Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

La conoscenza. Ragione e intelletto

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La moderna filosofia non è in fondo altro che una grande “teoria della conoscenza”, definita spesso Erkenntnistheorie secondo la dominante tradizione tedesca. Così è stato almeno da Cartesio in poi.

Per sintetizzare userò da ora in poi la sigla TDC.

Tuttavia non bisogna dimenticare che proprio da Cartesio in poi ciò che veniva posto in primo piano non era tanto la fisiologia della conoscenza quanto invece semmai la sua possibilità in assoluto; ovvero, detto più tecnicamente, la fondamentale «problematicità» che è caratteristica della conoscenza (problematicità della conoscenza, PDC).

Il che significa che per il filosofo l’atto di conoscenza non è per nulla ovvio, come lo è invece per lo scienziato della Natura (specie il neuroscienziato) e per l’uomo comune. In altre parole dietro l’intera TDC filosofica c’è l’ipotesi di uno scetticismo di fondo; ed in assenza del quale, peraltro, si presume che diventi di fatto impossibile conoscere in maniera appropriata, cioè veritativamente.

E per questo dobbiamo senz’altro rifarci nuovamente a Cartesio. Dato che il suo «cogito» presuppone inevitabilmente un «dubito».

 

Tuttavia sia il «cogito» che il «dubito» rinviano al soggetto quale momento decisivo della conoscenza.

Infatti proprio la presenza dirimente di un soggetto impone la necessità della PDC – ciò significa che la conoscenza non può per davvero avvenire senza che essa venga validata nell’unico luogo dell’essere in cui emergono realmente il «cogito» e il «dubito».

Ecco che allora non è data né è possibile alcuna conoscenza davvero valida oggettivamente, e quindi valida in maniera assoluta.

La conoscenza invece può essere valida solo soggettivamente. Questo però non elimina un certo inevitabile difetto fondamentale della conoscenza stessa, e cioè il fatto che essa avviene nel soggetto, e quindi lontano dal mondo, ossia lontano dall’oggetto da conoscere.

Tutto ciò esprime comunque la classica presa di posizione idealistica in relazione alla TDC, e che ha dominato di fatto l’intera filosofia da Cartesio in poi.

Facendo una grande sintesi potremmo dire che la dottrina della PDC pone la potenzialità e non invece attualità della conoscenza.

Tale presa di posizione archiviò per sempre quella che possiamo considerare l’antica TDC, e cioè quella onto-metafisica.

Secondo quest’ultima, infatti (specie secondo l’approccio aristotelico prima e tomistico poi), l’ente esistente è vero di per sé, ossia oggettivamente ed assolutamente. Proprio per questo motivo era stato sempre molto diffuso il concetto di «verità dell’essere».

Il che significava poi che Conoscenza ed Essere non venivano affatto considerati separati. Il cambio di prospettiva imposto da Cartesio fu pertanto decisivo perché egli inferse il primo grande colpo alla TDC fino a quel momento imposta dalla metafisica.

Ma per chiarire ulteriormente il senso di tutto ciò rinvio il lettore alla quinta lezione, dedicata appunto a Cartesio.

In ogni caso, allorquando si è voluto contestare la problematicità della conoscenza (PDC) non si poteva che chiamare in causa esattamente il pensatore francese.

È ciò che ha fatto ultimamente Wolfgang Smith sostenendo che (sostituendo la Ragione con la facoltà dell’Intelletto) la conoscenza cessa senz’altro di essere problematica – specie nel senso che essa è da considerare attuata ed efficace sempre, comunque e senza il minimo dubbio.1

Un’altra confutazione di Cartesio è stata fatta dal famoso António Damásio.2

E questo non può stupirci affatto dato che questo studioso è un neurofisiologo (o anche neuroscienziato), e quindi non può che sostenere la fisiologia della conoscenza, ossia la sua ordinaria attualità ed infallibilità.

Il che sottolinea poi la stranezza che la PDC ha sempre avuto per la scienza empirica.

Chi infatti ha studiato l’anatomo-fisiologia del cervello umano (come fanno medici, biologi, psicologi e neuroscienziati) non può né comprendere né accettare (nemmeno minimamente) che al fondo della conoscenza venga posta un’ipotesi scettica, ossia in definitiva un’ipotesi negativa.

Insomma non può assolutamente venire accettato che, per poter descrivere la conoscenza, ci si debba porre primariamente il problema di cosa essa non è capace di fare.

L’ipotesi della scienza empirica è invece decisamente e dogmaticamente positiva, e lo è sostanzialmente perché essa si attiene a fatti semplici ed elementari – quando interviene la funzione conoscitiva (della quale la mente umana è dotata per natura), è come se essa avesse già raggiunto il proprio scopo senza che nulla possa interporsi su questo cammino.

In altre parole il concetto bio-medico di «funzione» si oppone radicalmente a qualunque concetto di «problematicità».

E qui ci troviamo esattamente davanti alla dottrina dell’attualità e non invece problematicità della conoscenza.

Per la verità, da medico, devo sinceramente ammettere che anche me il concetto di PDC ha sempre fatto un po’ sorridere, se non sghignazzare. Infatti chi non è integralmente filosofo non può non trovare molto bizzarra questa dottrina.

In ogni caso questa serie di obiezioni a Cartesio sostiene in ultima analisi che soggetto ed oggetto sono ben più prossimi di quanto si possa mai pensare; anzi si può anche arrivare a dire che tra essi non vi è in realtà alcuno jato.

Tuttavia va comunque fatta un’altra osservazione su tali obiezioni.

Va cioè notato che Smith e Damásio (il primo fisico sub-particellare oltre che filosofo, ed il secondo neurofisiologo) hanno in comune il fatto di contestare la divisione ontologica radicale operata tra soggetto ed oggetto nel contesto dell’idealismo cartesiano, e cioè la presupposizione di uno jato incolmabile tra questi due elementi.

È esattamente per questo motivo, infatti, che la filosofia ha concepito una dottrina come quella della PDC – in via di principio la conoscenza è impossibile per il semplice fatto che il soggetto è così ontologicamente diverso dall’oggetto da rappresentare una realtà totalmente inconciliabile con esso.

E tale inconciliabilità può venire intesa come lontananza nello spazio, o anche come sfasatura nella relazione. Infatti la dimensione ontologica del soggetto corrisponde al mondo interiore, mentre la dimensione ontologica dell’oggetto corrisponde al mondo esteriore.

E così la domanda che sempre si è posto il filosofo rispetto alla conoscenza (in primis Cartesio) è stata la seguente: − come possono così precisamente incontrarsi (nell’oggetto conosciuto) il conoscente (soggetto) ed il conosciuto (oggetto) se questi due ultimi sono così diversi e lontani tra loro?

Al filosofo, insomma, è sembrato stranissimo (se non impossibile) che un nulla di essere com’è il soggetto (fatto di pura interiorità, cioè un finto spazio pieno di entità solo astratte, ovvero la mente) possa realmente (ed anche attualmente) intercettare l’essere più pieno che esista (ossia quello mondano-esteriore).

Si tratta in definitiva della problematicissima relazione esistente tra Idea e cosa, che abbiamo finora più volte esaminato specie quando abbiamo parlato di Platone.
In termini di neurofisiologia si tratta invece della semplicissima ed intimissima relazione esistente tra due entità della Natura, e cioè mente (o idea) e mondo (o cosa).

E quindi in tale contesto non sussiste nessunissimo problema. Tuttavia per la filosofia non è affatto così; dato che ad essa la dimensione soggettuale-interiore (corrispondente alla mente ma in fondo anche all’anima e perfino allo spirito) è sempre apparsa come radicalmente trascendente il mondo esteriore (con tutto ciò che è connesso: corpo, carne, materia, molteplicità, divenire).

Tale dimensione ha infatti sempre ricordato alla filosofia il supremo Soggetto conoscente e trascendente, e cioè Dio.

In ogni caso va detto, anche se solo per inciso (si veda per questo la seconda lezione), che idealismo e realismo – pur teorizzando entrambi la PDC − hanno dato alla questione due soluzioni abbastanza diverse.

Il primo ha infatti considerato primaria e decisiva (per la conoscenza) la dimensione soggettuale-interiore (cioè mentale).

Il secondo invece ha considerato primaria e decisiva (per la conoscenza) la dimensione oggettuale-esteriore. In altre parole il primo ha affermato che (per la conoscenza) il fatto decisivo è che ci sia un’idea della cosa (ossia il conoscente, o anche conoscibilità della cosa), mentre il secondo ha invece affermato che (per la conoscenza) il fatto decisivo è che ci sia una cosa esistente, alla quale si relazionI l’idea (ossia il conosciuto, o cosa in quanto esistente).

Così, nel contesto dell’empirismo (che in qualche modo si approssima al realismo, pur essendo comunque una variante dell’idealismo), l’ipotesi realista ha lasciato supporre che la rappresentazione (idea) insorga unicamente nel contesto della percezione.

La quale se ne sta poi immediatamente al ridosso della cosa, ossia dell’oggetto in quanto esistente.

Bene! Le obiezioni a Cartesio ed alla PDC hanno un loro indubbio fascino ed anche una non indifferente capacità di convincere.

Il che ha peraltro contribuito non poco all’indebolimento dell’influsso di Cartesio stesso entro l’attuale TDC. Tuttavia anche queste obiezioni non sono prive di difficoltà.

E ciò avviene non solo per le loro debolezze, ma invece soprattutto perché la postulazione filosofica della PDC ha delle sue ragioni di essere che sono davvero incontestabili.

Insomma, si può affermare quanto si vuole che soggetto e oggetto stanno a immediato ridosso l’uno dell’altro. Ma intanto ciò non spiega in alcun modo quell’autentico misterioso enigma della conoscenza, che venne perfettamente esemplificato da Edith Stein a proposito del “castagno fiorito”.3

Si tratta precisamente di questo – come faccio io a dire che è proprio un castagno fiorito quella cosa indistinta e sconosciuta (quel generico “qualcosa”) che ho appena visto davanti a me?

Ebbene, lo posso fare solo perché dentro di me, al cospetto di quell’indistinto e generico qualcosa, viene innescato un processo interiore che alla fine mette capo al riconoscimento di un’essenza (a sua volta unicamente interiore), e cioè quella del castagno.

In questo momento io posso quindi rispondere alla domanda “cos’è questo?” per mezzo della menzione dell’essenza, cioè dello specifico «è» di quella specifica cosa – “questo è un castagno!”.

Ecco allora che l’essenza (“cos’è questo?”) costituisce la forma conoscitiva della cosa, mentre invece il castagno costituisce la cosa stessa, ossia il “questo”.
Ma come avviene questo misterioso processo, che bypassa e salta totalmente lo jato effettivamente esistente tra la forma conoscitiva e la cosa da conoscere?

La Stein si guarda bene dal dircelo perché, nell’esporre questa dottrina, ella si rifà al venerato maestro Husserl.

Il quale con ossessività maniacale aveva «descritto» i percorsi mentali per mezzo dei quali secondo lui avveniva questo fenomeno, che potremmo definire come «intuizione essenziale».

Tuttavia non ne aveva affatto svelato il mistero.
Non a caso la «descrizione» voleva essere appena una presa d’atto di ciò che realmente accade (la conoscenza come “fenomeno”).

Non voleva invece in alcun modo essere un’esplorazione analitica del perché ciò accade.

Il timore di Husserl era infatti di sconfinare nella metafisica.

Ed egli sapeva molto bene che quest’ultima non era altro che la metafisica platonica della conoscenza, ossia quella dottrina che postula la conoscenza previa (da parte della mente-anima umana) di tutte le possibili verità conoscitive relative agli oggetti.

Ed in effetti il mistero della conoscenza consiste proprio in questo – come mai io sono dotato nella mia mente di immagini mentali di una cosa specifica che corrispondono ad essa così precisamente pur essendo appena delle idee?

Torniamo insomma alla pienezza del problema posto dalla filosofia come PDC – vi è un’insuperabile differenza ontologica tra idea e cosa. Ma nello stesso tempo ci avviciniamo all’esplorazione del misterioso «perché» di tutto questo. Infatti l’unico modo di spiegare questo mistero è quello di presupporre la presenza effettiva di idee innate nella nostra mente.

E questo lo aveva pensato Platone non solo prima di qualunque altro filosofo occidentale, ma anche con una chiarezza ed una limpidezza che erano e sono totalmente priva di astrusità.

Mentre l’astrusità (concettuale e terminologica) abbonda ad esempio presso un pensatore come Husserl.

Nel complesso si può quindi dire che hanno insieme ragione e torto sia i filosofi moderni nel porre la PDC, sia anche tutti coloro che si oppongono alla legittimità e perfino veridicità di tale ipotesi.

La ragione consiste nel sottolineare l’effettivo mistero costituito dall’atto di conoscenza in sé (concepito astrattamente ed ontologicamente, cioè come momento dell’essere), in quanto incontro davvero inverosimile tra due «sostanze» radicalmente diverse e lontane tra loro.

Usando il linguaggio di Cartesio possiamo ben dire che si tratta dell’incontro tra la “res cogitans” e a “res extensa”.

Il torto consiste nel mancare di constatare che, per quanto teoricamente problematico, l’atto di conoscenza avviene effettivamente ossia attualmente, e quindi esso dimostra quanto reale sia l’incontro tra le due «sostanze».

Dunque sul piano pratico è assolutamente ridicolo supporre e/o porre la PDC.

Tuttavia bisogna anche dire che l’atto critico di messa a nudo di tale ridicolo è drammaticamente esposto alla mancanza, nel suo contesto, di una vera e propria TDC.

In altre parole chi contesta la PDC dispone di argomenti piuttosto poveri e deboli per spiegare l’atto di conoscenza su un piano che non sia appena quello della costatazione di meccanismi fisiologici, ed inoltre rifiuta totalmente di prendere atto della misteriosità dell’atto di conoscenza stesso.

Insomma in tal ambito si è perfettamente in grado di illustrare il «come» della conoscenza, ma non si è quasi per nulla in grado di illuminare il suo «perché».

In definitiva gli oppositori della PDC sono tutti dei pragmatisti. Ma nell’esserlo sono anche estremamente banali e superficiali nella loro argomentazione.

La quale consiste appena in quanto segue: − «Ciò accade semplicemente perché accade. Punto!».

Ora, tenendo conto delle questioni poste dalla PDC, il vero e profondo «perché» potrebbe invece venire descritto nel modo seguente: − perché mai accade che due «sostanze» fatte per non entrare in contatto l’una con l’altra, invece lo fanno e lo fanno peraltro continuamente e con estrema efficienza?

È evidente che questa domanda conduce poi a quella ancora più fondamentale, che è poi è tipicamente filosofica − «cos’è mai la conoscenza?», ossia «qual è l’essenza della conoscenza?».

Ebbene, la risposta universalmente fornita dalla filosofia moderna a tali domande è consistita sempre nella radicale differenza tra Conoscenza ed Essere. Abbiamo visto prima che invece la filosofia antica aveva sempre preferito postulare l’identità tra Conoscenza ed Essere.

Ma con ciò ritorniamo di fatto alla stessa PDC, dato che, con il constatare la differenza tra Conoscenza ed Essere, non si è spiegato assolutamente nulla ma si è invece preso semplicemente atto di un preciso fatto onto-metafisico – l’essenza della Conoscenza e l’essenza dell’Essere sono radicalmente divergenti.

La Conoscenza designa la sfera di essere corrispondente al soggetto, all’Io, all’oggetto già conosciuto (reso intelligibile), all’interiorità ed alla mente. L’Essere designa invece la sfera di essere corrispondente all’oggetto, al non-Io, all’oggetto non ancora conosciuto (non ancora intelligibile), all’esteriorità ed al mondo.

In ogni caso Smith e Damásio affermano in modo diverso l’ovvietà (assolutamente non problematica) dell’atto di conoscenza.

Il secondo (Damásio) lo fa sul piano puramente scientifico-empirico, sostenendo che mente e mondo fanno entrambi parte della Natura, e quindi non vi è assolutamente alcun mistero nel loro costante incontro.

Per questo egli critica il “dualismo” cartesiano ritenendolo completamente errato. Ma lasceremo da parte tale osservazione dato che essa rientra nel campo della scienza e non della filosofia.

Il primo (Smith) – essendo realmente anche un filosofo, oltre che uno scienziato della Natura – lo fa invece appunto sul piano filosofico, e quindi chiama in causa la radicale differenza che vi è tra Ragione ed Intelletto.

Egli critica quindi Cartesio per il suo dualismo a causa del fatto che esso istituirebbe un supposto inevitabile “biforcazionismo” tra soggetto conoscente e mondo unicamente perché il pensatore francese tenne presente la Ragione non invece l’Intelletto.

La critica di Smith è quindi rivolta in fondo all’intera moderna TDC, dato che invece quella antica (incentrata in Tommaso d’Aquino) era basata sull’Intelletto e non sulla Ragione. E proprio per questo, del resto, essa postulava l’identità tra Conoscenza ed Essere, ossia l’assenza di qualunque jato tra soggetto ed oggetto.

Ebbene, l’Intelletto soggettuale possiede secondo Smith un’affinità addirittura naturale (oltre che totale) per l’oggetto mondano, ossia è fatto esattamente per entrare in intima relazione con esso come avviene appunto nell’atto di conoscenza.

E l’intimità del contatto è proprio il fattore chiave di questa interazione, dato che l’Intelletto possiede una capacità di penetrazione profonda dell’oggetto − corrispondente poi all’”intus-legere”, e quindi all’etimologia stessa del termine “intelletto” – il cui aspetto principale è l’”intuizione” e non invece il raziocinio.4

Ecco allora che, finché l’atto soggettuale di conoscenza è e resta appena il raziocinio (proprio della Ragione), è inevitabile che il soggetto sia e resti ontologicamente separato dall’oggetto per mezzo di uno jato davvero insuperabile. Ed ecco allora davanti a noi il nucleo stesso della PDC.

Se però, invece, l’atto soggettuale di conoscenza viene visto nell’«intuizione intellettuale», allora svanisce ogni distanza ontologica tra soggetto conoscente ed oggetto. Quindi svanisce anche la supposizione di una PDC.

Qualcosa di molto simile viene affermato anche da Frithjof Schuon nel sostenere che, proprio sulla base di tale capacità di penetrazione caratteristica dell’intelletto, il soggetto umano è perfettamente in grado di conoscere a fondo perfino l’Assoluto divino.5

Insomma Smith sembra in tal modo aver risolto ed archiviato quella dottrina della PDC che intanto non era mai stata dismessa dalla filosofia.

Tranne nelle forme di ultimissimo realismo filosofico che però hanno abbracciato definitivamente e totalmente la presa di posizione della scienza empirica.
Si potrebbe dire allora che il mistero dell’atto di conoscenza viene svelato anch’esso allorquando si chiama in causa l’Intelletto e non la Ragione.

E del resto la Stein (che abbiamo visto protagonista della descrizione dell’atto di riconoscimento del castagno fiorito) parla di Intelletto in quanto Spirito anche perché differenzia nettamente quest’ultimo dalla Ratio, nonostante la prossimità che essa ha all’atto intellettuale e conoscitivo.6

Ciononostante però forse Smith semplifica un po’ troppo le cose. Egli infatti non parla per nulla della problematica conoscitiva centrale, ossia quella del riconoscimento dell’essenza della cosa.

Il suo tema è invece la straordinaria e sorprendente intensità di conoscenza che è stata raggiunta per mezzo dei moderni strumenti a disposizione della fisica sub-particellare.

I quali appaiono in grado di permettere ormai una penetrazione conoscitiva dei fondamenti più invisibili e più ultra-percepibili della cosa mondana; penetrazione conoscitiva che a sua volta è molto più intuitiva che non rigorosamente razionale.

Infatti le caratteristiche delle particelle sub-atomiche sfuggono totalmente alle leggi razionali dello spazio geometrico cartesiano, e quindi possono venire colte solo facendo appello ad una sorta di metafisica scientifica.

E questo secondo Smith è possibile solo invocando l’intuizione intellettuale in luogo dell’argomentazione razionale.

La sua tesi è pertanto che sarebbe sempre esistita una possibilità di piena penetrazione conoscitiva della più intima costituzione della cosa mondana, che ultimamente è stata appena slatentizzata dall’avvento di strumenti assolutamente rivoluzionari.

Ciò che dice lo studioso è insomma estremamente affascinante (anche perché egli si appella in fondo ad una perfetta conoscenza intuitivo-intellettuale della Natura che era stata già esposta molto tempo fa da Tommaso).

E tuttavia la sua tesi appare non poco stiracchiata e forzosa.

Essa inoltre non tocca affatto il tema centrale della PDC, e cioè quello del riconoscimento dell’essenza della cosa.

In ogni caso però anche Schuon (nel trattare della perfettamente plausibile conoscenza umana dell’Assoluto divino) chiama in causa esattamente quella capacità di penetrazione che è solo dell’Intelletto e non invece della Ragione.

E quindi l’argomentazione di Smith non deve poi essere così lontana dalla verità.
E cioè molto probabile che, da Cartesio in poi, noi tutti siamo stati tratti in inganno dal fatto che abbiamo attribuito al soggetto conoscente la Ragione e non invece la capacità di penetrazione intellettuale.

Pertanto è altamente probabile che la complessiva dottrina filosofica della PDC sia del tutto artificiosa e perfino del tutto inconsistente.

Bene!

Quale lezione noi uomini comuni possiamo trarre da tutto questo?
A mio avviso si tratta di fare una sorta di bilancio delle argomentazioni e delle obiezioni che ho finora illustrato.

Come abbiamo visto, il torto e la ragione stanno qui dappertutto e da nessuna parte. E quindi è possibile che noi possiamo davvero vedere le cose come stanno solo se mettiamo insieme tutto ciò che abbiamo visto finora tentando di ottenere un quadro di insieme e ottenendo così un risultato netto.

Ebbene, al netto delle varie argomentazioni presentate, io direi che prevale decisamente il bizzarro paradosso costituito dal considerare la conoscenza come problematica. Tutti noi conosciamo e lo facciamo peraltro continuamente – che ciò avvenga in maniera ordinaria o anche straordinaria.

Tutti insomma pratichiamo efficacemente la conoscenza, e di certo senza nemmeno essere consapevoli della sua problematicità.

In altre parole la perfezione dell’ordinaria fisiologia della conoscenza ci dispensa pienamente dal dover professare qualunque teoria della PDC.

Resta però comunque il problema più propriamente filosofico, e quindi esso non viene affatto eliminato da ciò che non facciamo ordinariamente, spontaneamente e con perfetta efficienza. Risulta quindi chiaro che la dottrina filosofica della PDC non può né deve concernere in verità alcuno scetticismo gnoseologico (come però avviene correntemente).

Essa cioè non può mettere in dubbio il perfetto compimento (del tutto ordinario) dell’atto di conoscenza. Può invece al massimo mettere a nudo il mistero della conoscenza.

Qui viene però il punto decisivo.

Per divenire pienamente consapevoli del mistero della conoscenza, noi abbiamo davvero bisogno della lezione filosofica, ed in particolare di quella moderna?

 Io direi di no. Ed il motivo l’ho già menzionato prima – chi ha posto per primo e pienamente il mistero della conoscenza è stato Platone.

Ma intanto egli non si era nemmeno sognato di tematizzare una PDC.

Egli invece si era limitato a fare ciò che il filosofo è di fatto costretto a fare (se è davvero onesto) qualora il suo cammino viene sbarrato dal mistero – egli si è rivolto al mito, ed in particolare a quello orfico.

E così è giunto alla conclusione che l’unico modo per illuminare (anche solo debolmente) il mistero della conoscenza consiste nell’ammettere che il «conoscere» è esattamente come si mostra a noi ordinariamente, cioè è appena un «ri-conoscere».

È in definitiva il ritrovare in qualcosa di sensibile (percezione) una conoscenza dell’essenza (di quella sconosciuta cosa) che è infallibile solo perché un tempo già la si possedeva. Ed ecco la teoria della reminiscenza.

Che è poi la postulazione di un pieno possesso, da parte nostra, di una vera e propria perfetta conoscenza previa di ogni cosa.

Ma qui ci viene di nuovo incontro il concetto di «intuizione intellettuale».

Evidentemente, infatti, tra quest’ultimo e la conoscenza previa vi sono rapporti molto stretti.

Insomma, allorquando io osservo che l’intuizione intellettuale mi permette di conoscere infallibilmente proprio l’essenza della cosa che intanto ho davanti percettivamente (permettendomi così di gridare con giubilo «questo è un castagno fiorito»), ciò significa che io, esattamente in quel momento, sto ri-conoscendo qualcosa che un tempo già conoscevo perfettamente.

In altre parole io sto ri-attualizzando la conoscenza previa della quale da sempre ero in possesso; e che però dalla mia nascita in poi è stata occultata dall’oblio causato dalla carne.

Ebbene tutto questo è stato illustrato in maniera davvero esemplare da un grande pensatore platonico-cartesiano moderno e cioè il russo-francese Alexandre Koyré, allievo di Husserl.7

 

Note

1. Cfr. W. Smith, The Quantum enigma: finding the hidden key, Angelico Press, Sophia Perennis, San Raphael, 2001.

2. Cfr. A. Damásio, L’errore di Cartesio, Adelphi, Milano, 1995; Damásio, O livro da consciêcia, Temas e Debates, Lisboa, 2010.

3. E. Stein, Potenza e atto, Città Nuova, Roma, 2003, V, 6 pp. 161-182.

4. LMA Viola, La Gnosi Cristica Integrale, Victrix, Forlì. 2008, I, IVb pp. 54-55.

5. F. Schuon, Logica e trascendenza, Mediterranee, Roma, 2013, 2 p. 26-28, 4 p. 53-67, 5 pp. 71-72.

6.Stein, Der Aufbau der menschlichen Person, ESGA 14, Herder, Freiburg, Basel, Wien, 2001, VII, II, 1 pp. 99-100.

7. Cfr. A. Koyré, Discovering Plato, Columbia Papekback Edition, New York, 1960.

 

 

 

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