La lettera di Carlo Poerio, perseguitato politico dalla dittatura borbonica, al Direttore del Times

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La dolorosa odissea sofferta da Carlo Poerio nei varî bagni penali del Regno delle Due Sicilie prima della liberazione emerge da un documento di notevole importanza.

Si tratta di una dichiarazione che confuta le gratuite affermazioni, pronunziate nella Camera dei Comuni nel maggio 1860, dall’Onorevole Sir John Hope Hennessy, deputato della King’s County, uno dei conservatori più tenacemente ostili all’Unità d’Italia, in difesa del Governo dei Borbone di Napoli.

Il Poerio, chiamato direttamente in causa dall’oratore, si rivolse al direttore del giornale londinese The Times, che aveva pubblicato un largo resoconto di quel discorso, perché vi accogliesse anche la relativa smentita.

Questo documento, qui integralmente riportato, vale ancora oggi a smentire tutti coloro che, nostalgici della dinastia borbonica, seguendo la linea menzognera propria di quel sanguinario governo, osano tutt’oggi negare l’atroce condanna subita da Carlo Poerio e la veridicità delle lettere di William Gladstone a Lord Aberdeen sui processi politici dei Borbone.

 

 

Al Direttore del Times.

Il qui sottoscritto sarebbe gratissimo al Sig. Direttore del Times, se volesse compiacersi dar luogo alla seguente dichiarazione nelle colonne del suo giornale.

Torino, 12 di giugno 1860.

Nella seduta della Camera de’ Comuni del 26 scorso maggio il Sig. Hennessy, nel fervore del suo zelo borbonico, affermò esser tutte calunniose le accuse mosse contro il Governo delle Due Sicilie come stoltamente feroce e sfrenatamente tirannico.

Per tutta pruova di questa sua assertiva, con poco felice consiglio, egli citò il mio nome; e con la solennità del più profondo convincimento sostenne esser falso ch’io portassi la catena quando andai soggetto ad una pericolosa operazione. Anzi soggiunse che, sebbene condannato a’ ferri duri, io non aveva mai portato catena.

E per addurre una pruova sfolgorante ed ineluttabile di questa sua affermazione, ricordò un documento de’ Chirurghi del Governo, nella quale è detto a chiarissime note ch’io non avevo mai portato la catena, né nel momento della operazione, né prima, né dopo.

Duolmi di dover contraddire il Sig. Hennessy e di dover turbare la serenità della sua coscienziosa persuasione, stanteché il preteso fatto che ha ingenerato il suo convincimento e che lo ha ispirato a sorgere generoso campione del calunniato Governo borbonico, è falso.

Il documento invocato non è a mia cognizione, né io mi darò la briga di farne ricerca, perciocché qualunque attestato che parte dal Governo di Napoli, quando anche sia sottoscritto e giurato da tutta la facoltà medica ch’egli tiene a sua disposizione, non varrebbe a distruggere le mie sensazioni.

D’altronde non è maraviglia che dove lo spergiuro siede sul trono da quattro generazioni per obbligo ereditario e quasi a suggello della legittimità della filiazione, i docili strumenti del potere siano santamente spergiuri per divozione dinastica.

Ora, col permesso del Sig. Hennessy, mercé le mie sensazioni io sono sinceramente convinto di aver portato la catena senza l’interruzione di un solo istante dal primo giorno che sono stato condotto in galera, 4 febbraio 1851 (dopo quasi due anni di carcere nelle fetide prigioni della capitale), fino al giorno che ne sono uscito, 16 gennaio 1859.

Forse sarà stata una mia illusione, ma il Sig. Hennessy deve pur concedermi che fu una illusione di buona fede, essendo giustificata da’ seguenti fatti.

Il 4 febbraio, come dissi, fui condotto legato ed affunato e con le manette insieme a’ miei compagni dal carcere della Vicaria nell’arsenale di Napoli che sottostà alla Reggia.

Colà fui ferrato con doppia catena ed in coppia col mio onorevole amico l’ex giudice Pironti, già Deputato al Parlamento; i nostri ferri furono ribaditi sulla incudine; fummo vestiti con gli abiti di galera, poscia condotti sopra un piccolo piroscafo, e subito calati in sentina, eccetto due sacerdoti che rimasero sulla tolda.

Il Maggior Generale della Real Marina sig. Brigadiere Palumbo presedeva a quelle operazioni, e la sua presenza fu vero beneficio, poiché riprese severamente un aguzzino che per zelo d’ufficio nel ribattere la bietta, con un furioso colpo di martello dato in falso poco mancò che mi spezzasse la gamba. Condotti a Nisida, ci fu tolta la doppia catena, e secondo i regolamenti di quel bagno fummo dispajati, e fu data a ciascuno la catena semplice.

Ma dopo tre giorni il Presidente dell’Ammiragliato, il Conte dell’Aquila, fratello di Ferdinando II, dispose che fossimo nuovamente accoppiati con la doppia catena.

L’ordine ebbe immediata esecuzione; anzi il solerte Generale Palumbo venne a fare una visita di sorpresa per verificare se il comando di Sua Altezza era stato pienamente eseguito, e se ne tornò soddisfattissimo. Dopo pochi altri giorni fummo improvvisamente chiamati di notte e condotti, sempre col ferro al piede, nel Castello d’Ischia, dove era un bagno di gastigo per la feccia de’ ribaldi più incorreggibili, rifiuto delle altre galere.

Colà ci furono cambiate le antiche catene con altre più pesanti, secondo il nuovo modello filantropicamente proposto dall’appaltatore della Real Marina, Sua Eccellenza Don Carlo Filangieri Principe di Satriano, Duca di Taormina, Regio Luogotenente in Sicilia, gran Fascia di San Gennaro, etc. etc. etc. Il dì 8 febbraio 1852, sempre con l’indivisibile catena, fummo ricondotti in Napoli, deposti in un letamajo e sul mezzo della notte consegnati al Commissario di Polizia Campagna per condurci al nostro nuovo destino in Montefusco, dove era un orrido carcere che per misura di umanità era stato chiuso da più anni d’ordine del Governo, e che appositamente per noi fu riaperto.

Viaggiammo tutta la notte e il giorno seguente, e non solo col ferro al piede, ma per maggior sicurezza con le manette, e per maggiore precauzione con le mani in croce.

Nel dì 16 marzo dello stesso anno, attesocché quel carcere avea bisogno di molte riattazioni per concederci senza pericolo quel poco d’aria alla quale i condannati avevano diritto secondo i regolamenti, per Decreto Reale ed in via di grazia venimmo nuovamente disgiunti, e fu sostituita a ciascuno la sua propria catena.

Così trascorsero parecchi anni, fino a che nel 28 maggio 1855 fummo condotti, sempre con l’inevitabile catena al piede, nel nuovo bagno di Montefusco, antico Castello donato dal Duca di Avalos a Ferdinando II, e che egli con provvida cura fece ridurre a bagno di eccezione appositamente per noi, ossia per trenta individui trascelti tra’ milleduecento condannati a’ ferri duri per imputazione politica.

L’eccezione consisteva in una infinità di misure vessatorie per impedire che i reclusi avessero relazione col mondo esteriore. Così vivemmo per altri quattro anni, sempre incatenati, fino a che, nel 16 gennaio 1859, fummo per Decreto Reale liberati dalle catene, condotti sopra un piroscafo della Marina Reale per essere deportati in America.

Da questa semplice esposizione de’ fatti è dimostrato fino all’evidenza che tutti i condannati a’ ferri, non escluso il qui sottoscritto, hanno portato sempre la catena fino al giorno della commutazione della pena.

Né poteva essere altrimenti per molte e gravissime ragioni. Secondo i regolamenti gli aguzzini debbono rivedere i ferri di ciascun condannato impreteribilmente ogni giorno, per osservare se la bietta non sia rimossa, stanteché è impossibile togliersi la catena senza rimuovere la bietta che chiude l’anello di ferro al quale la catena è raccomandata.

Chiunque trovasi in fallo è subito sdrajato sul pancone e gli sono consegnate cento legnate per correzione economica, salvo poi il giudizio legale da subirsi innanzi alla Corte Marziale.

Questa prudente misura fa sì che il condannato non solo non pensa mai a disfarsi del ferro, ma sua prima cura nel destarsi ogni mattina è di verificare se per caso non siasi smossa quella bietta fatale, gravida di una continua minaccia di quell’orribile supplizio.

Inoltre i medesimi regolamenti non solo non permettono mai che il condannato sano deponga per un istante la catena, ma prescrivono che il condannato infermo non solo ritenga la catena, ma stia al puntale, ossia che la sua catena da uno de’ capi sia raccomandata al suo piede, e dall’altro al suo anello di ferro che è infisso al suolo.

Solo quando l’infermo prende la estrema unzione perché prossimo alla morte, è concesso al chirurgo di togliere la catena, ma mai l’anello di ferro. E anche questo ultimo beneficio ci fu tolto, adducendo che quella disposizione riguardava i condannati per delitto comune, non già i condannati politici. Difatti essendo prossimo a morte il condannato politico professore Stefano Mollica, fu promosso il dubbio se era il caso di tagliargli la catena.

Ed il Generale Flogy, comandante della Provincia, dopo aver fulminato il comandante pel dubbio promosso, sentenziò che il ferro gli fosse tolto soltanto dopo morto.

Lo stesso accadde ad Alfonso Zeuli gentiluomo pugliese, affetto da tisi polmonare, della quale poi infelicemente morì. Tremendi furono gli effetti della continua catena.

Difatti, su trenta individui, non meno di otto sentirono le conseguenze di quel gravissimo peso nella regione inguinale. Tre gettarono sangue; ad un altro si dislocò il piede destro; il ferro gli fu passato al piede sinistro.

Pironti poi il mio compagno di catena andò soggetto alla paraplegia, perse interamente l’uso della gamba, ed il misero non l’ha più recuperata...

Che se queste pruove non bastano al Sig. Hennessy, gli ricorderò che l’onorevolissimo Sig. Gladstone in Nisida mi trovò col ferro al piede accoppiato al Sig. Pironti;

che Lord Aristil che venne a vedermi in Ischia accompagnato dal viceconsole francese Sig. Chevalley de Rivez, mio antico conoscente, mi trovò all’ospedale non solo col ferro al piede, ma al puntale;

che i Sig.ri Turner e Guppy, negozianti inglesi, che per commissione del Governo vennero a visitare il Bagno di Montesarchio, mi trovarono col ferro al piede.

Anzi avendomi que’ Signori domandato se era vero ch’io fossi stato operato dal Chirurgo ritenendo la catena, risposi di sì e narrai loro il fatto in presenza di tutte le Autorità che li accompagnavano, cioè il Comandante, il Capitano della guarnigione, l’Ispettore di Polizia, il Comite, i Gendarmi, gli sbirri, gli aguzzini, e niuno solo osò impugnare la verità del mio racconto.

Dopo questa succinta esposizione del fatto, mi giova credere che il Sig. Hennessy vorrà modificare le sue benevoli opinioni riguardo alla moralità, alla legalità, alla umanità di quel Governo che da dodici anni fa strazio di quella nobilissima Provincia d’Italia.

Ma quando pure egli ostinatamente perdurerà nella sua opinione, non per questo sarà per mutarsi il senso morale di tutta Europa, e la tirannide borbonica sarà sempre detestata da quanti amano la Giustizia, e sarà meritatamente consegnata alla esecrazione de’ posteri.

 

Carlo Poerio Deputato al Parlamento Nazionale.

 

La lettera è tratta dal volume di Nunzio Coppola, Carteggi di Vittorio Imbriani. Voci di esuli politici meridionali. Lettere e documenti dal 1849 al 1861, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, Roma, 1965, pp.290-293.

 

 

Nella foto la catena del prigioniero politico Andrea de Domenico, custodita nel Museo Civico e del Risorgimento di Santa Maria Capua Vetere.

 

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