Covid19 e natura della scienza
La richiesta è poi stata ribadita, per quanto in modo più velato, da altri esponenti del mondo politico e dai conduttori degli innumerevoli talk show che in questo periodo si occupano dei danni causati dal virus. Non dobbiamo affatto meravigliarci, giacché ministro, politici e conduttori televisivi hanno, della scienza, una visione molto simile a quella dell’uomo della strada. Si pensa, in altri termini, che la scienza stessa costituisca il paradigma del sapere e, in quanto tale, sia in grado di fornirci in tempi rapidissimi, hic et nunc, soluzioni definitive ogni volta che problemi gravi colpiscono l’umanità. Invece i cittadini hanno visto i virologi, che in questo caso dovrebbero essere le massime autorità in materia, litigare un giorno sì e l’altro pure a proposito delle strategie più adatte a contenere la diffusione dell’epidemia. E litigare anche sui rimedi più comunemente accettati. Siamo tutti davvero convinti che le mascherine evitino il contagio? E qualcuno ha dimostrato in modo incontrovertibile che il virus si attacca alle superfici, giustificando così le sanificazioni continue che alcuni, infatti, giudicano inefficaci o addirittura dannose? Navighiamo insomma in un mare percorso da grandi interrogativi, dove le certezze sono pochissime e i dubbi, invece, tanti. A ciò aggiungiamo che i politici, in emergenze come l’attuale, vanno spesso in affanno perché debbono rendere conto agli elettori delle decisioni che assumono.
E neppure circondandosi di comitati di esperti (o presunti tali) riescono ad adottare strategie che l’intera opinione pubblica possa condividere. Per capire quanto sta accadendo in questi mesi, è allora opportuno rammentare che vi sono due concezioni di scienza in ballo. L’una è la Scienza assoluta (con la “S” maiuscola), quella immaginata dall’uomo comune che, affascinato dal progresso e dalle conquiste che le varie scienze sono state in grado di conseguire negli ultimi secoli, pensa che il cammino scientifico sia tutto sommato facile se vengono garantiti fondi adeguati per condurre le ricerche. Dalla Scienza ci si attende subito il successo poiché essa, basandosi su una metodologia standard e condivisa, è in grado di ottenere i risultati voluti in men che non si dica. Positivisti e neopositivisti hanno fatto a gara per diffondere questa immagine rassicurante e, quando si comprende che essa non è giustificata, si rischia addirittura che il pubblico finisca per privilegiare una visione anti-scientifica del mondo. Ma esiste pure una scienza (con la “s” minuscola) nella quale prevale l’umiltà di chi la pratica, in base alla consapevolezza che gli esseri umani, a causa dei loro limiti cognitivi, raggiungono dei risultati solo con grande fatica e senza poter ricorrere a un metodo standard, pressoché automatico, in grado di farci conseguire gli obiettivi voluti senza molti sforzi. Spesso, insomma, il metodo va re-inventato, e ciò accade quando gli scienziati sanno poco o niente dell’oggetto di studio, come è il caso per il coronavirus. Ed è sulle spalle di questa scienza conscia dei propri limiti che ricade il peso delle scoperte e della soluzione dei problemi. Perché, lo si rammenti, non sono solo i virologi a litigare tra loro. Anche i fisici, i chimici, i geologi, i vulcanologi etc. propongono teorie in competizione e, attraverso la procedura detta “per congetture e confutazioni”, codificata da Karl R. Popper, arrivano infine a concordare circa la teoria giusta. Ci vuole però tempo, sforzo e pazienza per arrivare al risultato. Il vaccino per il nuovo virus alla fine si troverà, ma è inutile mettere fretta ai ricercatori perché questo è il modo più sicuro per garantire l’insuccesso. E’ ovvio che politici e giornalisti abbiano fretta di placare l’inquietudine dei cittadini, che può rapidamente trasformarsi in panico. Tuttavia la strada della scienza e quella della politica non coincidono, giacché la prima è il vero specchio della nostra condizione di esseri limitati e contingenti.
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