Frida Misul e il canto che la salvò dai nazisti

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«Mamma son tanto felice perché ritorno da te»: è l’incipit di una canzone del 1940, resa allora popolare da un famoso tenore italiano, Beniamino Gigli. Oggi il testo suonerebbe retorico, ma non lo fu certamente nel 1944, quando venne cantata nell’infermeria del campo di concentramento di Auschwitz da Frida Misul, deportata ebrea, su richiesta delle compagne di sventura.

Era nata a Livorno il 3 novembre 1919 da una famiglia ebraica. Cantante lirica, dopo l'introduzione delle leggi razziali del 1938, continuò talora ad esibirsi sotto lo pseudonimo di Frida Masoni. 

Arrestata nell’aprile del 1944 dalla polizia italiana, fu inviata al campo di transito di Fossoli e sottoposta a brutali interrogatori perché rivelasse il nascondiglio dei familiari e del cugino Umberto, unitosi ai partigiani.

Frida non cedette e fu deportata ad Auschwitz nel maggio 1944. All'arrivo al campo venne immatricolata con il n. A-5383. Dopo mesi di lavori forzati, ridotta allo stremo, pesava 34 kg e pertanto fu ricoverata nell'ospedale del campo.

L’episodio del canto lo raccontò lei stessa nel libro Deportazione. Il mio diario, scritto con una prosa semplice, ma estremamente efficace, al suo ritorno in Italia nel 1946.

«Radunai le mie poche forze, in quel momento implorai il Signore che mi venisse in aiuto perché ero molto debole. Guardai tutte le mie amiche che lasciavo in ospedale, e chiesi loro cosa desideravano che cantassi, allora tutte unite mi guardarono, e mi pregarono di cantare la canzone “Mamma” … e vidi entrare il solito medico tedesco, con i suoi aiutanti, io rimasi stordita credendo che ci fosse qualche altra novità, invece con mossa brusca mi dissero di cantare ancora per loro.

 

Cantai allora la “Serenata” di Schubert. Appena terminai, il medico tedesco mi fissò insistentemente, poi parlò alla kapò, mi prese il numero sul braccio e insieme a Giuditta (l’amica del cuore di Frida) mi disse di seguirlo.»

Venne adibita alla cernita delle vesti dei deportati assassinati nelle camere a gas, una mansione che le provò una profonda sofferenza morale, ma che comunque la salvò da un lavoro pesante che le avrebbe presto troncata la vita; la domenica doveva cantare per le SS, guadagnandosi qualche razione di cibo in più.

Nel novembre fu trasferita da Auschwitz a Villistad, un piccolo villaggio della Germania:

«In fabbrica si lavorava una settimana di notte e una di giorno per 14 ore consecutive. Ci misero a fare i fucili mitragliatori e le pistole automatiche. Era un lavoro ancora più pesante, un lavoro da uomini, ed il mangiare veniva diminuito: la nostra fetta di pane dopo 14 ore di lavoro consisteva in gr.70.»

Frida svenne per la debolezza e quando si lamentò per la fame, la kapò che dirigeva il campo e che la odiava, la percosse con una sbarra di ferrospezzandole i denti anteriori. La sera del capodanno fu nuovamente chiamata a cantare:

«La kapò mi fece entrare nel suo ufficio ed io la guardai subito con disprezzo, allora questa con riso inquisitore e di derisione mi domandò se era vero che ero una cantante. Risposi di si. In presenza c’erano degli ufficiali delle SS. e più un italiano che fungeva da interprete. Ella con tono rude mi disse di cantare qualcosa per lei, però le feci osservare che senza i denti non avrei potuto cantare bene e mi sarei arrangiata come potevo.

Questa insiste ed io dovetti ubbidire. Cantai la canzone “mamma” che in quel momento mi era venuta in mente, l’Ave Maria e la romanza dalla Butterfly di Puccini. Quando terminai di cantare, la kapò mi congedò. Aveva gli occhi lucidi di pianto. Verso l'una di notte tutto era calmo, regnava un silenzio di tomba ed a me non riusciva prendere sonno.

Ad un certo momento sentii che qualcuno si avvicinava al mio letto, ma nel buio non potevo distinguere, mi sentii accarezzare e chiamare per nome, e non più con il numero per la prima volta dopo tanti mesi di prigionia, ebbi l’emozione di sentirmi chiamare Frida. Allora mi resi conto che accanto a me c'era la kapò, colei che una volta mi odiava, mestamente si avvicinò, mi consegnò una bella fetta di pane e carne, mi accarezzò di nuovo, e poi se ne andò.

Ne rimasi talmente stordita ché non credevo che la mia musica le avesse procurato nell'anima un po’ di pietà per me. Alla svelta chiamai le mie compagne, e divisi in otto parti quella fetta di pane e carne che ci sembrò un buon auspicio per il nuovo anno.»

Nell’aprile venne nuovamente trasferita con terribili marce forzate e in carri da bestiame, nel campo di concentramento di Theresienstadt, vicino a Praga. Pochi giorni dopo, il 9 maggio 1945, fu liberata.

«Alle ore 10 in punto arrivò l'autocolonna dei russi, ma quando furono vicino a noi prigionieri, inorridirono nel trovarsi davanti centinaia di visi scheletriti, senza capelli, coperti di cenci, ridotti a brandelli. Rimasero commossi nel vedere le nostre misere condizioni. Subito vennero le autoambulanze e dei grossi pullman, ci caricarono e ci portarono in un grande edificio contornato di ville e di molti fiori, che era stato adibito ad ospedale.

Le dottoresse e alcune signore ci vennero subito in aiuto, facendoci fare un bel bagno ristoratore, una buona disinfezione, dopo di che ci fecero indossare delle belle camicie bianche. A noi sembrava di sognare. Ci portarono nelle corsie e ci fecero mettere a letto. Subito effettuarono visite mediche, trasfusioni di sangue e fleboclisi. Per la sera solo del caffè, perché ormai i nostri stomaci erano talmente chiusi, che all’infuori di cibi liquidi non potevamo prendere.

Molti non resistettero e morirono entro poche ore. A noi fecero delle iniezioni e ci dissero di dormire e riposare tranquille. Ma in quella notte fu troppo grande la gioia della sospirata libertà, che a nessuno fu possibile dormire.»   

Dopo tre mesi in un ospedale sovietico e un mese in un campo di raccolta americano, Frida tornò a Livorno, dove ritrovò la famiglia scampata alle deportazioni.

Oltre a Deportazione. Il mio diario, uno dei primissimi memoriali di deportati ebrei nei campi di sterminio nazisti pubblicati in Italia nel dopoguerra (ripubblicato con nuovi particolari, a cura dell'Ufficio Storico della Resistenza del Comune di Livorno nel volume Memorie di deportati livornesi. Il diario di Frisa Misul, supplemento a CN-COMUNE NOTIZIE n.52-53, III Ristampa, Ospedaletto - Pisa- 2006, scaricabile integralmente da qui), Frida Misul riversò tutta la rabbia e l'orrore dell'esperienza vissuta  in   un volumetto di 47 pagine  scritto d’impeto Fra gli artigli del mostro nazista: la più romanzesca delle realtà, il più realistico dei romanzi, Livorno, Stabilimento Poligrafico Belforte, 1946.

Morì il 20 aprile 1992. Le è stata intitolata una via nella sua città natale e d una” pietra d’inciampo” in via Chiarini 2,  dove un tempo c’erano le case abitate dagli ebrei, nei pressi della Sinagoga di Livorno..

Il 25 gennaio 2021, nel giorno della Memoria, organizzato dalla Fondazione “Il Fiore” al teatro l' “Affratellamento” di Firenze è stato eseguito il concerto “Le Canzoni di Frida'” a cura di Piero Nissim, con Myriam Nissim,  soprano Carla Giometti e Franco Meoli al pianoforte. Ha introdotto Fabrizio Franceschini, direttore del centro interdipartimentale Studi ebraici (Cise).

Le sedici canzoni di Frida sono state raccolte nel volume Canzoni tristi. Il diario inedito del lager (3 aprile 1944-24 luglio 1945), a cura di F. Franceschini, (Livorno, Belforte Salomone, 2019), da lei riscritte, sulla musica del canto ebraico Hatikvà e delle più note canzoni italiane degli anni ’30-‘40 (Mamma, Torna Piccina, Vivere, La Torre di Pisa ecc.).

Tra le Canzoni Tristi, che parlano della vita e della morte in Lager, e quelle dell’Attesa per il rientro in Italia si trova Il mio Diario e la mia Prigionia. Ricordano non solo l’esperienza del lager, ma sottolineano anche il valore del canto e della passione per la musica quali strumenti di sopravvivenza, di difesa e ribellione a una condizione disumana.

 

 

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