Il popolo Falasha tra passato e presente
Nel quadro delle grandi esplorazioni geografiche, l’Africa ha cominciato ad assumere un ruolo significativo solo a partire dal XVI secolo, dopo che era già avvenuta gran parte della colonizzazione delle coste del Nuovo Mondo ad opera delle potenze europee.1 Il continente africano sino a quel momento era rimasto pressoché sconosciuto, eccezion fatta per la regione a nord del Sahara, dove l’espansionismo arabo-musulmano del VII secolo aveva determinato la creazione di numerosi califfati e l’asservimento delle popolazioni della Somalia, del Mozambico e del Sudan con relativa tratta dei neri, conclusa ufficialmente nel XX secolo.2 L’interno del continente rimaneva inesplorato a causa delle difficoltà di addentrarsi nelle immense foreste pluviali e nelle sconfinate savane, infestate da pericoli di ogni genere. Tra i primi esploratori dell’Africa si annovera il missionario portoghese Antonio Fernandez che giunse nelle contrade a sud dello Scioa, nell’Abissinia meridionale (1613), Gerolamo Lobo nell’Abissinia(1625), Giovanni Antonio Gavazzi che penetrò sino al Congo (1654/91) e il francese Poncet e P. Saverio di Benevento che giunsero in Abissinia attraverso la Nubia e il Sanaar (1698). Bisognerà però aspettare quasi un altro secolo per avere le prime notizie su quello che ha costituito, sino ai giorni nostri, il quesito geografico più appassionante di tutti i tempi: la scoperta delle sorgenti del Nilo.
Alla fine del 1769 James Bruce, originario della contea di Stirling in Scozia, all’età di 39 anni3, partendo dal Cairo, intraprese un viaggio che lo condusse in Etiopia, sino a quelle che erroneamente ritenne le sorgenti del Nilo (di fatto erano le sorgenti del Nilo Azzurro).4 Dopo quattro anni trascorsi in Abissinia tornò in Egitto attraverso la Nubia, rientrando in patria nel 1773. Le memorie dei suoi viaggi, raccolte in cinque volumi, vennero alla luce nel 1790.5 Per la prima volta, attraverso gli scritti e la testimonianza di Bruce, il mondo apprese la sorprendente notizia che sulle alture inaccessibili dell’Abissinia viveva un popolo dalla pelle scura, i Falasha, che conservava il culto e le usanze degli israeliti. Bruce racconta che «i Falasha sono un altro popolo dell’Abissinia, con una lingua e tradizioni proprie. Sono ebrei e il racconto che danno della loro origine è che venivano da Gerusalemme insieme a Menelik, figlio di Salomone e della regina di Saba».6 Il mondo scientifico dell’epoca considerò la notizia inverosimile e frutto di una illusione del viaggiatore, così la vicenda fu dimenticata sino a quando, agli inizi del XIX secolo, l’esploratore irlandese Antoine Thomson D’Abbadie (1810-1897) e nel 1868 Joseph Haley, professore alla Sorbona, percorsero l’Abissinia ritornando con notizie più dettagliate.7 Solo agli inizi del XX secolo, tuttavia, un giovane professore uscito dalla scuola di Haley, Jacques (Ya'acov) Faitlovitch (1881–1955), provvisto di commendatizie del governo italiano (L’Eritrea era colonia italiana) e sotto gli auspici del barone Gustavo Rothschild, si recò in Abissinia (1904/1905) e fece maggior lume sulla vicenda, anche mediante la pubblicazione a Parigi, nel 1905, di una relazione scritta edita da Ernest Leroux.8 Non solo, ma condusse con sé in Europa due giovani Falashas uno dei quali, insieme allo stesso Faitlovitch, fu ospite per alcuni giorni in casa di Raffaele Ottolenghi, noto intellettuale e diplomatico italiano, di cui La Critica Sociale pubblicò, nel Giugno del 1917, la necrologia a firma di Filippo Turati. Nella narrazione di Ottolenghi, che riporta il racconto ricevuto dal suo illustre ospite, il governo militare italiano aveva seminato in Abissinia odii difficilmente estinguibili ma, in contrasto con il fosco quadro dipinto, i Falasha costituivano una vera aristocrazia del lavoro, essendo per lo più «tessitori, fabbri, muratori e lavoratori in terraglie.Lavoravano con metodi primitivi, ma, per quei paesi, sufficienti … Un tempo erano anche distinti coltivatori delle loro terre: ma poi furono espropriati e devono ora lavorare pei Ras».9 Al contrario, gli abissini «non fanno assolutamente niente più del pochissimo necessario per vivere: ben sapendo che il primo Ras da strapazzo porta via tutto. Essi grattano quel po’ il terreno, per trarne quello che è assolutamente indispensabile: due legumi, un po’ di durah, ecc.» Quel popolo conservava molti usi somiglianti alle tradizioni ebraiche quali la circoncisione e il divieto delle carni soffocate e del sangue, osservavano il sabato e le consuete festività giudaiche, il digiuno del Kippur, le leggi della purificazione. Ignoravano però del tutto la lingua ebraica e i volumi della religione avita erano scritti nella lingua semitica ghez, affine e quella ebraica, svolgentesi però da sinistra a destra. La donna assumeva una posizione alta e nobile e non praticavano, contrariamente agli abissini, né la poligamia né il concubinaggio. Ovviamente la tracotanza del mondo cattolico, per mano soprattutto gesuitica, tentò anche in quei luoghi e a più riprese la via della conversione forzosa, talora imposta per decreto, sotto pena di morte. In Italia, che pure aveva occupato quelle terre, nessuno si interessò mai dell’argomento Falasha ma, nel 1913, lo stesso Ottolenghi riprese l’argomento sulle pagine della Nuova Antologia, mediante un articolo di tutto respiro intitolato I Falasha.10 Nell’articolo dà notizia che il Faitlovitch aveva da poco (1907/1908) compiuto un secondo viaggio in Abissinia, che ne aveva pubblicato una distesa narrazione in un libro edito a Berlino e che era sul punto di ripartire per l’eritrea per fondarvi la prima scuola Falasha-Italiana.11 Scandisce poi, ancora una volta, parole di elogio per la laboriosità di quel popolo: «I Falasha sono i soli operai dell’Abissinia: i soli che abbiano volontà di lavorare. L’Abissino è guerriero, o ladrone: il Falasha è muratore, fabbro, armaiolo, tessitore e agricoltore».12 Circa la scuola che s’intendeva fondare all’Asmara, riferisce che «il comm. Agnesa v’è molto favorevole. Ma poiché si tratta di ebrei, il Governo non offre sussidio pecuniario. L’uguaglianza di trattamento colle scuole salesiane si arresta a questo limitare!».13 Mi torna in mente l’antica storielle del vecchio ebreo che su un tram di New York incontra un nero intento a leggere una rivista ebraica. Al che il vecchio: giovanotto, non le basta di essere nero? Raffaele Ottolenghi, anima nobile della cultura e della società italiana, di elevatissimi valori morali, sensibile e solitario nelle abitudini, disilluso dalle bruttezze della vita, morì suicida il 10 giugno 1917, all’età di 57 anni, quando la carneficina del XX secolo era appena incominciata. L’origine del popolo Falasha viene fatta risalire dalla tradizione di quel popolo ai tempi di Salomone, Re di Israele, il cui regno è datato dal 1001 al 931 a.C., al quale fece visita la regina di Sheba (o Seba), identificata con l’odierna Etiopia. Le uniche cronache di quella visita sono contenute nella Bibbia, primo libro dei Re, capitolo 10, versi 1 a 13 e secondo libro delle Cronache, capitolo 9, versi da 1 a 12. Da quei passi non emerge alcun rapporto intimo tra i due sovrani, tantomeno la nascita di qualche figlio e neppure per quanto tempo la sovrana di Sheba si trattenne a Gerusalemme. La storicità della visita della Regina del Mezzodì a Gerusalemme è testimoniata anche da Gesù nei Vangeli, laddove è scritto che essa «risusciterà nel giudizio con gli uomini di questa generazione e li condannerà; perché ella venne dalle estremità della terra per udir la sapienza di Salomone; ed ecco qui v’è più che Salomone».14 Tra gli avvenimenti narrati dalla Bibbia e la scoperta del popolo Falasha in Etiopia c’è un salto di oltre 2.700 anni e nessuno, se non per via di mera ipotesi, può spiegare come le tradizioni Falasha siano così radicate e somiglianti a quelle del popolo ebraico. Qualcuno ipotizza che sono i discendenti degli scampati alle invasioni assiro-babilonesi, altri che si tratta di fuorusciti giudei dopo la distruzione di Gerusalemme ad opera delle legioni romane (70 d.C.), accantonando quindi la favola della diretta discendenza da Salomone. Fatto sta che il mondo ebraico, sin dalle prime notizie dell’esistenza di quella etnia, si commosse visceralmente e si attivò, per quanto possibile, ma senza successo, per recare sollievo a quelli che riteneva confratelli. Bisognerà però arrivare ai primi anni ’80 perché quelle popolazioni ricevessero un aiuto concreto. Tra il 1984 e il 1985, mediante ponti aerei (operazione Mosè), circa 8000 individui, circa un terzo di quella popolazione, vennero trasferiti in Israele. Poi, nel maggio del ’91, con una seconda operazione (Operazione Salomone), condotta insieme agli USA, vennero trasferite in Israele altre 14.000 persone. Sulla vicenda è stato girato anche un film15 che narra «l’incredibile storia vera di un’operazione del Mossad tra le più ardite e complesse, ovvero il salvataggio, nei primi anni 80, di migliaia di ebrei etiopici in fuga dalla guerra civile».16 Ovviamente, a parte il colore della pelle, quel popolo, che oggi conta in Israele più di centomila anime, aveva lingua, usanze e tradizioni differenti, incontrando serie difficoltà di integrazione. Non mancano però esempi notevoli e punte di inserimento nel tessuto sociale israeliano. Così ad esempio, nel gennaio 2013, è stata eletta al parlamento la prima donna nata in Etiopia da genitori Falasha, Pnina Tamano Shata mentre Yityish Aynaw, 21 anni, immigrata a 12 anni, è stata la prima donna di quell’etnia a vincere il titolo di miss Israele. Chi legge la Bibbia non può mancare di constatare l’adesione alla profezia biblica degli avvenimenti che hanno condotto il popolo israeliano, dopo duemila anni di dispersione, al ritorno nella terra dei padri e di cui i Falasha non costituiscono che uno dei tanti tasselli. Un esempio fra tutti: «In quel giorno io rialzerò la capanna di Davide ch’è caduta, ne riparerò le rotture, ne rileverò le rovine, la ricostruirò com’era ai giorni antichi … E io trarrò dalla cattività il mio popolo d’Israele; ed essi riedificheranno le città desolate, e le abiteranno; pianteranno vigne, e ne berranno il vino; faranno giardini, e ne mangeranno i frutti. Io li pianterò sul loro suolo, e non saranno mai più divelti dal suolo che io ho dato loro, dice l’Eterno, il tuo Dio.».17 Oggi, al posto del tradizionale nome Falasha si fa ricorso a quello di Beta Israel (Casa di Israele), preferito anche dagli interessati per l'esplicito riferimento al loro Ebraismo.
Note 1. Cartografia fig.1 2. Stefano Montefiori sul Corriere della Sera del 10 dicembre 2017 pag. 13. 3.Cfr. E. di Bellegarde, Serie di vite e ritratti dé famosi personaggi degli ultimi tempi, vol. III, Milano, 1818. 4. Cartografia del viaggio di Bruce fig.2 5. Travels to discover the source of the Nile in «The Years 1768, 1769, 1770, 1771, 1772, and 1773», Edinburgh, prinded by J. Ruthven, for G.G. J. and Robinson, Paternoster-Row, London, M.DCC.XC. 6. Traduzione da Bruce travel’s and adventures in Abyssinia, Edimburgh, 1860. Furono pubblicati contro Bruce libelli e versetti satirici, tra i quali un distico che fece ridere ognuno, eccetto Bruce. Nor have i been where men - what loss, alas! kill half a cow, and turn the rest to grass. 7. Distico il cui senso potrebbe essere così espresso in versi italiani: «Né me gramo! i paesi ho visitato, ove una mezza vacca si macella, va l’altra mezza a pascolar sul prato» Tratto dalla mini biografia di Bruce sulla Rivista L’Eco di mercoledì 2 febbraio 1831, n. 14. 8.Cfr. J. Faitlovitch, The Falashas, Reprint from the American Jewish Year Book 5681, Philadelphia, the Jewish Publication Society of America, 1920. 9. Nuova Antologia 1907 marzo-aprile, Roma. 10. Nuova Antologia 1913 gennaio-febbraio, Roma. 11. Y. Faïtlovitch, Quer durch Abessinien: meine zweite Reise zu den Falaschas, Berlino, M. Poppelauer, 1910, pagine 188.
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