Waris Dirie e Nice Nailantei Leng’ete contro le mutilazioni femminili

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Le mutilazioni genitali femminili sono pratiche legate alle tradizioni, ma ledono fortemente la salute psichica e fisica di bambine e donne che vi sono sottoposte.

Diffuse in diversi Paesi dell’Africa, del Medio Oriente, in Indonesia, Malesia e Colombia sono condannate da numerose risoluzioni dell’Onu, dall’Unione Europea e dell’Unione Africana.

Tra i 27 paesi africani nei quali sono praticate, solo cinque non hanno ancora approvato una legge che le consideri reato: Liberia, Sierra Leone, Somalia, Ciad e Mali.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità stima in 130 milioni il numero di donne già sottoposte alle mutilazioni genitali nel mondo e che 3 milioni di bambine siano a rischio ogni anno.

In Europa sono attualmente circa 600.000 donne e ragazze che le hanno subite. In Italia l’indagine condotta nel corso del 2019 dall’ Università Bicocca di Milano rivela la presenza al primo gennaio 2018 di 87.600 donne con mutilazioni, di cui 7600 minorenni.

Le mutilazioni sono effettuate in bambine dai 5 ai 12 anni. Generalmente vengono suddivise in quattro categorie a seconda della severità dell'operazione, che va dall'asportazione parziale o totale della clitoride e delle piccole labbra, al restringimento con suture dell'orifizio vaginale, quest’ultima pratica meglio conosciuta come infibulazione.

 

Gli interventi sono di solito praticati da donne della comunità alle quali è stato conferito questo incarico spesso eseguito in condizioni igienico-sanitari insufficienti, senza l'utilizzo di anestetici, antibiotici, né materiale sterile e quindi con grandi sofferenze, rischio di provocare morte per emorragie e infezioni.

Quelle che sopravvivono vanno incontro a gravi conseguenze a lungo termine: difficoltà nei rapporti sessuali e nelle mestruazioni, infezioni al tratto urinario e alto rischio di morte durante il parto, sia per la madre che per il feto.

Persistono problemi psicologici derivati dalla traumaticità dell'evento e dall'atroce dolore provato durante l'operazione. Le bambine che hanno subito la mutilazione devono lasciare la scuola e prepararsi ad un matrimonio precoce.

Nella lotta contro le mutilazioni genitali femminili, celebrata in tutto il mondo il 6 febbraio, oltre agli interventi delle istituzioni (ONU, OMS, Unione Europea, Unione Africana, UNICEF) e all’azione di varie associazioni (Amref Health Africa, Action Aid, Desert Flower Foundation, Medici senza Frontiere) hanno un ruolo di particolare importanza le testimonianza e l’impegno di donne  come Waris Dirie e Nice Nailantei Leng’ete che hanno subito la violenza o che ne sono sfuggite e che si battono per evitarla.

Waris DirieWaris Dirie, una delle protagoniste, è nata in Somalia nel 1965 in un famiglia nomade; infibulata all’età di cinque anni, a tredici attraversò il deserto per sfuggire al matrimonio con un anziano del villaggio; arrivò a Mogadiscio dove si rifugiò dai parenti e con uno zio somalo, ambasciatore presso il Regno Unito. Poi partì per Londra dove trovò lavoro come domestica.

A 18 anni, scoperta da un fotografo, divenne una top model; da allora ha anche ottenuto ruoli di attrice.

Nel 1997, a 32 anni, in una intervista ha rivelato per la prima volta che a circa 4 o 5 anni mentre stava giocando con la madre, una donna le si avvicinò e con la complicità della madre le praticò la mutilazione, insieme alle sorelle.

Le venne asportato tutto e quello che rimase venne ricucito con una spina di una pianta. La ferita le si riapri la notte di nozze con suo marito.

L’infibulazione è praticata affinché le donne restino “pure” e solo il marito prima delle nozze può togliere la cucitura della vagina.

Esistono oggi per fortuna centri di riferimento in Europa nei quali è possibile liberare le donne da questa tortura mediante la de-infibulazione. 

Il dott. Abdulcadir Omar Hussen, somalo, ginecologo, responsabile del Centro di Riferimento Regionale della Toscana a Firenze, riferisce che è in aumento la richiesta delle donne per essere liberate e di aver praticato negli ultimi cinque anni 200 interventi.

Il medico ha sottolineato la necessità che in questi centri vi sia un mediatore culturale oltre al ginecologo/a e lo psicologo/a in quanto l’apporto culturale permette di opporsi alla pratica conoscendone origini e motivi.

Le persone cambiano il loro comportamento non solo quando comprendono quali siano i rischi e l'oltraggio di pratiche dannose, ma anche quando capiscono che cambiare una pratica, non significa abiurare alla propria cultura.

Waris Dirie, nel 1996 ha pubblicato Il Fiore nel deserto (il nome Waris ha lo stesso significato) un’autobiografia che è divenuta  un best seller mondiale, poi seguita da altri libri come L’alba nel deserto, Lettera a mia madre, Bambini nel deserto,  anch’essi di grande successo.

Dal 1997 al 2003 è stata nominata dall’ONU ambasciatrice speciale contro le mutilazioni.

Nel 2002 ha fondato a Vienna la Desert Flower Foundation che ha lo scopo di sradicare la pratica delle mutilazioni genitali femminili nel mondo.

Ha inoltre contribuito alla fondazione di centri di accoglienza per le donne in tutta Europa e in Sierra Leone, ha aperto la Conferenza Mondiale contro le malformazioni genitali femminili  a Nairobi e nel 2007 è stata  invitata dal canale TV arabo Al Jazeera a parlare a centinaia di milioni di ascoltatori su questo argomento.

Dal 2000 al 2019 ha ricevuto numerosi premi nazionali ed internazionali tra i quali un Premio per le donne del Mondo da Mikail Gorbachev nel 2004 e nel 2010 la medaglia d’oro del Presidente della Repubblica italiana per i risultati ottenuti come attivista dei diritti umani.

Nel 2009 dal suo libro Desert Flower è stato prodotto il film vincitore dell’Oscar e proiettato in 20 Paesi.

Il film è stato trasmesso dalla televisione italiana nel 2019 è visto da quasi 2,5 milioni di telespettatori.

Waris, saputo del successo televisivo, ha ringraziato “la bella Italia” sulla sua pagina Facebook. Oggi gestisce la Fondazione che in Africa salva le bambine dalle mutilazioni e le fa studiare nelle Desert Flower schools.

Sulla sua pagina Facebook sfilano i volti sorridenti delle bambine che indossano la divisa della scuola. Sono commoventi le sue dichiarazioni sui social network sopratutto quando parla della mamma. «Ti ho perdonata e sono orgogliosa che ora tu stia combattendo con me ora contro l'infibulazione»

Occorre ricordare che le madri e le nonne delle bambine sottoposte alle mutilazioni, si sentono custodi della tradizione, e non vogliono, opponendosi, farle escludere dalla comunità. Waris vive in Polonia dal 2009 con due figli.

Nice Nailantei Leng’eteNice Nailantei Leng’ete, la seconda protagonista, è nata in un villaggio Masai nel Kenia nel 1991; in un’intervista del 2019 ha raccontato così il suo primo incontro con queste pratiche:

«A cinque anni la mamma mi ha portato ad assistere al "taglio" (così lo definisce), la mutilazione genitale femminile, il passaggio obbligato "per diventare una vera donna": sangue e dolore senza antibiotici né analgesici, solo latte e carne. "Avevo sentito le urla della ragazza, l'avevo vista tremare e sudare. Come poteva essere una cosa buona, se faceva tanto male?».

La ragazza dopo poco morì "per colpa del malocchio".

La battaglia di Nice iniziò quel giorno. A nove anni, fuggì con la sorella per non subire la mutilazione. Una doccia gelata alle quattro del mattino aveva fatto capire loro che dovevano correre via, ma furono riprese e picchiate.

Orfane di entrambi i genitori, scapparono ancora, ma la sorella si arrese e tornò indietro: «Se prendono me, magari ti lasciano stare».

Trovarono almeno il sostegno del nonno, che si prese la responsabilità di non farle "tagliare", come si dice in gergo, e rimandarle a scuola.

Nei villaggi Masai le decisioni sono prese sempre dagli uomini. A 17 anni Nice incontrò gli operatori di Amref (Associazione umanitaria africana):

«Sono venuti al mio villaggio per cercare ragazzi che volevano diventare educatori per i propri coetanei in tema di salute sessuale, riproduzione, i rischi dei matrimoni precoci e ovviamente quelli delle mutilazioni genitali. Servivano un ragazzo e una ragazza che sapessero leggere e scrivere, io ero l’unica che aveva studiato. Ho frequentato il corso di Amref per capire come parlare di questi argomenti così delicati e poi ho deciso di fare ritorno al mio villaggio per parlare con i leader della comunità e fare in modo che le bambine fossero per sempre libere dalle mutilazioni genitali».

Da allora si è continuamente impegnata nella lotta contro queste praticheNel 2018 è stata nominata da Time tra le persone più influenti del mondo.

Con Amref Africa, di cui è ambasciatrice, gira continuamente nei villaggi in Kenia dove ha contattato circa 20mila bambine evitando le mutilazioni.

Nel settembre 2021 ha pubblicato l’autobiografia Sangue, La storia della ragazza Masai che lotta contro le infibulazioni, un inno alla potenza della pazienza e dell'ascolto.

 

 

 

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