Il sacrificio di Gelsomina Verde
Ogni anno, nel primo giorno di primavera, si celebra la Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti, o cosiddette “non designate”, delle mafie. L’associazione "Libera", nata per sollecitare la società civile al contrasto alle mafie nel 1995, sotto la guida di Don Luigi Ciotti, dal 1996 ogni anno, in città diverse, celebra questa giornata perché la memoria di coloro che hanno perso la vita a causa di azioni delittuose di stampo mafioso non sia mai dimenticata e, nel contempo, che si tenga sempre alta l’attenzione sul tema. L’ispirazione venne a don Ciotti quando, recatosi alla commemorazione del primo anniversario della strage di Capaci, era stato avvicinato da una donna minuta, la si- gnora Carmela, madre di Antonino Montinaro, il caposcorta di Giovanni Falcone che gli aveva chiesto perché durante le cerimonie non veniva mai fatto il nome del figlio, morto nell’adempimento del proprio dovere. A lei non andava proprio giù che i nomi di suo figlio e degli altri membri della scorta del giudice palermitano, morti insieme a lui, fossero molto laconicamente riassunti nell’espressione “i ragazzi della scorta”. Era un modo, certamente non deliberato, di cancellare l’identità di quelle persone, morte a causa di un vile atto di inaudita efferatezza.
Quella madre aveva semplicemente chiesto che nessuno dimenticasse che lì, in quel groviglio di lamiere nel mezzo di un cumulo di macerie sull’autostrada Palermo-Punta Raisi, c’era stato anche suo figlio e proprio lì aveva perso la sua vita. Il dolore di una madre era diventato ancora più insopportabile quando alla vittima veniva negato an- che il diritto di essere ricordata con la menzione del proprio nome. Ecco perché don Luigi Ciotti decise che nel giorno del risveglio della natura e della speran-za, il 21 marzo appunto, si doveva tenere un grande evento nel corso del quale ogni volta venivano scanditi, uno ad uno, i nomi di tutte le vittime “non designate” delle mafie. L’idea, tuttavia, non fu sua, ma di un’altra donna, la madre di Roberto Antiochia, un poliziotto umbro di 23 anni, scorta del vice questore di Palermo Antonio Cassarà, detto Ninni. Antiochia restò ucciso insieme a Cassarà, nell’agosto del 1985. Saveria Antiochia, dunque, suggerì a don Ciotti di recuperare tutti i nomi e cognomi delle vittime di mafia e di leggerli ogni volta, come a ricordare a tutti che dietro ogni fatto di cronaca efferata ci sono delle persone, reali, con la propria storia e i propri sogni, con delle famiglie che le amano. Quei nomi, in una lista purtroppo ogni anno sempre più lunga, sono recitati come in un rosario laico, una sorta di preghiera laica volta a svegliare le coscienze che troppo spesso si assuefanno all’orrore. Quest’anno, la commemorazione della Giornata si è tenuta a Napoli, città afflitta dal terribi- le flagello della camorra. Tra i tanti nomi e volti e tra le tante storie, mi è subito venuta in mente una vicenda che esprime, secondo me, in modo altamente qualificante la brutalità, l’empietà e l’efferatezza di quello che viene oggi definito “sistema camorra”, quello di Gelsomina Verde, per tutti Mina. Mina era nata a Napoli il 5 dicembre 1982 ed era cresciuta a Scampia. I suoi genitori erano persone semplici, ma onesti lavoratori. Presto aveva iniziato a lavorare come operaia in una fabbrica di pelletteria, ma nel tempo libero era particolarmente attiva nel volontariato. Aiutava concretamente i ragazzi del quartiere a studiare o andava a trovarli in carcere, quando finivano dentro perché non perdessero mai la speranza di un riscatto, di una seconda possibilità. Aveva capito, infatti, che l’unico modo per fronteggiare la deriva violenta e mortifera della camorra era diffondere cultura. Le sue ore libere dal lavoro, erano un intenso susseguirsi di attività rivolte spesso proprio ai figli dei camorristi. Faceva la babysitter, aiutando le giovanissime madri figlie del degrado e, come su detto, dava ripetizioni gratuite ai bambini disagiati le cui famiglie erano già risucchiate nell’abisso della criminalità. Era impor- tante che quei bambini sapessero che esisteva anche altro, al di là di quella realtà abbrutita ed emarginata nella quale erano nati. Dunque, Mina era totalmente estranea agli ambienti criminali, anzi, li osteggiava e li com- batteva, a modo suo, coi suoi mezzi, con lo spirito di una giovane donna forte che credeva nella giustizia e in una prospettiva diversa rispetto a quella, distruttiva e violenta, che il quartiere, controllato dal potere criminale, era solito indicare come unica ed esclusiva. La sua dedizione alla causa, la portò ad intraprendere una strada pericolosa quando si innamorò di un giovane, Gennaro Notturno, coinvolto in prima persona nella “prima faida di Secondigliano”, la guerra tra clan rivali scoppiata in seno al quartiere con una violenza sconvolgente. Gli omicidi, i sequestri, le torture, le vendette trasversali erano all’ordine del giorno di fronte ad uno Stato attonito che sembrava non riuscire a fermare quello tsunami di orrore cha affliggeva l’area nord di Napoli. Gli eredi di Paolo Di Lauro, boss del quartiere e i cosiddetti “scissionisti” si scontrarono con ferocia inaudita per controllare gli affari criminali del territorio, in particolare modo il traffico di droga. Gennaro si era schierato con gli scissionisti, ma questo accadde quando la sua breve relazione con Gelsomina era ormai terminata da tempo. Gli uomini di Di Lauro furono incaricati di eseguire la condanna a morte che pendeva sulla testa di Notturno, ma ciò accadde quando questi aveva fatto già perdere ogni traccia di sé. Di fronte alla sua irreperibilità, il clan mise in atto un piano terribile che pre- vedeva il coinvolgimento di Mina poiché ritenevano che la ragazza doveva in qualche modo sapere dove si trovasse Gennaro. La fecero facilmente avvicinare da un certo Pietro Esposi- to, che lei aveva conosciuto in carcere durante il suo volontariato. Lui le diede appuntamento alle 11 di sera del 21 novembre 2004 con una scusa, ma anziché parlare con lei, come le aveva anticipato, la consegnò ai suoi aguzzini. Da qual momento iniziò il tormento di Mina. I suoi rapitori pretesero che rivelasse il nascondiglio di Notturno, ma la ragazza, che sembra ne fosse a conoscenza, nella consapevolezza che il suo ex fidanzato sarebbe stato ucciso, si rifiutò di parlare. Per ore, dunque, fu picchiata, stuprata, seviziata in ogni modo, poi fu giustiziata con tre colpi di pistola alla nuca. Il suo corpo fu chiuso in un sacco, caricato sull’auto che lei aveva comprato fatica dopo tantissimi sacrifici e dato alle fiamme. L’omicidio di Gelsomina Verde, a causa della particolare crudeltà dei suoi dettagli, generò un’ondata di indignazione e di orrore a Napoli, in Italia e nel mondo. Pietro Esposito fu arrestato poco giorni dopo il ritrovamento del cadavere della ragazza e fu lui ad indicare i responsabili del terribile gesto. Tra i tanti, soltanto Ugo De Lucia, nemmeno trentenne, fu ri- tenuto l’esecutore materiale del delitto, il boia. Fu poi condannato all’ergastolo nel 2008, ma restano tante le perplessità sulle varie ambiguità processuali emerse. Unico colpevole di un delitto di gruppo. La storia tragica di Gelsomina è stata raccontata molte volte in libri e stralci di essi ed usata per mostrare di quanta ferocia sia capace la camorra. Il film di Massimiliano Pacifico, intitolato “Gelsomina Verde” del 2019 racconta la sua storia, non mancando di enfatizzare le in- comprensibili contraddizioni che ha patito la sua famiglia a causa del rifiuto dello Stato di conferire alla ragazza lo status di vittima innocente delle mafie a causa del suo breve flirt con Gennaro Notturno. Si parlò di cavillo burocratico. Lo Stato e l’opinione pubblica non le hanno mai perdonato quell’errore. Gelsomina, dunque, uccisa una seconda volta, dal pregiudizio e dalla boria di molti. La sua famiglia è stata pressoché abbandonata al suo destino. I suoi genitori avrebbero avuto bisogno di un sostegno economico per potersi allontanare da quel quartiere ancora in mano agli aguzzini della figlia e ricominciare altrove, ma quel cavillo burocratico non ha permesso loro di ricevere alcun aiuto. Sono rimasti soli a lacerarsi nel proprio inguaribile dolore. Francesco Verde, fratello di Mina, ha ben sintetizzato il profilo della sorella: “Mia sorella non aveva intenzione di cambiare il mondo, voleva la possibilità di vederlo in modo diverso”. Il sacrificio di Gelsomina Verde è ben più di un martirio laico, è una scossa alle coscienze assuefatte e assopite, è l’esortazione a non cedere mai allo sconforto e alla paura, è l’invito a non smettere mai di pretendere che le istituzioni facciano il proprio dovere, stigmatizzino e combattano con durezza la criminalità mentre si occupa di dare concretamente alternative al degrado e alla rassegnazione. Perché il vero contrasto alla violenza, infatti, si pratica offe- rendo un’alternativa e, dunque, la soluzione non è solo ravvisabile nella repressione, ma soprattutto nella prevenzione. È la politica che deve rimettere al centro dell’agenda l’impegno nel sociale e nella cultura, ma con un intervento strutturato, non fatto di interventi spot. Le retate sono necessarie, ma ancora di più la lotta all’evasione scolastica, una scuola efficiente, spazi di aggregazione, biblioteche, palestre, campi da calcio, luoghi di incontro e confronto sani e controllati. L’inversione di rotta parte dalla cultura, dalla consapevolezza, insieme alla bonifica di territori appestati da soggetti privi di qualsiasi senso etico e civico. E non ci potrebbe essere migliore esempio e percorso che quello indicato da Gelsomina Verde, una semplice ragazza di periferia di 22 anni, dal coraggio e dalla moralità incomparabili.
Maria Rosaria Bianchi
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