L'assassinio della memoria storica

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Pubblicato Giovedì, 18 Giugno 2020 17:25
Scritto da Marco Vigna
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Suscitò riprovazione internazionale quasi unanime la decisione dell’allora governo afghano dei Talebani di abbattere le due gigantesche statue del Buddha poste nella valle di Bamiyan, in Afghanistan.

I due colossi erano retaggio del passato preislamico di quella terra, capolavori della scuola Gandhara dell’arte buddista in Asia centrale, che fondeva stili e forme espressive originarie dell’India ed altre provenienti dalla lontana Grecia.

Poste lungo la direttrice principale dell’antichissima via della Seta, scolpite quando nel Mediterraneo esisteva ancora l’impero romano, erano state mute testimoni di una lunga serie di eventi in quel crocevia dell’Eurasia chiamato un tempo Battriana, poi Khorasan, ora noto come Afghanistan, posto al punto d’incontro fra Vicino Oriente, Cina, India, Tibet e l’immenso mondo delle steppe.

Il loro valore culturale, sia artistico, sia storico in senso stretto, era immenso, ma i Talebani furono irremovibili e resistettero ai tentativi di molti paesi ed istituzioni internazionali di salvarle.

Dal punto di vista dei governanti afghani di quegli anni, i Buddha di Bamiyan erano raffigurazioni idolatriche e violavano i precetti religiosi rigoristici in cui credevano, pertanto furono abbattute.

 

Provocarono enorme scandalo ed esecrazione nel mondo anche le devastazioni e distruzioni intenzionali di opere d’arte e reperti archeologici compiute dagli estremisti religiosi e terroristi del cosiddetto Isis, che in anni più recenti fra Iraq e Siria impazzarono sulle venerande reliquie di antiche civiltà del Vicino Oriente.

I membri dell’Isis, giudicati abitualmente da governi e media quali fanatici intolleranti e violenti, ritenevano intollerabile la presenza di “idoli preislamici” e contraria alla loro interpretazione dell’Islam, per cui li fecero a pezzi.

Con apparente contraddizione, all’interno delle società che più condannarono tali vandalismi, quelle occidentali, esistono movimenti che si comportano come i talebani od i terroristi dell’Isis, demolendo o vandalizzando statue e monumenti, richiedendo la censura di opere di cultura od autori, soltanto perché sono ritenuti contrari ai loro “valori”.

L’atteggiamento è sostanzialmente uguale: si vuole distruggere ciò che contrasta con la propria morale.

A prescindere da ogni considerazione etica, questa pretesa di abbattere statue e monumenti in nome di una ideologia, qualunque essa sia, è l'Antistoria per tre ragioni sostanziali.

 In primo luogo, essa disconosce il principio scientifico basilare della distinzione fra giudizio di fatto e giudizio di valore, ossia fra la storiografia quale scienza (chiamata all'oggettività ed all'imparzialità) e le soggettive opinioni, legate a personali convinzioni ideologiche, religiose, politiche, sentimenti etc., che non hanno e non debbono avere nulla in comune con il "fare storia".

Pretendere di giudicare personaggi del passato (od anche del presente), istituzioni, eventi etc. in base a soggettivi criteri "etici" è del tutto arbitrario e non ha niente in comune con la comprensione e la conoscenza della storia.

Per inciso poi i giudizi di fatto sono gli unici verificabili, ossia dimostrabili come veri o falsi, mentre invece i giudizi di valore, proprio per la loro soggettività (tot capita, tot sententiae: «Tante teste, tanti pareri») non lo sono.

Si tratta di una distinzione accolta dalla comunità accademica sin dai tempi di Leopold von Ranke, “Il vecchio maestro”, e di Max Weber, tanto per citare due suoi teorici, ma che si ritrova declinata in vario modo anche nelle scienze naturali.1

Mentre l'importanza storica di Gengis Khan è indiscutibile, quindi egli deve essere studiato e conosciuto, il giudizio etico sul suo operato è del tutto soggettivo e non compete allo storico.

Ergo, in Cina, paese che perse forse la metà dei suoi abitanti a causa dell’invasione mongola, si studia il grande Gengis Khan (uno dei personaggi più straordinari della storia) e vi è anche un mausoleo a lui dedicato.

In secondo luogo, pretendere di giudicare il passato in base ad una ideologia, mentalità, dottrina etc. del presente è anacronistico.

È banale ricordare che ciò che è storico risulta relativo per definizione ed acquista senso, anzi esiste, solo ed unicamente in un contesto determinato e condizionato, per cui può essere compreso esclusivamente tramite una sua contestualizzazione.

È quindi totalmente erroneo, a livello razionale, proiettare caratteristiche di un’epoca od una cultura in un’altra e, peggio ancora, pretendere di giudicarla in riferimento ad esse. Un famoso o famigerato esempio di «fondamentale anacronismo», secondo le parole di Rosario Romeo, è il giudizio di Antonio Gramsci sul Risorgimento.

Il filosofo aveva creato una sua ideologia politica, soggettiva ed ideologica, impiegandola quale unità di misura valoriale per giudicare i personaggi e gli eventi risorgimentali.

Il Romeo, il maggior storico del Risorgimento, confutò pazientemente sia i contenuti sia il metodo antistorico di Gramsci, mostrando che egli non era riuscito a comprendere in che modo si fosse svolta la storia e neppure si era realmente interessato a ciò, assumendo piuttosto una posa da giudice ed arrogandosi il diritto di stabilire, in riferimento alle sue personali opinioni, in che maniera avrebbe dovuto invece svolgersi.2

La medievista Régine Pernoud ricordò che, durante una conversazione in società, quando ella si mise a parlare di Eleonora di Aquitania fu interrotta dall’esclamazione di una persona, la quale disse che quella regina era stata ammirevole per ciò che aveva fatto, in un periodo in cui le donne sarebbero state interessate solo a fare figli.

Pernoud replicò bruscamente che Eleonora di Aquitania di figli ne aveva avuti 10 (dieci) e che non era certo stata costretta a ciò.

L’uditorio, sbalordito, ammutolì.3

Nell’Occidente del XX secolo i rarissimi casi di cannibalismo rintracciati sono attribuibili a maniaci omicidi con patologie psichiatriche.

Tuttavia, la civiltà azteca praticava regolarmente l’antropofagia, su di una scala ineguagliata nella storia umana: malgrado ciò, non si potrebbe assolutamente sostenere che i suoi membri fossero dei maniaci affetti da turbe psichiche, poiché in quella cultura il mangiare carne umana era alla lettera normale ed aveva (se è corretta l’ipotesi di M. Harner) precise motivazioni nutrizionali e socioeconomiche.4

La storia della scienza è anche quella di un immenso cimitero degli elefanti, in cui teorie ed ipotesi di ogni tipo sono state abbandonate perché false, avendo la ricerca scientifica proceduto per tentativi e superando innumerevoli errori di ogni sorta.

Oggigiorno l’astrologia è giudicata dai fisici ed astronomi quale una superstizione ed una chimera, ma fino a pochi secoli fa essa era ritenuta vera e così era stato sin dai tempi dei babilonesi. Keplero e Newton, tanto per citare due nomi, prestavano fiducia all’astrologia, ciò che non inficia minimamente la loro importanza nella storia della scienza, quantunque nel XXI uno scienziato che scriva testi di astrologia sia destinato a destare sospetto o cadere proprio in discredito.5

La fisiognomica è valutata oggi quale una pseudoscienza, ma Cesare Lombroso vi credeva: malgrado ciò, il Lombroso è il padre dell’antropologia criminale ed uno scienziato innovatore, sebbene abbia in certi ambienti una fama sulfurea per un suo razzismo antimeridionale in realtà inesistente.6

Gli esempi possibili di anacronismi si sprecherebbero e sarebbero in numero indefinibile.

L’anacronismo è la negazione stessa del pensiero storico, che si fonda sulla contestualizzazione, così come il suo gemello dell’etnocentrismo lo è del pensiero antropologico, poiché dimostra incomprensione del principio della relatività culturale, cardine dell’antropologia e del suo metodo comparativo.

In terzo luogo, il progetto sottostante a tale operazione di “ripulitura storica” è la cancellazione del passato tramite il suo oblio, pertanto il fine opposto della storiografia, che consiste interamente in una operazione memoriale, di lunga, paziente ricostruzione del passato per conoscerlo e comprenderlo.

Ai distruttori si può attagliare con le dovute differenze una definizione dello storico Yosef Yerushalmi: «Assassini della memoria».

Lo Yerushalmi denunciò la «distorsione deliberata delle testimonianze storiche, l’invenzione di un passato […] Soltanto lo storico […] può realmente montare la guardia contro gli agenti dell’oblio, contro coloro che fanno a brandelli i documenti, contro gli assassini della memoria e i revisori delle enciclopedie».7

Arrogarsi l’autorità d’imporre la distruzione o rimozione (non vi è differenza radicale) di opere culturali, siano esse statue, monumenti, pellicole cinematografiche, testi letterari od altro, in nome della propria ideologia è una vera e propria forma d’uccisione. L’umanità consiste sicuramente in una componente biologica ed in un’altra culturale, fra di loro inestricabilmente connesse.

È noto che i bambini prima di apprendere il linguaggio hanno un quoziente d’intelligenza non superiore a quello degli scimpanzè, per cui senza la cultura in senso antropologico non si può neppure parlare di esseri umani compiuti.

Bruciare libri, demolire opere d’arte, fracassare strumenti musicali, censurare filosofi e poeti, vietare la visione di pellicole cinematografiche, in breve imporre la morte di forme culturali è simile ad uccidere uomini. I due fenomeni storicamente si sono accompagnati fra di loro.

Ad esempio, la cristianizzazione del mondo antico divenne, a partire dal IV secolo d.C., anche forzata e violenta, traducendosi in persecuzioni contro i “pagani” ed in frequenti demolizioni di templi, distruzione di capolavori artistici, arsione di libri e così via.

Una parte rilevante dell’immensa cultura antica andò perduta, per sempre, in questo modo.

Nel Novecento, la “rivoluzione culturale” di Mao-Tse-Tung si propose di sopprimere la cultura tradizionale cinese, i «quattro vecchi» nel linguaggio maoista. Le guardie rosse furono aizzate contro sia gli oppositori (veri o presunti) del progetto maoista, sia la cultura in senso stretto.

Ad un numero imprecisato di vittime (centinaia di migliaia come minimo, forse milioni) si aggiunse la distruzione vandalica d’innumerevoli templi (a migliaia e migliaia), di porcellane, dipinti, strumenti musicali, libri, la devastazione di musei e biblioteche etc.

Lo sterminato patrimonio culturale cinese fu così devastato irrimediabilmente.

Il Tibet, paese occupato dal regime comunista cinese e con una sua identità nazionale specifica in cui la religione era assolutamente centrale, subì la perdita del grosso (secondo alcune stime la quasi totalità) dei suoi templi e monasteri, che custodivano anche la maggior parte del patrimonio librario ed artistico tibetano.

Nel Novecento, in Dalmazia i nazionalisti slavi procedettero insieme alla distruzione dei leoni marciani (eredità e memoria della repubblica di Venezia), alla pulizia etnica degli italiani ed ad una riscrittura falsificatoria della storia mediante la slavizzazione mistificatoria di personaggi italiani, come Marco Polo.8

Ma i casi del genere nell’umana storia sarebbero troppo numerosi per poter anche solo essere elencati.

Invocare e talora ottenere la censura od il taglio di Ovidio (perché reo di descrivere nel suo capolavoro Metamorfosi una scena mitologica di stupro), di Dante (colpevole di aver messo all’inferno gli omosessuali e Maometto nella Divina Commedia), di Shakespeare (accusato di antigiudaismo per Il mercante di Venezia e di misoginia per i suoi personaggi femminili), di Kipling (entusiasta cantore dell’impero britannico) di Heidegger (perché simpatizzante nazista) e mille altri ancora non è diverso dal compilare un Index librorum prohibitorum affidato ad una Santa Inquisizione del politicamente corretto.

Il passo successivo potrebbe essere quello di domandare la distruzione delle loro opere, come si fece con i frequenti roghi di libri nell’era moderna perché giudicati “empi” oppure l’arsione pubblica di libri (Bücherverbrennungen) nel III Reich.

Ai talebani demolitori di statue si potrebbe applicare, parafrasato, il famoso motto di Heinrich Heine: «Là dove si bruciano i libri, si finisce bruciando gli uomini». L’annichilimento fisico e quello culturale dell’umano si accompagnano fra loro e sono assai simili.

La distruzione della cultura, anche nelle sue manifestazioni fisiche come i monumenti (dal latino monumentum con la duplice radice di monere e manere), è quindi l’Antistoria ed un’azione sia irrazionale ed antiscientifica, sia prevaricatoria e violenta, pienamente inquadrabile nell’allucinante ritratto dei regimi totalitari fatto da George Orwell nel suo romanzo distopico 1984, in cui la dittatura del Grande Fratello ha sistematicamente cancellato la memoria del passato e propone ai suoi schiavi una versione di volta in volta differente di ciò che è successo, a seconda dei suoi obiettivi strumentali.

Il totalitarismo del Big Brother rivendica per sé l’autorità di modificare a proprio arbitrio sia il passato quindi ciò che è accaduto, sia le leggi matematiche.

Il romanziere inglese aveva potuto ispirarsi a quanto realmente avveniva in URSS e nel III Reich, con la riscrittura mistificatoria della storia e le cattedre universitarie di chimica o matematica definite “sovietica” o “nazista”. Una barzelletta dell’epoca sovietica riportata dallo storico Hosking suggerisce in forma ironica quale fosse l’utilizzo strumentale e deformante che il regime faceva della storia:

«Si chiede a Radio Armenia: “È possibile prevedere il futuro?” Risposta: “Sì, non è un problema, sappiamo esattamente come sarà il futuro. Il nostro problema è il passato: continua a cambiare”.»9

L’ideologia della correttezza politica ha invaso le società occidentali in ogni ambito e la sua imperativa richiesta di sottoporre a sé ed ai suoi opinabili parametri di giudizio anche le scienze umane, certo la storiografia ma anche l’antropologia, la psicologia etc., minaccia la libertà di pensiero indispensabile alla ricerca scientifica, esponendo gli studiosi alle azioni di gruppi di pressione od anche di interventi politici.

Trent’anni addietro Robert Hughes nel suo celebre La cultura del piagnisteo. La saga del politicamente corretto fece un ritratto feroce, sarcastico e veridico delle storture provocate da questa ideologia, tra gigantesche mistificazioni da una parte, censura e repressione del pensiero dall’altra.

Eppure, il fenomeno della correttezza politica era allora appena ai suoi albori. Poiché i principi ideologici di questo movimento sono recentissimi ed estranei alla quasi totalità della storia umana, l’esito coerente ed ultimo delle sue rivendicazioni sarebbe il fare tabula rasa del passato perché contrario alla sua etica.

È quanto hanno già tentato altre comunità umane in nome di una religione o di una dottrina politica o di teorie di superiorità etnica, giungendo talora al genocidio culturale ed alla cancellazione di intere civiltà.

 

 

Note

1. Cfr. M. Bloch, Apologia della storia o mestiere di storico, Torino, 1969; J. Topolski, Metodologia della  ricerca storica, Bologna, 1975; P. Rossi, La teoria della storiografia oggi, Milano, 1983.

2. Cfr. R. Romeo, Risorgimento e capitalismo, Bari, 1988.

3. Cfr. R. Pernoud, Medioevo, un secolare pregiudizio, Milano, 1983.

4. J. Jentzen, Destructive Hostility. The Jeffrey Dahmer Case. A Psychiatric and Forensic Study of a Serial Killer, in «The American Journal of Forensic Medicine and Pathology», vol. 15, 1994, n. 4, pp. 283-294; M. Harner, The ecological basis for Aztec sacrifice, in «American Ethnologist», n. 4, anno 1977, pp. 117–135.

5. Cfr. I. P. Culianu, Eros et magie à la Renaissance. 1484, Paris ,1992.

6. Cfr. M. T. Milicia, Lombroso e il brigante. Storia di un cranio conteso, Salerno Editrice, Roma, 2014.

7.Cfr. P. Rossi, Il passato, la memoria, l’oblio, Bologna, 1991.

8. Cfr. P. Romeo di Colloredo Mels, Confine orientale. Italiani e slavi sull’Amarissimo dal Risorgimento all’Esodo, Massa, 2020.

9. Cfr. G. A. Hosking, Memory in totalitarian society. The case of the Soviet Union, in T. Butler (a cura di), Memory, Oxford, 1988.