Relativismo e cultura
Qual è lo status delle norme e dei valori che vengono adottati in una particolare cultura? Vi sono degli universali morali riscontrabili in tutti i sistemi normativi? Oppure le norme morali sono essenzialmente simili ai valori estetici che - spesso si sostiene - variano in misura rilevante da cultura a cultura e non hanno alcun fondamento razionale? In effetti il comportamento umano è largamente influenzato da considerazioni di tipo morale e normativo, e sono frequenti i casi di condotta individuale deviante dalla razionalità relativa al binomio mezzi-fini a causa di regole morali. Come sappiamo, inoltre, tali regole sono differenti da una comunità all’altra. Alcune di queste comunità danno priorità alla giustizia astratta, mentre altre attribuiscono importanza primaria alle relazioni personali e familiari. Alcune considerano l’infanticidio come un crimine orrendo, altre lo vedono come pratica indispensabile ai fini della pianificazione demografica. Sono proprio tali variazioni a generare la tesi del relativismo morale. Secondo quest’ultimo culture diverse esprimono differenti e incompatibili sistemi di valori morali, e non esistono basi razionali per preferire l’uno all’altro.
I relativisti sostengono che ogni società possiede un tale sistema di norme e di valori; vi è pertanto una fondamentale diversità tra i sistemi valoriali delle varie culture, dove per “sistemi valoriali” s’intendono gli schemi di valutazione mediante i quali le persone giudicano se stesse, i propri amici e nemici, le loro relazioni sociali, e così via. Detti sistemi governano le locali concezioni della giustizia, della cortesia, della bellezza, etc. Questa posizione può essere riassunta nei seguenti termini: i sistemi normativi che regolano la condotta umana variano da cultura a cultura, e nessun “punto di vista” locale risulta preferibile rispetto agli altri. Consideriamo, per esempio, le norme che governano la vita familiare: quali sono gli obblighi di un padre verso i figli, quali sono i limiti della libertà per le giovani generazioni, etc. E’ noto che le strutture familiari mutano in modo rilevante quando si passa da una cultura all’altra; in alcune società patriarcali le facoltà decisionali sono concentrate negli uomini anziani, mentre in altre è la donna a detenere l’autorità. Si tratta di dati di fatto incontestabili e più che sufficienti a dimostrare la grande variabilità delle norme sociali. Più difficile è, tuttavia, rispondere alla domanda se “tutte” le norme varino in misura tanto rilevante. Si è spesso affermato a tale riguardo che esistono dei principi normativi che costituiscono degli “universali umani” perché includono caratteristiche della condizione umana in generale, oppure per il fatto di scaturire da una comune storia evolutiva. Queste teorie sono una forma di “naturalismo”, secondo il quale certi fatti relativi alla situazione naturale degli esseri umani determinano il contenuto di almeno alcuni dei loro principi morali. Un esempio può essere fornito dalle norme etiche comuni a molte società contadine (“etica della sopravvivenza”). Le circostanze concrete in cui si svolgono la vita e gli scambi economici nelle società contadine generano un’etica che sottolinea il diritto di tutti i membri della società a vedersi assicurata la sopravvivenza secondo le norme sociali vigenti, garantendo così un criterio di giustizia elementare. Benché il desiderio di sicurezza sia sorto dalle necessità primarie dei contadini, esso è diventato in seguito un modello sperimentato socialmente di diritti e aspettative morali. L’etica della sopravvivenza, pertanto, è radicata nelle pratiche economiche della società contadina. Non solo: il principio morale del diritto alla sopravvivenza fornisce pure il criterio per valutare le - ed eventualmente opporsi alle - richieste eccessive da parte dei grandi proprietari e dello Stato. La teoria dell’etica della sopravvivenza contiene due assunzioni di fondo. In primo luogo si basa su un comune senso della giustizia riscontrabile tra i membri di un vasto insieme di società contadine, e in secondo luogo si ipotizza che tale etica sia causata da “circostanze esistenziali” comuni presenti nelle società contadine di tutto il mondo. I contadini sono soggetti alle variazioni climatiche e alle richieste di autorità superiori (proprietari terrieri, esattori delle tasse, etc.). Essi, pertanto, vivono sempre ai limiti della sopravvivenza, e un’etica come quella dianzi menzionata costituisce uno schema normativo naturale per persone che agiscono in “quelle” circostanze. Ovviamente tale conclusione ha carattere “funzionale”, nel senso di presupporre l’idea secondo cui sistemi normativi che soddisfano importanti bisogni sociali tendono a emergere spontaneamente. Occorre tuttavia trovare un meccanismo sociale che conduca in maniera plausibile a tale risultato. In questo caso il meccanismo è fornito dal comportamento dei contadini volto a preservare i propri interessi vitali: in altri termini essi tenderanno ad adottare norme che promuovono la loro sicurezza e il loro benessere. Supponiamo ora di accettare questa spiegazione delle origini dell’etica della sopravvivenza. Quali conclusioni possiamo trarne circa il relativismo normativo? Senza dubbio essa restringe notevolmente la portata del relativismo poiché dimostra la presenza di schemi normativi che caratterizzano un’intera classe di culture. Una seconda possibile obiezione al relativismo morale si basa sulla storia evolutiva del genere umano. Parecchi sociobiologi, per esempio, cercano di dimostrare che almeno alcune componenti del comportamento morale umano hanno un’origine evolutiva. In questo caso la strategia consiste nel tracciare un’analogia tra il comportamento morale e altre forme di comportamento umano che hanno chiaramente origine evolutiva come le capacità cognitive. Il fatto che gli individui siano capaci di distinguere fra migliaia di volti è un esempio di capacità cognitiva sviluppata grazie ai suoi effetti positivi per la riproduzione. Esiste, in altri termini, una base neurofisiologica in grado di spiegare l’emergenza di una simile capacità. Finora ci siamo chiesti se esistano universali normativi che trascendono le varie culture. La risposta è positiva entro certi limiti, poiché tali universali sono piuttosto rari. Che cosa possiamo obiettare, tuttavia, al relativismo dei criteri morali? Tale questione riguarda più la filosofia in quanto tale che le scienze sociali, poiché significa negare l’esistenza di qualsiasi “verità etica”. Alcuni autori sostengono a tale riguardo che le obbligazioni morali sono determinate dall’accordo implicito tra i membri di un gruppo sociale. Si tratta di una posizione di tipo convenzionalistico: i principi morali vengono equiparati alle convenzioni sociali che regolano l’azione individuale mediante l’accettazione di una certa norma, riconoscendo che tutti (o la maggior parte) degli altri membri del gruppo lo fanno. Secondo questo approccio la richiesta di rispettare le altre persone deriva dal fatto che tale principio è per così dire “incorporato” nelle azioni dei membri di un gruppo sociale; nelle società in cui tale norma non viene convenzionalmente rispettata, non esiste alcun obbligo di quel tipo. Ecco perché, secondo alcuni, si può parlare di etica come “invenzione” del giusto e dell’ingiusto. La conclusione è che i principi morali non hanno fondamento assoluto, ma svolgono una funzione “strumentale” nella vita sociale; in altre parole, possono essere rimossi per motivi utilitaristici. Queste tesi esprimono bene il relativismo morale, una posizione oggi molto popolare a causa dell’anti-fondazionalismo prevalente nel pensiero del secolo scorso. Molti studiosi affermano che le credenze morali non possono essere ricondotte ad alcun fondamento ultimo. I sistemi valoriali vengono piuttosto “ereditati” all’interno di una certa cultura, e ogni teoria etica serve ad articolare e a razionalizzare valori che sono “specifici” di un sistema culturale.
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