Gli Anziani
L’idea che ci si fa degli anziani sembra invecchiata assai più di loro: persone curve, dal passo corto e febbrile, che non vedono l’ora di sedersi accanto al fuoco con un gatto sulle ginocchia. Ho amici di 94, 95, 96 anni; non riconosco né me né loro in queste figure. Anche quando non se la passano bene, la loro conversazione, il loro giudizio, la loro aderenza alla vita sono pieni di energia. Una di loro, che va per i 91, durante la quarantena ha organizzato dibattiti politici, alle sei si trucca per un aperitivo virtuale e alle venti incontra la famiglia sparsa per l’Europa. In realtà sto parlando di anziane, più che di anziani, perché gli uomini, si sa, sono più fragili. Non parlo nemmeno di settantacinquenni, attive nella vita e nel sesso, o addirittura di sessantacinquenni che vedo splendere nel fiore dell’età. Come sappiamo, le età si sono spostate in avanti. Dopo un’infanzia interminabile sopraggiunge una tardiva e litigiosa maturità, e finalmente lunghi anni sorretti dall’invenzione e dalla pazienza. Sì, pazienza, perché i vecchi, o meglio le vecchie, sono malandate; le vite si prolungano spesso nella malattia.
Ma come certe piante che sbucano dai muri, le radici strette fra i sassi, e si gettano in avanti, spericolate, a cercare il sole, così anche loro stirano il corpo verso la luce e la bellezza, non solo per goderne ma per produrla, perché la bellezza ha bisogno, più che di gioventù, di maestria, e dell’eleganza profonda che nasce spesso dal tempo e dalla conoscenza del vuoto. Senza gli anziani saremmo circoscritti all’informità della giovinezza, alla sua spensierata noncuranza, ai suoi dolori e piaceri bruschi, ai suoi incanti fragili, ai suoi maestrali... Un mondo effervescente, ma corto. Perché allora questo virus ha rivelato nei confronti della vecchiaia tanta incuranza e tanta crudeltà? Perché fin dal principio è stato detto ai vecchi che la loro vita era meno importante di quella dei giovani e quindi non sarebbero stati ricoverati e nemmeno propriamente curati, ma lasciati morire in solitudine (i vecchi, se non sono curati, tendono a morire), e poi bruciati e buttati non si sa dove? Supponendo che fosse una misura inevitabile, bisognava proprio dirglielo? E ora che si vede un po’ di luce all’orizzonte, perché insistere per farli uscire il più tardi possibile, ormai incanutiti (chi glielo fa il colore?), come se la loro vita si riducesse ormai a una pura, fastidiosa sopravvivenza? Come se non avessero bisogno d’ingegnarsi e illudersi come tutti, per riconoscere la loro giornata? Si parla addirittura di non lasciarli proprio più uscire questi anziani, per proteggerli a tutti i costi dalla vita da cui sono stati espropriati. Pare che il virus non sia tanto una vendetta divina, come qualcuno dice, quanto una vendetta animale per aver invaso spietatamente il loro territorio. Che sia proprio l’incapacità di percepire e rispettare la sensibilità del vivente, a far sì che animali e vecchi siano gli uni l’origine, gli altri l’epilogo dell’epidemia? E possiamo aspettarci da un momento all’altro un battaglione di anziane nelle città vuote, a diffondere il terribile virus del buon senso?
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