Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

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Il valore di una persona a volte è inversamente proporzionale al modo in cui si rappresenta e si fa percepire dagli altri, ed il modo in cui ci rivolgiamo agli altri dice molte cose interessanti, sulle differenze di abitudini ed attitudini con le quali si matura un senso del rispetto e della considerazione interpersonale.

In Italia ossequiamo troppo il senso dello status e dell'autorità, e questo va a discapito della comunicazione; diamo il
Lei ormai a tutti, e se eccezioni vengono fatte per il Voi, bisogna andarle a trovare o in radici desuete di rispetto familiare (quanti ricordano che i nostri genitori davano del voi ai loro?), oppure scelte tradizionali, spesso al sud, in territori in cui un certo senso di rispetto veniva esteso in maniera molto più orizzontale rispetto a quanto non avvenisse al nord.

Ma cos'è questo Lei, così invadente al punto da farci quasi scusare, quando sentiamo o ci scappa di dare del tu?

Me lo sono chiesto da amante convinto, fautore ed abituale consumatore del “tu”, che trovo adeguato più spesso di quanto non ne sia invalso l'uso.


Mettiamo da parte la volgarità di quando si dà del tu al cameriere ed alla commessa, poiché sono questioni di stile perfino banali, e nemmeno varcano la soglia di una sorta di discriminazione/sfogo latente, oppure l'eccesso di confidenza di un comune sentire infastidito e senza grande valore analitico.

 

La questione di cui vale parlare è che nella nostra società, il tu viene “concesso”: dall'adulto all'interlocutore molto più giovane, nel rapporto in cui può essere ricambiato, da chi esplicitamente lo offre o in una relazione di colleganza, ed in tal caso anche fra sconosciuti.
Viviamo all'interno di una vera gerarchia degli allocutivi, variamente erede del riconoscimento dello status, di una distanza di rispetto o dell'esigenza di solidità del comune senso dell'autorità.

Eppure, proprio in questo “tu” che sembra un istintivo quanto bistrattato modo di
eccedere in confidenza ed in volgarità, e che appare a tutti così seccamente privo di quella identificazione sociale senza la quale sembra che non sapremmo vivere e posizionarci nello spazio, credo che vada invece trovato un senso di riconoscimento perfino molto più elevato, e proprio di quelle qualità che si ritengono di poter evidenziare meglio con il “lei”.
La differenza è che nel “tu”, le qualità diventano personali, mentre nel “lei” possono essere troppo facilmente oscurate, se non ricoperte e perfino giustificate unicamente, dallo status.

Noi italiani siamo particolarmente bravi a farci offuscare la vista dalla
carica, sia essa autoritativa, politica, ecclesiastica, professionale e non so che altro: il titolo e la targhetta alla porta e sulla scrivania, quando stiamo dal lato di quelli seduti dietro, ci gonfiano di una supponenza ampia quanto quel titolo e la posizione geospaziale relativa che automaticamente conferisce, mentre quando siamo dal lato di quelli che stanno davanti alla porta, prima di bussare, ci rimpicciolisce fino a comprimere un ego che non vede l'ora di esplodere, assoggettandoci ad una invidia latente ed alla sottomissione istintiva di fronte a quella targa.
Questo forse spiega l'importanza di un “lei” abusato, e di conseguenza anche quanto lo stesso sottomesso ci tenga, perché altro non fa che desiderare di trovarsi a parti invertite, e di gonfiare il suo spazio vuoto, un giorno, tanto da guadagnarsi quel “lei”.

Di fronte a questo meccanismo, il significato del “tu” cresce di rispetto e soprattutto di considerazione reale al crescere della vera autorevolezza e del valore dell'interlocutore, perché, semplicemente, anziché ossequiare lo status sociale, inerisce esclusivamente le qualità personali.

In questa lettura ho trovato conforto nelle habitudes dei francesi, i quali non usano molto appellativi come ministro o professore, proprio perchè le persone intellettualmente più notevoli sono, proprio in quanto tali, meritevoli della considerazione di Persone, ed è nelle loro idee che risiede il loro valore.
Di fronte a costoro, i francesi diranno “dites-moi, Michel Focault”, perchè da riconoscere è l'Uomo e ciò che il suo splendido lavoro intellettuale ha prodotto, e l'uomo rimarrebbe alla sua stessa levatura di pensiero anche se non fosse stato fregiato del titolo di professore al Collège de France.
Ed inoltre, come osservò Umberto Eco, «se dovessi rivolgermi a Sant'Agostino [...], non lo chiamerei "Signor vescovo di Ippona" (perché anche altri dopo di lui sono stati vescovi di quella città), bensì “Agostino di Tagaste”» (In cosa crede chi non crede?, di Carlo Maria Martini e Umberto Eco, Liberal Libri, 1996 – pag. 4).

Ed allora rimoduliamo
all'opposto il modello con il quale abbiamo aperto il ragionamento: il valore di una persona è inversamente proporzionale alla scala delle distanze allocutive, ovvero dare del lei è un po' come mettere una distanza fra status fatta di deferenza e non legata assolutamente alla qualità, ed anche non riconoscere il valore della Persona che questo “tu” consente.
Se questo è vero, allora, l'arrampicarsi delle conseguenze potrebbe risultare eccessivamente impervio, ed il risultato finale, sebbene ora con motivazioni esattamente opposte, sarà quello di ritornare al punto di partenza; così, guardandomi intorno, e proprio in ossequio alla validità di questo principio, credo che continuerò a dare quasi sempre del lei.

 

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