Considerazioni sul “Gramsci revival”
Il “Gramsci revival” in corso in Italia e all’estero non sorprende più di tanto. Anche chi non proviene dalla tradizione marxista deve ammettere che il pensatore sardo appartiene al novero dei grandi teorici politici del secolo passato, e aggiungo che a mio avviso il raggio d’azione delle sue tesi può essere esteso senza problemi alla filosofia politica in quanto tale. L’appartenenza a scuole politiche e filosofiche diverse non dovrebbe insomma impedire di riconoscere l’assoluta originalità di un edificio speculativo così complesso e variegato. Ne è riprova il fatto che, nonostante il declino del marxismo, le sue opere continuano a essere lette e analizzate. È noto che il “revival” di cui sopra non è iniziato in Italia. Forse perché - e azzardo un’ipotesi - da noi Gramsci viene subito collegato a Benedetto Croce, figura dominante della filosofia italiana per lunghi decenni e oggi meno popolare. Ma anche in questo caso i segnali di una riscoperta crociana non mancano e, anzi, stanno diventando sempre più evidenti. Il “Gramsci revival” è invece partito dai Paesi anglosassoni, e soprattutto dagli Stati Uniti. Credo che nessuno, nei decenni passati, avrebbe ipotizzato una rinascita dell’interesse gramsciano proprio in quel contesto culturale. Eppure non è difficile capire perché ciò sia avvenuto. Tra la “filosofia della prassi” di Gramsci e il pragmatismo americano esistono delle assonanze non solo lessicali.
Gramsci conosceva alcune opere di William James e se ne trovano qua e là gli echi nei suoi scritti. Non solo. Le assonanze ci sono anche con un autore a lui contemporaneo, John Dewey, il maggiore esponente del pragmatismo del XX secolo. Dewey era convinto che la realtà ha un carattere processuale, e che le varie fasi di questo processo vadano interpretate nella loro continuità. Anche per Dewey, come per Gramsci, la filosofia – al pari delle scienze umane - deve tendere alla trasformazione delle strutture del mondo esistente, e indicare la direzione dell’azione trasformatrice. Accomuna inoltre i due autori l’analisi e la valutazione nettamente anti-positivista dell’impresa scientifica, nonché il rifiuto di ogni tipo di realismo forte, di una oggettività intesa in modo meccanicistico, del tutto esteriore ed extra-umana. Senza dimenticare le considerazioni illuminanti di Gramsci sul valore e sul significato della nozione di “senso comune”, che viene relativizzata con osservazioni spesso originali rispetto allo sviluppo delle diverse società. Pertanto Gramsci non è importante solo per aver coniato espressioni e termini poi entrati nell’uso comune come “nazional-popolare”, “partito come moderno principe”, “blocco storico” e “egemonia culturale”, ma anche - e soprattutto - per aver anticipato tesi del pensiero filosofico successivo oppure a lui contemporaneo, che però non poteva conoscere visto il suo isolamento. Non a caso Gramsci viene per certi versi accostato da Richard Rorty e altri autori anche al secondo Wittgenstein. Ma quanto è davvero attuale il pensiero di Antonio Gramsci? Se guardassimo solo alla crescita della letteratura gramsciana nel mondo, specialmente a quella in lingua inglese e spagnola, dovremmo rispondere che è attualissimo. Già nel 1991 la bibliografia compilata da John Cammett fornì un quadro più che eloquente della fortuna di Gramsci, non solo in Europa, ma pure in Asia e in America. Oggi le citazioni si sono moltiplicate. Tre specialmente sono i versanti di questa crescita d’interesse: il campo vastissimo delle discipline antropologiche; quello degli studi sui rapporti tra struttura economica e sovrastrutture ideologiche e culturali, e quello infine delle ricerche sulla storia degli intellettuali e del loro ruolo nella società contemporanea. In tutte queste direzioni l’eredità culturale gramsciana continua a rappresentare un riferimento d’obbligo per studiosi di varia nazionalità e formazione ideologica: e non solo in Paesi del Terzo Mondo (nei quali a Gramsci si è fatto ricorso come teorico originale della rivoluzione) ma negli stessi Stati Uniti d’America, e nei centri più celebri della ricerca sociale e politica dell’Occidente. Se un calo d’interesse si è registrato è proprio in Italia, dove la crisi repentina non solo del sistema politico ma delle stesse culture dei grandi partiti di massa che ne erano protagonisti ha offuscato l’attenzione non solo verso Gramsci, ma in genere per tutti i grandi teorici della politica della prima parte del Novecento. Di Gramsci appare oggi inattuale la teoria del partito politico e quella, ad essa strettamente collegata, degli intellettuali organici. Scomparsi i grandi partiti comunisti e socialisti, la stessa tematica del rapporto tra dirigenti e masse ha finito con l’esserne travolta, cadendo nel dimenticatoio. Ingiustamente, però, perché viceversa, a rileggere oggi le pagine gramsciane, specialmente quelle illuminanti dei Quaderni del carcere, non si può fare a meno di notare il valore di un’analisi che mette l’accento sulla problematicità del nesso tra chi rappresenta e chi è rappresentato, tra chi partecipa in prima persona alle attività della politica e chi ne costituisce troppo spesso il contorno silenzioso. Tutta la riflessione gramsciana sulla “religione dei semplici”, imperniata sul tema cruciale della necessaria riunificazione delle due culture e della partecipazione dal basso ai destini comuni coglie un punto delicatissimo della politica di oggi: com’è possibile, in società complesse come le nostre, impedire che l’élite dirigente si distacchi dal contesto sociale che la esprime? Come impedire, per dirla con lo stesso linguaggio gramsciano, che le avanguardie si separino dalle masse? Per Gramsci, che dal carcere guardava con preoccupazione alla degenerazione staliniana del gruppo dirigente sovietico degli anni Trenta, il punto era di assicurare nello Stato e nel partito la dialettica perduta, che egli considerava invece fisiologica, tra i “capi” e le “masse”. Nella società attuale la crisi della politica preconizzata da Gramsci appare in tutta la sua drammatica evidenza: crisi di linguaggio innanzitutto (i “semplici”, nella società dominata dai media, sono sempre più “semplici”, ridotti a subire e assorbire slogan elementari), ma anche crescente isolamento dei gruppi dirigenti, con la loro burocratizzazione, l’inesorabile separazione tra i vertici della piramide politico-sociale e le aspirazioni quotidiane, i sentimenti, le percezioni del mondo della gente comune. E poi c’è il ruolo degli intellettuali. Certo, è inattuale l’intellettuale organico, che di quella teoria costituisce il perno cruciale. Del resto, organico a cosa, se lo stesso partito politico appare ora come un residuo superato del ventesimo secolo? Ma attuale resta tutta l’analisi sul ruolo sociale degli operatori dell’intelligenza, visti da Gramsci non tanto quali astratti elaboratori di idee, ma come un ceto professionale legato a precisi contesti social e a obblighi collettivi. Detto questo, vi sono alcuni aspetti dell’attuale “revival” italiano che mi lasciano perplesso. Alcuni tirano, per così dire, Gramsci per la giacca pretendendo di staccarlo dal comunismo per farlo diventare socialdemocratico o – addirittura – liberale. Altri lo mettono in contrapposizione a Filippo Turati sostenendo la superiorità intellettuale di quest’ultimo. In questo caso è persino banale osservare che Turati fu un grande organizzatore politico, ma non certo un teorico che si distingueva per l’originalità delle sue tesi. Quanto allo staccare Gramsci dall’alveo comunista, penso che l’operazione sia del tutto fantasiosa. Torniamo per un attimo a uno dei più celebri concetti gramsciani: l’egemonia culturale. La questione politica dell’egemonia è strettamente connessa al tema della “società civile” ma, a ben guardare, essa pone l’elaborazione politica di Gramsci in contraddizione con una visione liberale della democrazia e dei suoi valori. Supponiamo che il partito-principe riesca davvero a conquistare l’egemonia in ogni strato sociale senza ricorrere alla coercizione. Nella teoria gramsciana tale risultato si può ottenere grazie al fatto che il partito della classe operaia è portatore di una visione del mondo superiore alle altre e, pertanto, “giusta”. In altre parole si tratta di un partito che ha scoperto le leggi di sviluppo della società umana diventando, di conseguenza, “storicamente necessario”. Che accade se si scopre poi che le suddette leggi non ci sono, revocando in dubbio l’egemonia prima conquistata? Un tale partito sarebbe disposto a lasciare il potere cedendolo ad altri soggetti politici? La risposta è un chiaro “no”. Un’ipotesi di questo tipo non è neppure contemplata negli scritti del teorico sardo, anche se alcuni interpreti pretendono di inserirvela a forza. Questo è dunque il nodo cruciale: l’alternanza al potere è esclusa in linea di principio. Ne consegue che genialità e originalità a Gramsci vanno debitamente riconosciute, mentre è escluso che la sua teoria possa essere fruibile nel contesto politico odierno. Significa – tutto questo – svalutare Gramsci? La risposta è un altro “no”. Va certamente ammirato e apprezzato, ma per quel che era: un teorico della prima parte del Novecento. Un marxista della Terza Internazionale, che intuì i limiti del suo stesso universo ideologico senza essere in grado di superarli in modo definitivo. Risulta ancora attuale perché è un classico e, com’è noto, i classici non tramontano mai. Può capitare che siano trascurati per periodi più o meno lunghi, ma in seguito vengono sempre riscoperti. Dal mio punto di vista trovo assai strano che alcuni interpreti attuali si meraviglino di trovare nelle pagine gramsciane considerazioni come la seguente: «Il partito è il punto di riferimento di ogni atto utile o dannoso. Il Principe prende il posto nelle coscienze della divinità o dell’imperativo categorico». Perché meravigliarsi? La frase si inserisce alla perfezione nella visione del mondo – e della politica – che Antonio Gramsci aveva in mente. Se è un classico leggiamolo come tale, senza pretendere di trasformarlo in un teorico della socialdemocrazia o del “lib/lab”.
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