposizioni come ‘I martiri esistono’.

Quando ascriviamo un attributo a qualcosa, implicitamente affermiamo che il qualcosa esiste: cosicché se l’esistenza stessa fosse un attributo, tutte le proposizioni di esistenza affermative sarebbero tautologie e tutte quelle negative sarebbero contraddittorie in sé, il che non è. Coloro dunque che intomo all’Essere pongono domande basate sull’assunzione che l’esistenza sia un attributo, hanno il torto di seguire la grammatica oltre i limiti del senso.»

Ho di proposito citato l’opera di Ayer per almeno due buoni motivi. In primo luogo, pur essendo stata scritta molti anni fa ed appartenendo quindi al periodo di maggior splendore della filosofia analitica e del neopositivismo logico, essa è ancora influente ai giorni nostri. Tesi assai simili a quelle di Ayer sono sostenute, all’inizio degli anni ’80 del secolo scorso, da C.J.F. Williams, autore secondo il quale i problemi di esistenza sarebbero soltanto problemi di sintassi. Williams pensa che il concetto di “essere” sia qualcosa che non ha alcun significato al di fuori delle culture indo-europee, ed afferma in modo esplicito che tutti gli interrogativi legati alla presenza di tale concetto possono con facilità essere risolti dalla logica formale.

In secondo luogo, il noto saggio di Ayer espone con pregevole chiarezza una tesi di fondo che oggi è di moda (anche se forse in misura minore rispetto a qualche anno fa), e cioè che i problemi metafisici siano, essenzialmente, problemi linguistici, e che quasi tutte le espressioni metafisiche siano dovute più a errori di logica che non al desiderio, da parte di chi le pronuncia, di oltrepassare i limiti dell’esperienza.

E’ comunque opportuno notare che le strategie alla Ayer investono direttamente in senso negativo la definizione aristotelica di ontologia riportata per esteso all’inizio.

La filosofia analitica nella sua versione più estrema porta alla dissoluzione stessa del concetto di ontologia intesa come disciplina che studia l’essere-in-quanto-essere. Si continua a parlare, al suo interno, di ontologia, ma tale termine assume una connotazione affatto diversa. Sono ritenute ontologiche le questioni di esistenza riferite ai termini del nostro discorso, e tali questioni non dipendono tanto da un “essere” che si identifica con una realtà esterna al pensiero e al linguaggio, bensì dal linguaggio stesso che il parlante sceglie, restando inteso che diversi linguaggi danno vita a diverse ontologie, e che ciascuna di esse è pienamente legittima.

 

 

 

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