Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Il tempo e l'eternità

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Il problema del tempo è stato costantemente affrontato in filosofia. Tuttavia vi è un deciso spartiacque tra trattazione antica e moderna del tema.

I pensatori antichi, infatti, hanno sempre trattato del tempo come una dimensione dell’essere che si presenta costantemente sullo sfondo dell’eternità, la quale a sua volta veniva identificata non con l’infinità del tempo ma invece con l’assenza del tempo.

Gregorio di Nissa, ricollegandosi a Plotino, definisce molto bene l’eternità in questi termini – essa è per lui infatti caratterizzata dallo status ontologico dell’”adiastáto”, ossia l’assenza di qualunque dimensione dell’essere e cioè più precisamente l’assenza di “estensione”.1

In tal modo l’eternità corrisponde esattamente a quel supremo livello ontologico che può solo venire definito come “hyperousios”, ovvero sovra-essenziale. E questo è poi per l’intero platonismo (pre-crsistiano e cristiano) il livello corrispondente all’Uno divino, ossia il livello che sta al di sopra dell’Essere stesso.

In altre parole i filosofi antichi guardavano ad un tempo immanente e nello stesso tempo ad un tempo trascendente – il primo percepibile sensibilmente (e quindi apparentemente molto reale) ed il secondo invece sovra-sensibile (e quindi di fatto così poco percepibile da sembrare del tutto irreale).

Il primo (il tempo immanente) veniva considerato equivalente all’essere molteplice che i nostri sensi colgono come una miriade non coordinata di enti e di qualità, e nello stesso momento colgono come realtà perennemente in movimento (laddove poi tale movimento corrisponde abbastanza bene alla transizione continua che c’è da un aspetto all’altro aspetto dell’ente).

Quasi tutti i pensatori antichi, però (con pochissime eccezioni, come ad esempio Eraclito, Democrito e forse anche Epicuro), non si accontentarono affatto di tale assetto dell’essere temprale in quanto assoluto.

 

Essi lo videro invece come fortemente negativo soprattutto perché impediva di conoscere l’ente nella sua completezza, e quindi rendeva in definitiva impossibile la scienza.

In questo l’ostacolo principale veniva colto nell’essere inteso come puro divenire, quindi come qualcosa che non era mai possibile abbracciare con lo sguardo in una Totalità solidamente essente, e cioè in possesso di quella stabilità che poi era in primo luogo del singolo ente.

Per tale motivo, allora, l’essere inteso come divenire veniva di fatto considerato equivalente al Nulla, ossia al non-essere.

Dunque l’avversione dei filosofi antichi per il tempo immanente (equivalente a sua volta quasi interamente al divenire) non era solo di carattere gnoseologico-epistemologico, ma era invece anche di carattere etico-metafisico.

In altre parole il tempo immanente veniva considerato una forma degenere (e perfino malefica) di essere. Tanto che esso veniva considerato equivalente al Nulla, ed il alcuni casi (come presso Plotino) veniva considerato equivalente al Male stesso.

È evidente che ciò ci rinvia fortemente alla visione orfico-pitagorico e platonica dell’essere; entro la quale la qualità e consistenza dell’essere stesso peggiorava progressivamente dal Trascendente verso l’immanente, per raggiungere a tale livello la natura di un effettivo Nulla, o almeno la natura di un essere totalmente illusorio.

Inoltre veniva considerata totalmente negativa anche la conoscenza dell’essere che si svolgeva a tale livello. Essa infatti veniva considerata pura “ignoranza”.

Poco a poco però la filosofia ha iniziato a cambiare decisamente registro nella sua visione del tempo.

Essa ha cioè gradualmente iniziato a guardare al tempo come unicamente immanente; quindi immanente in senso assoluto e non più solo relativo. Di conseguenza la disciplina ha smesso poco a poco di disinteressarsi totalmente del tempo trascendente, cioè dell’eternità.

Non ho intenzione di fare qui una storia del concetto di tempo nell’intera filosofia.

Sarebbe un arduo compito ed io non credo di avere le necessarie competenze per poterlo fare. Si tratta insomma di un argomento che (per poter venire trattato) richiederebbe, almeno per me, un preliminare e molto approfondito studio.

Tuttavia è possibile almeno fare un’osservazione molto generale ed approssimativa sul momento in cui lo stacco è avvenuto. Io direi che il momento di viraggio (nella visione filosofica del tempo) è da considerare la transizione dal Medioevo (Scolastica) all’Umanesimo rinascimentale.

Certamente, nel corso di quest’ultimo, vi fu anche un grande rifiorire di studi del pensiero antico, e quindi vi si delinearono dottrine metafisiche ed anche esoteriche (di stampo fortemente platonico) che senz’altro conservarono e svilupparono il concetto di eternità.

Si pensi a pensatori come Marsilio Ficino, Pico della Mirandola, Agrippa di Nettesheim, Paracelso, e più tardi anche lo stesso Giordano Bruno (che fu un filosofo della Natura solo nel senso di essere un grande platonico ed un grande anti-aristotelico).

Tuttavia non mancò molto e lo scenario cambiò decisamente con l’avvento di una filosofia della Natura immanentista (rappresentata soprattutto da Bacone) che continuò il suo corso costantemente pur nel mezzo di una perdurante visione metafisica dell’essere.

Che si protrasse poi perfino oltre Cartesio arrestandosi definitivamente solo con Kant. Si pensi ad esempio alla grande scuola platonica di Cambridge, che fiorì nel pieno del XVII secolo. Pertanto possiamo dire che, tenendo fermo l’Umanesimo rinascimentale come punto di svolta, il concetto di tempo trascendente (o eternità) è restato presente in filosofia almeno finché è esistito almeno una parvenza di metafisica.

Ma comunque il momento in cui il tempo immanente divenne definitivamente assoluto (in senso ontologico) deve venire considerato quello in cui Heidegger elaborò il suo concetto di “temporalità dell’essere”.2

E qui siamo forse anche ben oltre la stessa visione che considera il tempo immanente come assoluto e non più invece relativo (ossia assolutamente non toccato né condizionato da alcun concetto di tempo trascendente, o eternità). Heidegger, infatti, sostiene che la stessa essenza (o sostanza) dell’essere consiste nel tempo, o meglio nella “temporalità”.

Quindi per lui non è nemmeno il caso di pensare ad un essere che non abbia le caratteristiche del fluente divenire, e che consista quindi in un blocco statico corrispondente ad una Totalità infinita (totalmente priva di movimento, cioè senza tempo). Insomma a suo avviso il tempo non insorge affatto nel contesto dell’essere, ma è invece l’essere stesso.

E quindi è semmai l’essere ad insorgere nel tempo.

In altre parole per lui essere è tempo e tempo è essere. Poi si è diffusa tra gli heideggeriani la stucchevole e frivola convinzione secondo la quale presso il primo Heidegger l’essere sia stato equiparato al tempo («essere è tempo»), mentre presso il secondo Heidegger il tempo sia stato equiparato all’essere («tempo è essere»).

Ma queste sono solo astruse elucubrazioni da tecnici della filosofia che secondo me possono venire totalmente ignorate senza riceverne alcun danno.

Ebbene, tenendo conto di questo momento assolutamente terminale della riflessione filosofica sul tempo, credo che valga a questo punto menzionare almeno alcuni tra i pensatori che, nel contesto dell’intero pensiero umano, si sono soffermati più specificamente ed esplicitamente su questo tema.

Agostino di Ippona si produsse in una delle più straordinarie e profonde riflessioni sul tempo che vi siano mai state nell’intera filosofia.

Ed il bello è che tale riflessione non solo superò decisamente l’intero pensiero antecedente – inclusi Platone, il platonismo ed il neoplatonismo (dato che in essi il tempo non era mai stato così direttamente tematizzato) – ma addirittura restò insuperata anche dopo, e cioè addirittura fino ad oggi.

Vedremo tra poco perché. Per ora cerchiamo di penetrare il nucleo dell’argomentazione di Agostino.3

Egli si interrogò in primo luogo circa il vero e proprio mistero rappresentato dai tre momenti del tempo, e cioè passato, presente e futuro. E tale mistero coincide per lui con l’ontologia stessa di ciò che noi spontaneamente chiamiamo «tempo».

Lo facciamo esattamente perché (per una misteriosa ispirazione) noi tendiamo ad abbracciare il tempo con il nostro sguardo intellettuale come se fosse un Tutto (ossia come abbiamo visto prima, cioè come se usassimo una cinepresa puntata sull’intera estensione del tempo).

Ma cosa abbracciamo con tale sguardo? La risposta di Agostino è netta: «Nulla!». Noi infatti cogliamo il tempo come un «qualcosa» che proviene da un «dove», passa per un «qui», e procede verso un altro «dove», mentre in verità l’unica cosa che esiste è il soggetto (lo stesso «cogito-sum» di Cartesio) che ospita in sé queste concettualizzazioni di ciò che non esiste affatto oggettivamente ed oggettualmente. Insomma il tempo non è né un oggetto né è un essere.

È in tal modo che Agostino coglie una delle funzioni conoscitive più straordinarie e sottili dell’anima, e cioè la memoria. E così si ricollega esattamente alla stessa riflessione fatta da Platone sullo stesso tema nel Teeteto.

Usualmente i professori di filosofia tendono a sottolineare la modernità concettuale di questa dottrina.

Come se di punto in bianco, con l’Ipponate, la filosofia antica avesse smesso di colpo di trattare del tempo trascendente (l’eternità) e avesse preso ad esaminare invece il solo tempo immanente (il divenire). Per i moderni filosofi, infatti, modernità e riduzionismo sono esattamente la stessa cosa.

Non a caso lo scaltro Heidegger (che non cessò mai di sfruttare, incorporandoli, diversi grandi pensatori) volle farci credere che la sua “temporalità dell’essere” avesse esattamente radici agostiniane.4

Ebbene, a mio avviso non vi è nulla di più falso in tutte queste letture di Agostino. Infatti a me sembra che egli più che mai abbia voluto sottolineare esattamente la sostanziale eternità del tempo, ossia abbia voluto trattare del tempo trascendente, e cioè quel tempo che sta così al di sopra dell’essere da assomigliare fortemente ad un nulla.

Altra grande riflessione sul tempo mi sembra poi quella di Gregorio di Nissa (della quale ho parlato prima).

Ma poi viene quell’altro immenso pensatore che fu Meister Eckhart.

Egli sostenne in generale l’ininterrotta continuità (ed anzi identità di essere) che vi è tra l’Uno divino ed il mondo, e quindi tra Sovrannaturale e Naturale.

E così arrivò a concepire addirittura un divenire che altro non è se non la continuazione ininterrotta dell’eternità nel mondo immanente.5

Alcuni suoi interpreti hanno parlato al proposito di “prospettivismo”, ossia di una concezione dell’essere che si identifica esattamente con la fluidità del divenire, ma senza intanto mai perdere intanto il suo ininterrotto legame con le Origini. Laddove poi le Origini non sono altro che l’Uno divino.

Ciò significa che (come ci fa notare Mieth) la concezione eckhartiana dell’essere potrebbe a prima vista addirittura venire assimilata a quella nietzschiana, ossia ad una dimensione in cui non vi è altro che il movimento prepotentemente sospinto dalla volontà soggettuale.

Per Eckhart infatti non vi è alcuna dislocazione tra la posizione del soggetto umano e quella del Soggetto divino; motivo per cui l’essere procedente dal Principio (l’Uno divino o Origine) procede allo stesso modo anche dal soggetto umano.

Tuttavia l’inestricabile commistione esistente tra Trascendente ed immanente allontana immediatamente le suggestioni nietzschiane.

L’essere fluente, quindi, non è altro che il braccio immanente ed orizzontale di una cascata verticale che emana continuamente dal Principio divino.6

Sicuramente bisogna menzionare poi anche la concezione dell’essere di Bergson.

Egli vide infatti l’essere come sostanziale “durata”, e precisamente come il percorso tracciato nel tempo da un’intelligenza creativo-vitale immanente che non cessa mai di cristallizzarsi negli enti determinati, per poi di nuovo oltrepassarli dirigendosi verso nuovi obiettivi creativi.

E ciò ci riporta inevitabilmente anche alla concezione darwiniana della Natura.
Su questa lunghezza d’onda fu senz’altro anche Nietzsche nel concepire l’essere come il prodotto della sola “volontà di potenza” oggettuale.7

L’essere fu infatti per lui unicamente la volontà stessa che si pone in movimento al puro scopo di superare e travolgere ogni possibile ostacolo, impennandosi così come un’onda che poi si abbatte dilagando in maniera inarrestabile, e generando così lo stesso spazio che sussegue.

Insomma anche per Nietzsche l’essere non è altro che un nulla puramente dinamico, e quindi è qualcosa che sta sempre per definizione davanti a noi come qualcosa di totalmente e perennemente nuovo.

Senza mai essere esistito prima che entrasse in moto il nostro atto di volontà.

Naturalmente tale volontà non è poi altro che l’impulso ad affermarsi vitalmente posto in atto da parte di quel soggetto umano che ha ormai superato decisamente sia i freni di qualunque morale (sempre paralizzante) sia le illusioni di qualunque metafisica dell’essere.

Ebbene anche Heidegger non fu molto lontano da tutto questo. Solo che egli scelse di identificare la “temporalità dell’essere” con una dimensione dinamica che trascende il soggetto stesso, non essendo altro che il fondamento più elementare del suo esistere, ossia quella vita che ad un certo punto, fatalmente, cessa di scorrere orizzontalmente per inabissarsi nel gorgo della morte.

Dunque per lui tanto l’essere stesso quanto lo stesso soggetto umano come sostanza (il Dasein, o “esser-ci”) non costituiscono altro che un “essere per la morte” o anche “essere per la fine.8

Ovvero costituiscono qualcosa di unicamente onto-dinamico.

Mi sembra che queste possano venire considerate almeno alcune tra le più rilevanti concezioni filosofiche del tempo. Sebbene io non possa essere per nulla certo del fatto che il mio elenco sia completo.

Vorrei solo fare qualche breve cenno alla concezione buddhista dell’essere, che intanto è divenuta molto in voga anche nella filosofia stessa, specie quella anglosassone.

Il Buddhismo nega recisamente che esista qualcosa come la “sostanza” (vedi diciassettesima lezione), e quindi qualcosa che unifichi luoghi e momenti separati in quanto determinati.

Per cui esso non può in alcun modo ammettere il tempo come essere. Forse nemmeno come essere fluente.

Ed in questo si differenzia quindi perfino da Eraclito.

Il Buddhismo può solo ammettere il tempo come una mera illusione ontologica, anzi forse la maggiore tra le illusioni ontologiche. Esso, infatti, non unisce nemmeno luoghi e momenti, dato che questi ultimi nemmeno esistono (in quanto non esistendo alcuna sostanza, non vi è nemmeno alcun ente).

Ma oltre a ciò (diversamente da quanto sosteneva genialmente Agostino) per il Buddhismo non vi è nemmeno la sostanza animica (ossia il soggetto) che coglie il tempo. E pertanto quella stessa continuità di essere (che il tempo suggerisce spontaneamente alla nostra mente) è qualcosa che meno che mai esiste.

In altre parole, secondo il Buddhismo, parlare della temporalità dell’essere è la stessa cosa che parlare del totale nulla di essere che il mondo immanente è – puro e deteriore prodotto dell’illusione sensibile.

È insomma qualcosa che il soggetto umano non deve far altro che superare e dimenticare allontanandosi così per sempre dal ciclo delle nascite.

Quello che è certo è intanto che tale dottrina non considera assolutamente la possibilità che il tempo immanente venga superato per mezzo del passaggio in un tempo trascendente, ossia nell’eternità. Infatti l’eternità è per esso null’altro che un’inconsistente edulcorazione del concetto di continuità sostanziale, e quindi è quanto meno può esistere. Il fedele del credo buddhista non ambisce pertanto ad altro che ad unirsi al grande Vuoto nel quale per lui ultimamente consiste l’Essere.

Bene. Giunti a questo punto dobbiamo come sempre chiederci cosa di tutto questo può servirci nella nostra esistenza quotidiana di uomini comuni.

Sinceramente mi risulta difficile rispondere a questa domanda. Perché in questo caso gioca un ruolo decisivo l’ideologia per mezzo della quale noi possiamo (o anche non possiamo) filtrare ed interpretare le nostre esperienze.

Ecco che allora vi saranno senz’altro alcuni che preferiranno le concezioni più radicalmente immanentistiche del tempo (come quelle di Bergson, di Heidegger e del Buddhismo).

Alcuni altri preferiranno invece le concezioni più radicalmente trascendentiste del tempo, cioè quelle che negano qualunque realtà al tempo immanente (come quella platonica).

Il problema deve quindi stare esattamente nell’approccio ideologico, con tutto il dogmatismo che esso comporta.

E qui Eckhart può fungere per noi davvero da felice esempio. Il problema è infatti che il tempo è immanente ed insieme sempre anche trascendente. Ma ciò sottolinea non solo una discrepanza bensì anche una continuità. Il che significa poi che il tempo è senz’altro un flusso, ma è anche una stasi.

Ed esso è stasi non solo nei suoi singoli frangenti (luoghi e momenti) bensì anche nella sua Totalità.

Il tempo trascendente gregoriano come “adiastáto” è infatti un’eternità di essere che è blocco temporale proprio in quanto in esso non si muove nulla, e quindi l’oggi e l’ora (il presente) equivalgono perfettamente al sempre, ossia al Tutto. Per questo si dice che qui il tempo è assente. Perché esso non si muove. E non muovendosi non ricollega più nulla.

Nello stesso tempo però esso è meno che mai rappresentato da luoghi-momenti statici che abbiano bisogno di venire ricollegati. Si tratta insomma di una concezione circolare e non più lineare del tempo.

Ecco allora che forse l’uomo comune (cioè tutti noi) potrebbe e dovrebbe essere interessato solo ad una concezione del tempo che sia insieme trascendente ed immanente; cioè sia anche tempo quando sembra solo eternità e sia anche eternità quando sembra solo tempo.

Ciò significa allora che noi partecipiamo dell’eternità anche quando viviamo quella faticosa e spesso estenuante marcia in cui continuamente dobbiamo passare da un luogo-momento all’altro – e spesso in questo siamo gravati da speranze che non poche volte sono altrettanto torturanti quanto lo sono le preoccupazioni.

Dunque in qualche modo noi non siamo consapevoli del fatto che, proprio allorquando con maggiore pena percorriamo questo cammino (agognando il momento in cui potremo finalmente guardare con serenità all’angoscia ed al dolore che ormai ci siamo lasciati alle spalle, e tirando così il famoso sospiro di sollievo), in verità siamo già arrivati dove volevamo arrivare.

E ciò è avvenuto perché, grazie alla costante commistione tra eternità e tempo, il percorso che seguiamo faticosamente passo dopo passo è stato in verità già consumato interamente da qualcosa come la straordinaria ed altissima campata di un vertiginoso ponte.

Deve essere questo ciò a cui si allude in alcuni salmi nei quali si parla del fatto che la vita umana è in realtà un soffio o un battito di ciglia. E ci sono immagini del genere anche nella letteratura religiosa vedica e vedantica.

In questo senso, dunque, sì che il tempo immanente è un’illusione; allo stesso modo in cui lo è lo spazio.

Il che significa che la nostra esistenza si consuma in ambasce senza che vi sia poi un vero motivo per questo. Insomma in qualche modo la nostra esistenza è sempre già compiuta in ciascuno dei suoi attimi.

E dev’essere per questo che (come abbiamo visto nella quattordicesima lezione dedicata alla morte) nell’ultimo attimo della nostra esistenza noi possiamo abbracciare tutto il percorso che abbiamo fatto – perché in verità ciò che sembra esserci stato in realtà non ci è stato affatto (almeno così come ci era sembrato).

In altre parole noi nasciamo, esistiamo e moriamo restando costantemente immersi nell’eternità.

È chiaro che tutto ciò resta una debolissima consolazione nel momento esatto in cui noi siamo impegnati nella fierissima lotta con la serie infinita di momenti che si distendono davanti a noi.

E tuttavia, anche solo il rivolgere il nostro pensiero a tale realtà, può forse aiutarci a non arrenderci troppo facilmente.

Se riflettiamo più a fondo, però, la consolazione è di portata ben maggiore di questa.
Infatti in ogni caso non si tratta nemmeno di questo, né si tratta della magari fatua illusione che potremmo costruirci su ciò che ho appena detto.

Il momento del compimento non è infatti quello in cui noi abbiamo finalmente ottenuto ciò che avevamo desiderato per tutte la vita, annullando in tal modo la discrepanza tra possibile e reale.

Il compimento è invece il momento in cui finalmente possiamo rivolgere il nostro sguardo all’indietro e non più in avanti.

Ma la cosa più importante consiste nel fatto che il nostro sguardo è ormai pacificato, ossia non desidera più.

Esso, insomma, si guarda indietro e contempla l’immensa estensione di quel sentiero dell’esistenza che non aveva mai smesso di serpeggiare tra valli, lungo fiumi e sui fianchi di montagne, che non aveva mai smesso di guadare fiumi e mari, che non aveva mai smesso di saltare abissi.

E vede quindi finalmente che tutto aveva avuto un senso, che tutto aveva puntato verso un unico e solo risultato, ossia verso il compimento.

Il compimento è dunque semplicemente la fine del dipanarsi della linea del tempo.

Non è perciò affatto il momento della soddisfazione del desiderio ma è semmai il contrario. È il momento della cessazione totale del desiderio.

Tuttavia non perché il desiderio sia in sé negativo (come pensano i buddhisti, ritenendo che esso perpetui un insensato attaccamento a enti mondani del tutto illusori). No.

Perché invece il desiderio non è altro che un mezzo e non un fine. Esso è infatti la forza propulsiva vitale e fisiologica (tutt’altro che ingiustificata) che ci fa muovere insieme al tempo. Essa anzi fa sì che noi lasciamo che la linea del tempo ci infilzi come una lancia, portandoci con sé nel suo inarrestabile procedere.

Ecco allora che il nostro sguardo retrospettivo coglie per davvero il tempo come Totalità.

Ma, se ora ci poniamo da un altro punto di vista – quello che ci caratterizza quando non abbiamo ancora raggiunto la fine, e siamo quindi ancora pienamente immersi nel faticoso cammino a tappe del tempo immanente −, potremo finalmente comprendere che la fine (in quanto compimento) è letteralmente implicita in ogni luogo e momento di questo cammino.

Per questo, dunque, quando noi soggiorniamo in ciascuno di questi punti, è come se in qualche modo già fossimo arrivati alla fine.

Ma il momento della fine è quello in cui il movimento del tempo si estingue, e quindi il nostro esistere trapassa decisamente nella dimensione dell’eternità quale assenza di tempo. Ed esattamente quest’ultima è la dimensione in cui sperimentiamo il compimento.

Tutto quello che abbiamo detto significa insomma che tempo ed eternità sono inestricabilmente frammisti, e quindi che tra di essi non vi è in verità alcuna reale discrepanza.

Quando viviamo l’uno, noi viviamo sempre anche l’altro. Dunque, se il momento dell’eternità e del compimento può ben venire considerato anche quello dell’eternità, allora dobbiamo constatare che noi viviamo continuamente la nostra immortalità anche se non lo sappiamo.

E con ciò torniamo alla lezione filosofica platonica – il corpo e la materia sono la causa (in quanto “prigione” e addirittura “tomba”) per la quale la nostra anima immortale è afflitta dalla continua illusione della mortalità, la quale poi altro non è se non la sequenza continua di luoghi e momenti per i quali dobbiamo passare affinché possiamo assolvere al compito esistenziale fondamentale del movimento.

Movimento che avviene appunto attraverso la dimensione del tempo.

Bene.

Anche quella appena esposta potrebbe forse costituire una dottrina della “temporalità dell’essere”. Ma non distruttiva, nichilistica, cupa e mortuaria com’è quella di Heidegger, bensì invece costruttiva, positiva, luminosa e piena di vita.

Non a caso Edith Stein, nel confutare la teoria di Heidegger, oppose alla sua assoluta temporalità dell’essere (in quanto tendere alla morte-fine) il vero e proprio “sfondamento verso l’eternità” che avviene nella nostra vita grazie alla Liberazione donataci dal Cristo morto in Croce.9

Di nuovo, insomma, possiamo ritrovare nella filosofia grandi risorse per poter «ben vivere».

Ma perché sia così dobbiamo prima ripensare criticamente la disciplina, e quindi ristrutturarla e riformarla, eliminandone le parti pleonastiche ed allargando le parti troppo striminzite.

Abbiamo insomma bisogno di una sorta di meta-filosofia. Per poter disporre di questo l’uomo comune ha però bisogno di una guida nei meandri spesso oscurissimi della disciplina. E questa guida non può venire offerta se non da un filosofo.

Un filosofo però che non si sia mai rassegnato ad arrendersi alla congiura esoterico-conventicolare che viene imposta sempre dall’Accademia filosofica ai suoi allievi. Una congiura nella quale si deve promettere di non aprire mai e poi mai all’uomo comune le mura ermeticamente sigillate della Cittadella della Filosofia.

Come ho sostenuto nel mio saggio su questa disciplina, ho sempre ritenuto che il mio compito fosse diametralmente opposto. Ed è esattamente per questo che propongo le mie esposizioni.10

 

 

 

Note

1. Gregorio di Nissa, Sull’anima e la resurrezione, in: I. Ramelli (a cura di), Gregorio di Nissa. Sull’anima e la resurrezione, Bompiani, Milano 2007, I, 6, 40-44 pp. 375-381.

2. Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano, 1976.

3. Agostino di Ippona, Confessioni, Paoline, Sulmona 1949, X, I-XLII, pp. 295- 350, XI-I-XXXI, pp. 353-385.

4. N. Fischer, Selbstsein und Gottsuche, Zur Aufgabe des Denkens in Augustins  Confessiones und Martin Heideggers  Sein und Zeit, in N.Fischer – F.W. von Hermann (Hg), Heidegger und di christliche Tradition, Meiner, Hamburg 2007, pp. 55-90.

5. D. Mieth, Meister Eckhart, München, C.H. Beck, 2014, I, 5 pp. 63-73.

6. V. Nuzzo, Dinamismo e onto-dinamismo, in Ivan Pozzoni (a cura di), Frammenti di filosofia contemporanea, Limina Mentis, Villasanta (MB), Vol. XXI, 2017, p. 163-227.

7. F. Nietzsche, La volontà di potenza, Newton Compton, Milano, 2005, pp.54-88 pp. 50-63.

8. M.Heidegger, Essere e Tempo .. cit., I, II, I, 45-53 pp. 283-324.

9. E. Stein, Martin Heideggers Existenzphilosophie, in Stein, Endliches und ewiges Sein, ESGA 11/12, Herder, Freiburg, Basel, Wien, 2006, pp. 449-457.

10. Cfr.  Nuzzo, Ripensiamo la filosofia, Victrix, Forlì, 2018.

 

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