Il patriottismo repubblicano nel I e II Risorgimento

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Categoria: Storia del Risorgimento
Creato Giovedì, 24 Giugno 2021 14:39
Ultima modifica il Giovedì, 24 Giugno 2021 14:39
Pubblicato Giovedì, 24 Giugno 2021 14:39
Scritto da Davide Meo
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«L’amor della patria deve tornare in onore appunto contro il cinico e stolido nazionalismo, perché esso non è affine al nazionalismo, ma è il suo contrario. Si potrebbe dire che corre tra amor di patria e nazionalismo la stessa differenza che c’è tra la gentilezza dell’amore umano per un’umana creatura e la bestiale libidine o la morbosa lussuria o l’egoistico capriccio» (8 giugno 1943).

Con queste parole Benedetto Croce, mentre il mondo intero era ancora dilaniato dallo scontro tra nazionalismi, distinse lucidamente l’«amor della patria» dal «cinico e stolido nazionalismo».

L’anno successivo Randolfo Pacciardi, sulle colonne della «Voce Repubblicana», scrisse chiaramente che «il nazionalismo è stolto in tutti i paesi» (1 agosto 1944).

Se le dichiarazioni di Croce e Pacciardi si riferivano principalmente all’ambito etico-politico, in ambito accademico fu Adolfo Omodeo uno dei primi storici a cogliere la netta distinzione tra un patriottismo nazionale emancipato e progressista, presente negli ideali di Mazzini, e un nazionalismo aggressivo e guerrafondaio, del tutto opposto alla civiltà (G. Pécout).

Il significato storico e morale delle riflessioni critiche di intellettuali del calibro di Croce, Pacciardi e Omodeo assume particolare importanza nell’attuale contesto storico, in cui diversi movimenti politici dichiaratamente reazionari e “sovranisti” sembrano voler egemonizzare indebitamente i valori del patriottismo e dell’identità nazionale.

Per comprendere i tratti peculiari dell’identità culturale italiana, è necessario risalire alle origini della nostra tradizione linguistico-letteraria. A tal proposito lo storico della lingua Gian Luigi Beccaria, dopo aver sottolineato che quando ancora non c’era la nazione «da secoli esisteva un’unità linguistico-letteraria nazionale», ha proposto di reinterpretare le vicende linguistiche e culturali del nostro paese alla luce delle parole del grande etimologista e dottore della Chiesa Isidoro di Siviglia.

 

«Ex linguis gentes, non ex gentibus linguae exhortae sunt»  ˗ chiarendo che «sono le lingue che fanno i popoli, non i popoli già costituiti che fanno le lingue». Beccaria ha voluto così evidenziare come la coscienza e la volontà di unione nazionale italiana non si siano basate principalmente su «principî oggettivi o materiali» (come l’etnia, l’economia, l’appartenenza territoriale o giuridico-istituzionale), ma piuttosto «su un valore culturale (la lingua della letteratura, la sua validità e la sua tenuta) che ha prefigurato sin dalle Origini un’unità immaginata e inseguita come un desiderio».

Possiamo collocare l’inizio di «questa unità ideale», almeno nella sua forma più consapevole, proprio nell’opera di Dante che «nel De vulgari eloquentia […] vede già l’Italia come lo spazio geografico su cui una lingua letteraria ha da diffondersi», saldando per sempre l’idea dell’Italia geografica a quella dell’Italia linguistica (fondamentali, su questo argomento, gli studi di Francesco Bruni).

Anche nell’ambito degli studi prettamente storici si è più volte puntualizzato che, sebbene all’indomani dell’Unità gli elementi di coesione nazionale fossero ancora assai tenui, insieme alla comune confessione religiosa, «ciò che consente di parlare di nazione italiana è l’esistenza di una grande tradizione letteraria in volgare italiano, esistente sin dal secolo XIV» (A.M. Banti).

Possiamo dunque definire l’Italia una nazione culturale. Anche se prima del 1789 il termine nazione era stato impiegato in contesti politico-culturali relativamente ristretti e con diverse accezioni, nel periodo storico compreso tra Rinascimento e Rivoluzione francese, si possono distinguere tre modelli del concetto di nazione: la nazione statale, la nazione culturalela nazione politica sovrana.

Il secondo modello, quello della nazione culturale, è «tipico di quella parte d’Europa (dall’Italia alla Germania) nella quale il modello politico statuale si è sviluppato con maggiore ritardo. La nazione coincide, in questo caso, con una comunità popolare basata sulla cultura, sulla lingua e sulle tradizioni storiche» (A. Campi).

A questo punto è importante sottolineare che un’attenta analisi linguistico-lessicale ci consente di individuare il nesso inscindibile tra l’idea di libertà e quella di nazione. Il termine libertà deriva dal latino libertas, che nell’antica Roma era la condizione che spettava ai liberi, cioè ai ‘figli’, mentre la parola nazione deriva da natio, vocabolo latino a sua volta legato a natus, che è sia il participio perfetto di nascor (‘nascere’) sia il sostantivo che significa ‘figlio’.

Nella temperie risorgimentale, infatti, la libertà era considerata parte fondamentale del patrimonio ereditario di un popolo (E. Biagini), da conquistare o ri-conquistare mediante la cacciata dell’invasore straniero o del tiranno interno, entrambi considerati oppressori della libertà nazionale.

Il già forte nesso logico tra l’idea di libertà e quella di nazione, così evidente sul piano etimologico, si intensifica ulteriormente tra le fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, quando entra nel vivo il processo di identificazione tra la patria e la nazione. Nella cultura settecentesca, infatti, il concetto di patria era strettamente legato alle idee di libertà e repubblica.

Se Rousseau faceva notare che «la patria non può sussistere senza la libertà, né la libertà senza la virtù, né la virtù senza i cittadini», l’Encyclopédie non esitava a identificare la patria con «uno stato libero di cui siamo membri e le cui leggi proteggono le nostre libertà e la nostra felicità»: in questa prospettiva, la patria non poteva che coincidere con la forma di governo repubblicana.

L’idea di patria elaborata dalla civiltà del Settecento, dunque, nel corso del secolo successivo è venuta progressivamente a identificarsi col concetto di nazione.

Come ha dimostrato Federico Chabod, nell’Ottocento «la nazione diventa la patria […] e la patria diviene la nuova divinità del mondo intero»: si tratta di quel processo di nazionalizzazione del patriottismo che Maurizio Viroli ha proficuamente riletto alla luce della tradizione repubblicana.

A tal proposito è opportuno sottolineare che nella civiltà del Risorgimento, soprattutto negli ambienti di orientamento democratico e repubblicano, il sentimento nazional-patriottico non ha mai assunto caratteri esclusivistici o connotazioni etnico-razziali: come ha recentemente osservato lo stesso Viroli, «l’amore della libertà comune predicato dagli scrittori politici repubblicani comprende l’attaccamento alla cultura nazionale, e […] l’attaccamento alla cultura nazionale, illuminato dall’amore della libertà, acquista dignità e nobiltà».

Emblematica, in tal senso, la posizione di Giuseppe Mazzini. Nell’animo dell’Apostolo dell’unità italiana era profondamente radicata un’autentica esigenza di libertà: come ha notato Chabod, egli era «repubblicano appunto perché voleva la libertà […] piena, assoluta, senza mezzi termini e riserve». Nel pensiero mazziniano, infatti, il principio di nazionalità, inteso come forma morale, non risiede nella natura, ma nello spirito. La nazione non è un fatto, ma una missione: è «un pensiero comune, […] un fine comune […]. Essa è la parte che Dio ha prescritta ad ogni gente nel lavoro umanitario; la missione, il compito che un popolo deve adempiere sulla terra».

Ogni singolo popolo, dunque, aveva il dovere – più che il diritto – di lottare per la propria libertà e, allo stesso tempo, di contribuire al progresso civile e morale dell’umanità intera. Gli ideali della Giovine Italia potevano così inserirsi senza contraddizioni nel progetto della Giovine Europa, nella prospettiva di un progresso comune di tutti i popoli della Terra. Sono gli stessi ideali e gli stessi valori che ritroviamo nei versi di Goffredo Mameli, il poeta-profeta della rivoluzione nazionale, colui che più di ogni altro è stato in grado di conferire veste poetica al pensiero politico, civile e religioso di Mazzini.

Al di là di ogni intento celebrativo, senza dimenticare gli insanabili contrasti e le profonde divergenze ideologiche tra le diverse componenti dell’antifascismo italiano, è lecito affermare che anche la Resistenza italiana fu una guerra di liberazione nazionale e, allo stesso tempo, una guerra patriottica per la libertà e per la democrazia, che riprendeva e portava a compimento la tradizione repubblicana risorgimentale.

Come hanno osservato Adriano Prosperi e Paolo Viola, con la Resistenza «si avverava, con un secolo di ritardo, il sogno di Mazzini e Garibaldi: l’Italia conosceva finalmente una guerra di popolo per bande, benchè solo in una parte del suo territorio, prevalentemente al Nord e, in misura minore, al Centro. […]

Comunque anche a Napoli, dove non vi fu tempo perché sorgesse la Resistenza organizzata, si verificò un episodio di insurrezione popolare spontanea contro i tedeschi, che, dopo quattro giorni di guerriglia, dovettero abbandonare la città prima dell’ingresso degli Alleati».

Fra i protagonisti di questa rivoluzione nazionale e democratica, due furono le formazioni politiche che, più delle altre, si richiamarono sinceramente ed esplicitamente alla tradizione risorgimentale e mazziniana: il Partito d’Azione e il ricostituito Partito Repubblicano Italiano. Se il P.d’A. – che trasse il nome dall’omonimo partito creato da Mazzini nel 1853 – era profondamente influenzato dal patriottismo risorgimentale dei compianti fratelli Rosselli, il P.R.I. riconosceva nel mazzinianesimo una componente essenziale della propria storia e della propria identità politico-culturale.

L’importanza del magistero di Mazzini per i repubblicani nella lotta di liberazione risulta evidente dalla prima pagina della «Voce Repubblicana» del 18 febbraio 1945. Il foglio è dominato dall’immagine di Mazzini che indica la strada da seguire a un partigiano.

La didascalia sintetizza lapidariamente la posizione del partito: «Per l’Italia, per l’onore, per la Repubblica».

Come ha evidenziato lo storico Mario Toscano, infatti, all’indomani del 25 luglio e dell’8 settembre, «l’obiettivo perseguito dalla sparuta pattuglia che difendeva la cultura e la tradizione repubblicana era quello della rottura della continuità istituzionale cui si doveva affiancare la valorizzazione della continuità storica della nazione stretta attorno alla bandiera della democrazia repubblicana risorgimentale».

In tal senso, le dichiarazioni della «Voce Repubblicana» del 19 luglio 1944 sono inequivocabili: il Partito Repubblicano, di fronte alle altre formazioni politiche, intendeva presentarsi come «l’anello storico che riallaccia il primo risorgimento al secondo risorgimento»; grazie al P.R.I, dunque, «la tradizione repubblicana non ha soluzioni di continuità storica».

Qualche anno fa Massimo Rosati, sulla scorta degli studi di Viroli, ha proposto di guardare alla tradizione del repubblicanesimo per «dare forza e spessore al profilo democratico della nostra identità nazionale».

Dopo la proficua “riscoperta” del «patriottismo dei democratici», dunque, al di là di ogni vuota retorica e di ogni lettura oleografica, sembrerebbe giunto il momento di prestare una rinnovata attenzione all’incidenza degli ideali risorgimentali sulla cultura politica novecentesca e, in particolare, al ruolo svolto dai repubblicani nella lotta di liberazione e nel processo di costruzione della nuova Italia: una tale prospettiva di ricerca, oltre ad arricchire gli studi specialistici sull’argomento in ambito accademico, potrebbe giovare non poco all’attuale dibattito politico e culturale.

 

Davide Meo