Giuseppe M. Capece Zurlo, l’esilio dell’innocenza
Nato da famiglia patrizia a Monteroni di Puglia nel 1711 e morto in esilio a Montevergine il 31 dicembre 1831, Giuseppe Maria Capece Zurlo fu vescovo di Calvi dal 1756 al 1782, allorché fu nominato Arcivescovo di Napoli. A dodici anni era entrato nel noviziato napoletano dei SS. Apostoli e il 6 gennaio 1727 aveva preso i voti nella chiesa di San Paolo. Da allora poté dedicarsi allo studio della filosofia e della teologia speculativa, fino al ‘33 quando fu ordinato sacerdote e destinato alla Chiesa dei SS. Apostoli di Napoli. Nel 1741 l’Arcivescovo Giuseppe Spinelli lo scelse per ricoprire la carica di consultore del Sant’Ufficio napoletano. Nello stesso anno fu anche incaricato di sostituire il confratello Andrea Rossi, nominato vescovo, nell’opera svolta dai confratelli dei Bianchi della Giustizia. L’anno successivo fu Superiore della Casa di Sant’Eligio di Capua che gli valse la partecipazione al Capitolo Generale di Roma del 1743. Nel successivo Capitolo del 1747 gli fu conferita la nomina di Procuratore Generale per gli Affari con la Santa Sede e per le Cause dei Santi. Se ne occupò con passione e competenza, applicandosi nel delicato ruolo fino a quando nel Capitolo del 1756 fu destinato alla Diocesi di Calvi.
Scelto dal re Ferdinando IV e preconizzato da Benedetto XIV, Giuseppe Maria Capece Zurlo fu cnominato vescovo a Roma nella Chiesa di S. Silvestro al Quirinale, dal cardinale Giuseppe Spinelli, assistito da Domenico Giordani, arcivescovo titolare di Nicomedia, e da Giovanni Battista Bortoli, vescovo di Feltre. Le notizie più complete relative al suo episcopato caleno furono raccolte nelle opere di Antonio Ricca, Osservazioni del Barone Antonio Ricca sull’antica Calvi sulle risposte del signor Zona, Napoli, 1823, e di Antonio Trama nel profilo apparso su Le Scienze e La Fede. Il Ricca mise in risalto la capacità governativa del vescovo, mentre il Trama lo difese fondamentalmente dalla “damnatio memoriae” messa in atto dai Borbone per il suo atteggiamento favorevole alla Repubblica Napoletana del 1799. Il Ricca sottolineò i benefici ottenuti dalla diocesi di Calvi durante i 27 anni nel suo vescovado «e tutti a un sol fine diretti, cioè al servizio della Chiesa, alla cura spirituale delle anime, e ad accrescere il lustro e splendore della Diocesi», soffermandosi ad analizzare le azioni di conservazione e restauro dei beni artistici della cattedrale quali la ristrutturazione del succorpo nel 1762, della pavimentazione nel 1778, del rinnovo completo della sacrestia nel 1779, della ritrattistica a fresco dei vescovi della diocesi commissionata al pittore Angelo Mozzilli discepolo di Paolo de Majo. Inoltre il vescovo fece costruire anche l’episcopio in Pignataro. «Ma niuna delle cure del nostro eccelso Pastore superò mai la sua attenzione quanto l’assiduo e costante zelo impiegato nelle visite annuali della Chiesa Diocesane, e nell’assistenza prestata al Seminario in tutto ciò che per l’esatto regolamento, e per la buona disciplina faceva mestieri. Ed in modo particolare giudicò quest’ultima di tanta importanza, che o la rigida stagione dell’inverno, o i più forti calori della state non poterono giammai frastornarlo, che almeno più volte in ogni settimana si portasse a visitare le scuole; tanto era l’ardore che mostrò per l’educazione della gioventù». Il Ricca ricordò, quindi, l’incarico affidato dal Zurlo al canonico Agostino Fusco di scrivere le Memorie storiche e civili e sacre di Calvi, smarrite durante l’episcopato del successore mons. Andrea De Lucia. Il vescovo venne, altresì, descritto dal Ricca come strenuo difensore dei diritti della Chiesa locale, ricordando una forte contesa che lo vide protagonista contro i comuni di Pignataro e Calvi per l’erezione di un ospizio estivo per i seminaristi. Antonio Trama, invece, pose l’accento sulla «sua singolar mansuetudine, la profondissima liberalità, la straordinaria umiltà e la frugalissima vita […] L’accesissimo zelo pastorale, che il consumava faceva sì ch’è fosse il soccorritore dei poveri, il sostegno dei buoni e la guida dei miseri traviati, perché ritornassero sul retto sentiero». Lo studioso napoletano tenne a mettere in luce il rapporto di sinergia tra Zurlo con l’arcivescovo di Capua, Michele Maria Capece Galeota suo metropolita che, conosciuta la somma prudenza del vescovo nell’amministrazione degli affari, lo volle consigliere fidatissimo di quella che era una vasta provincia ecclesiastica. Il Trama descrisse anche l’incontro del vescovo con il re di Napoli in occasione di una tempesta, da cui Ferdinando IV di Borbone era stato sorpreso e che per scamparvi aveva trovato riparo nella Cattedrale di Calvi. Fu allora che Zurlo approfondì la conoscenza del sovrano durante un “frugale pasto”. Al di là dei pur ampi cenni biografici dei due autori, il governo episcopale di Mons. Zurlo è documentato nelle relationes ad limina, dei resoconti che i vescovi erano tenuti ad inviare periodicamente al Papa. La finalità delle relazioni era tesa a rappresentare una florida azione di governo di quella Diocesi, cosa che ha limitato una oggettiva considerazione da parte della storiografia. Ciononostante quella del 1759 si mostrò la più attendibile. Zurlo ricordava al Papa l’antico splendore della città di Calvi, confrontandola con l’attuale decadenza, rivelando di essere impossibilitato a risalire alle origini storiche della diocesi, nonostante risultassero diffuse le indicazioni di una fondazione apostolica. Veniva ben illustrata la cattedrale dedicata a San Casto e alla Vergine, come anche una precisa e puntuale elencazione del numero dei canonici. Pur essendo convinto di un’opportunità offerta da un sinodo diocesano, il vescovo non lo aveva riunito, preferendo confermare i decreti dei due sinodi precedenti: quello di Mons. Fabio Maranta del 1558 e quello di Vincenzo Maria de Sylva del 1680. In relazione alla cura delle anime, Zurlo annotava che tutto procedeva bene. Solo Sparanise sembrava in difficoltà. In tutte le diocesi, in ogni caso, i parroci provvedevano personalmente alla predicazione e alla catechesi, grazie anche all’aiuto dei chierici minori. Era necessario però porre attenzione ai costumi del clero definiti mediocri, e ai vari abusi della popolazione. Venivano pertanto ricordate le opere messe in atto per correre ai ripari, non escluso il ricorso al braccio secolare. Zurlo particolareggiò la formazione delle giovani leve teatine, per la cui formazione profuse un grande impegno quando fu consacrato Arcivescovo di Napoli. Le relationes concludevano con un rituale atto di piena obbedienza alla congregazione romana, la Concistorale, a cui era inviata. Le ricostruzioni biografiche degli storici ottocenteschi e le fonti vaticane hanno consegnato alla storia l’immagine di un vescovo religioso, devoto e particolarmente attento alla cura e alla formazione del clero. Non sfugge, tuttavia, soprattutto nella relatio programmatica del 1759, una certa propensione all’esteriorità. Durante la sua permanenza a Calvi, nonostante l’intenzione di riformare col sinodo la chiesa locale, Zurlo non riuscì a realizzare delle riforme capaci di modificare lo status della diocesi, pur denunciando alcuni segni di crisi in rapporto ai costumi del clero, agli abusi della popolazione locale e alle forme di violenza presenti nella comunità diocesana. Nel 1782 arrivò la nomina per l’arcivescovado di Napoli, vacante dopo la morte di Serafino Filangieri. Col titolo di S. Bernardo alle Terme Zurlo fu nominato Cardinale. Del suo operato in porpora nella sede napoletana restano in archivio i documenti di tre visite pastorali condotte nel 1783, ‘91 e ‘94, l’erezione della nuova parrocchia di Santa Maria delle Grazie nel 1792, la stesura di un catechismo per i rurali e gli scritti per la formazione del clero. Quest’ultimo operato si relazionava a quanto aveva già fatto nella diocesi di Calvi, ma Napoli ovviamente costituiva una centro di assoluta importanza per la formazione-selezione del clero meridionale. Nella Biblioteca Nazionale di Napoli sono raccolte quasi tutte le lettere pastorali dei cardinali attraverso le quali veniva esposto al popolo e al clero il loro pensiero. In quelle di Zurlo ricorreva la necessità della penitenza, originata dalla constatazione del peccato, l’indifferenza religiosa del presente in contrasto con i tempi eroici del cristianesimo, la bontà del messaggio evangelico per gli infelici e la speranza della Resurrezione. «In apparenza, scriveva Zurlo, la condizione del malvagio sarebbe preferibile a quella dell’uom da bene», in un contesto terreno più confacente al vizio e al delitto, ma il cristiano è chiamato a «conformarsi con Gesù Cristo mortificato e Crocifisso, per aver parte col medesimo risorto e glorificato.» Il cardinale invitava i fedeli ad uscire dall’individualismo e dalla concezione utilitaristica della società: «L’Uomo, per quanto sia di genere liberale, ed onesto, ha non di rado la debolezza di anteporre i suoi anche più picciol’interessi ai più grandi del suo Fratello […] Le nobilissime disposizioni di spirito non sono ordinate e comuni: la moltitudine senza motivi efficaci di vantaggio privato riguarda un bisogno pubblico con indifferenza». Oltre alle problematiche della Fede, Zurlo si interessò anche all’Anfiteatro di Calvi, offrendo un suo contributo alla ricerca storica sul nome dato al terreno che a suo avviso non aveva alcun collegamento con il Circo tipico rinomato presso i Romani. Per lui si trattava di un Anfiteatro dalla forma “ovata” e non “rotonda”. «L’anfiteatro che esiste – scriveva - è di forma ovata come sono quasi tutti quelli che dagli antichi furono eretti e da noi diroccati». Pertanto rimprovera «all’ingordo colono» il mancato rispetto delle preziose testimonianze storiche dell’Antica Cales. Zurlo scriveva queste osservazioni nel 1792: «Si osservano ancora perfettamente i sedili e questi come in somiglianti edifizi si scorge sono in tre parti, cioé nell’ima, nella media e nella somma egregiamente divisi. L’ima, in cui sedevano personaggi d’alto maneggio, era di fabbrica più che magnifica che non erano le altre e, se tra queste si scorge ancora qualche piccola differenza nel lavoro non deve cercar meraviglia sapendosi molto bene che la parte media era in maggior pregio che non era la somma.» Inoltre invitava ad osservare due delle porte aditus, ricordando che in passato esse erano adornate da due bellissime statue, quella di Marte e quella riconducibile a Diana che raffigurava una donna cinta d’arco e faretra che teneva sotto i piedi un animale, da alcuni considerato un leone e da altri un cane. «Ambedue erano negli anfiteatri con maggior culto adorati; mentre la dea Diana presedeva, come gli antichi credevano, a quella ludica caccia che con le fiere negli anfiteatri facevansi, il guerriero Marte presedeva alla pugna de’ gladiatori che ivi pur anco attaccavasi.» Nell’anfiteatro dell’Antica Cales, secondo la ricostruzione di Zurlo, si ricorreva alle bestie feroci nel combattimento, dato che «dappresso alla fabbrica vi era ancora il catabulo ove queste fiere si tenevano serrate, anzi mi asseriscono persone degne di fede di aver ritrovato qui dappresso certi sotterranei per li quali si stima che fusse andata l’acqua alle fiere che stavano nel catubulo chiuse.» Il cardinale concludeva ricordando che nell’anfiteatro erano allora ben visibili diversi frantumi di mosaico che adornavano i sedili dei magistrati maggiori. Aveva già alle spalle ben diciassette anni come Arcivescovo di Napoli quando alla veneranda età di ottantanove anni Zurlo si trovò a vivere i sei rivoluzionari mesi della Repubblica Napoletana. Nell’esercizio delle sue funzioni, il cardinale era allora assistito da Gaetano Vitolo, vescovo titolare di Comana, ma poco si conosce delle condizioni di salute, in relazione sia alla capacità di tenere autonomamente le redini del governo curiale che sulla dose di influenza esercitata dai suoi collaboratori. Le tumultuose vicende del 1799 non potevano non coinvolgere in prima persona l’arcivescovo di Napoli, ma il suo operato ha visto due differenti chiavi di lettura. Nell’ambito clericale borbonico il cardinale fu definito una persona debole, incapace di fronteggiare adeguatamente gli avvenimenti. Dalla parte opposta la sua adesione consapevole alla Repubblica ha lasciato una prova inconfutabile nella lettera Pastorale Repubblicana sulla Libertà e sull’Uguaglianza. Sulla questione i primi hanno ritenuto che, data l’età e il tenore degli scritti precedenti, l’Arcivescovo Zurlo abbia solo firmato la Pastorale e che essa sia stata invece opera di Vincenzo Troise di Gravina, giansenista e cattedratico. Faceva sorgere dei dubbi una conversione così rapida agli ideali repubblicani da parte dell’Arcivescovo di Napoli, pur se il sangue di San Gennaro si era sciolto davanti al generale francese Championnet, dando un segnale di accondiscendenza da parte del patrono di Napoli, un miracolo convincente che fece breccia sul popolo. Anche in campo laico la figura di Zurlo nella breve esperienza repubblicana è stata in varia misura valutata. Per la Regina Maria Carolina il vetusto cardinale era oramai uno “scimunito”; e pertanto fu “graziato” con un esilio da scontare nell’eremo di Montevergine fino alla morte. Dai patrioti repubblicani Zurlo fu considerato il pastore saggio e intelligente, aperto alle idee moderne, forse sottovalutando il suo conflitto interiore. In tale contesto si colloca la famosa lettera pastorale del 13 marzo 1799, in cui veniva espressa la necessità di un nuovo ordine democratico basato sui principi basilari di libertà e uguaglianza. Intorno al cardinale gravitavano da una parte ecclesiastici avversi al nuovo Governo che tramavano per un decisa condanna delle idee repubblicane, dall’altra sacerdoti riformisti che avevano accolto e diffondevano i nuovi principi democratici. La famosa lettera Pastorale era impregnata dei principi rivoluzionari di Libertà e Uguaglianza che qui venivano proposti nella forma catechistica tipica dei documenti pastorali. «Per libertà s’intende il diritto proprio naturale di ogni cittadino, di poter fare tutto ciò che non è vietato dalla legge, diritto in tutto analogo a quello che, come credenti in Gesù Cristo, voi avete in rapporto alla Religione che professate». Il testo continuava con un invito a far proprio il principio di libertà: «Fissatevi questa idea della libertà, voi tosto che vedrete che se per essa voi siete sciolti da ogni giogo di despotismo, di tirannia e di oppressione.» Nel prosieguo si sottolineava la necessità di coniugare il bene della libertà con il rispetto della legge quale contratto tra i cittadini di ogni classe sociale al fine del bene comune. Bene esplicitato veniva altresì il concetto di “Uguaglianza” che «abolendosi i titoli vani e fastosi, che con sì grande distanza separavano il ricco dal povero, ogni individuo venga considerato col solo aspetto di uomo della Nazione, e siasi al pari ad ogni altro nel diritto di aspirare agli impieghi co’ suoi talenti e di essere premiato per le sue lodevoli azioni e così fugare interamente la parzialità o le protezioni[…].» Tutte le distinzioni che avevano differenziato fino al allora gli uomini per classi sociali, scomparivano nel nuovo Governo in cui ogni persona era un cittadino con pari diritti. In altre parole i principi di Libertà e Uguaglianza si accordavano con gli stessi principi evangelici. Dopo la sconfitta della Repubblica, con una lettera datata 21 giugno 1799, inviata dalla Regina a Fabrizio Ruffo, iniziava il periodo che avrebbe condotto l’anziano cardinale ad un ingiusto esilio a Montevergine. Ma la regina era stata irremovibile, ritenendo «la cacciata dell’arcivescovo Giuseppe Maria Capece Zurlo una delle prime necessarie operazioni» da compiere a restaurazione avvenuta. Scrive il Trama: «ritornati dopo cinque mesi e poco più i Borboni sul trono di Napoli, quei ministri ostili alla Chiesa e ai suoi Pastori […] gli misero in mala voce il Napolitano Arcivescovo, ed ottennero che venisse strappato all’amore del suo gregge.» In realtà la considerazione del Trama era erronea in quanto, oltre alla decisione della Regina, aveva influito quella di Pio VI, che aveva dichiarato “sciocco” l’arcivescovo di Napoli che tempo prima gli aveva presentato una richiesta di divorzio per il duca di Maddaloni. Ovviamente fu una richiesta mai accordata. Più vicine al vero sono state le considerazioni del contemporaneo Carlo De Nicola che nel suo Diario, scrisse: «La verità è che nel tempo della Repubblica ha mostrato molta debolezza. Si ricorda l’aver autorizzato le armi francesi con l’ordinare il triduo, con l’espressione che il Signore le aveva autorizzate, colla liquefazione estraordinaria del sangue di S. Gennaro. Le pastorali fatte, le cartelle della comunione colla iscrizione “libertà ed uguaglianza”, la lettera circolare con cui autorizzava di essersi il cardinale Ruffo dichiarato Pontefice, e simili cose che gli facevano fare e dire, ch’egli poteva benissimo ricusare di fatto.» Il 5 agosto 1799, l’Arcivescovo partì per il suo ritiro in Loreto presso Montevergine insieme a quattro canonici, anche loro condannati all’esilio: Rossi, Vitolo, Vinaccia e Ruggiero. La sua condizione di esule si fece pesantemente sentire nel dicembre 1799, quando gli fu vietata la partecipazione al conclave per il successore di Pio VII, e nel frattempo erano iniziate le manovre per la sua successione nella diocesi di Napoli. Il suo esilio si concluse con la morte sopravvenuta il 31 dicembre 1801. I funerali furono celebrati a Napoli senza pompa alcuna. Il Diario dei Cerimonieri di Corte riportò laconicamente la notizia: «Ai primi di gennaio perviene a Napoli la notizia della morte del card. Capece Zurlo, deceduto e sepolto a Loreto di Montevergine.» Solo nel 1806 al ritorno dei Francesi nel Regno, la salma del Cardinale fu trasportata nel duomo con solenni onoranze.
Bibliografia: C. De Nicola , Diario Napoletano, 1798-1825, Regina ed. Napoli, 1999. G. M. Capece Zurlo, Notizie istoriche intorno alle città di Calvi e Sparanise, 1792. AAVV, Il cittadino ecclesiastico, Vivarium, Napoli, 2000.
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