Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Raffaele Zicconi, l’icaro siciliano che sognava la libertà e morì alle Fosse Ardeatine

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«Qui non siamo volgari delinquenti, ma detenuti politici (...) Dopo ben 17 giorni di segregazione cellulare, murato vivo in una stanza, solo, maltrattato in maniera eccessiva, adesso che rivedo la luce sono risuscitato. Le botte, la fame, la mancanza d’aria, mi avevano prodotto un poco di nevrosi cardiaca, dalla quale mi vado rimettendo(…) Ormai sono fermamente convinto che il peggio è passato. Se dopo la condanna vorranno portarmi via da Roma, si vedrà il da farsi».

 

Febbraio 1944, carcere di Regina Coeli, terzo braccio: quello gestito direttamente dalle SS tedesche. La luce filtra a quadretti tra le sbarre della cella 367, dove Raffaele Zicconi, classe 1911, partigiano del Partito d’Azione, con un mozzicone di matita scrive a casa una lettera clandestina.

Lino è siciliano, originario di Sommatino (Caltanissetta), ma risiede da anni a Roma, dove nel ‘41 ha sposato Ester Aragona, nata nel 1916 a Cosenza, nipote dello scienziato Alfonso Splendore, che nel 1908 aveva scoperto la toxoplasmosi all’università di Rio de Janeiro.

Ha un figlio piccolo, Renzo, di appena due anni, e un’altra figlia in arrivo (Simonetta), anche se non farà in tempo a saperlo, finendo ucciso dai tedeschi nella strage delle Fosse Ardeatine.

La storia di Zicconi è riemersa dal buio della Storia grazie al nipote Massimo Ciancaglini, che ha amorevolmente raccolto le lettere e i biglietti del nonno da Regina Coeli, conservati negli archivi di famiglia, li ha trascritti e li ha pubblicati su un blog: La Vita e la Resistenza a Roma.

Lino lavora come impiegato alle Poste. Non molto alto, come tutti i maschi di famiglia, è bruno di carnagione, ha baffi ben curati, capelli ondulati scuri impomatati con la brillantina, è elegante nei modi e nell’abbigliamento (nelle missive dal carcere fa cenno più di una volta al suo smoking).

Gran fumatore, ha una collezione di bocchini per le sigarette. Personalità forte la sua, a tratti irascibile, ma condita di intelligenza e di romanticismo, come testimoniano le lettere d’amore alla futura moglie Ester scritte tra il ‘39 e il ‘41.

Dopo il matrimonio, è andato a vivere con i suoceri in un grande appartamento al terzo piano di Piazza Ledro 7. Al piano di sotto ha la casa e l’ambulatorio il medico Luigi Pierantoni, detto Gigi, figlio di Amedeo, uno dei fondatori del Pcd’I nel 1921. Gigi è iscritto al Partito d’Azione clandestino, diviene presto suo grande amico e lo introduce negli ambienti antifascisti romani.

La polizia fascista vigila e il 25 giugno 1943 spicca un ordine d’arresto a piede libero nei confronti di Lino, con citazione a comparire davanti al Tribunale di guerra di Roma. Le dimissioni forzate di Mussolini, datate esattamente un mese dopo, faranno decadere le accuse.

Dopo l’armistizio con gli Alleati e l’occupazione tedesca di Roma, Zicconi è tra i primi ad entrare nella Resistenza e l’8 ottobre aderisce al Partito d’Azione.

Nel frattempo lascia la casa di Piazza Ledro, dove nascondeva in cantina una famiglia di ebrei che gli ha chiesto aiuto. Non vuole mettere a rischio i suoceri e allora prende casa in affitto, trasferendosi lì con la famiglia e i nuovi amici ebrei.

Il 7 febbraio 1944, alla vigilia di un’azione di sabotaggio della sua squadra ad alcuni pali postelegrafonici,  viene tradito da un sedicente compagno di nome “Albertini”, che consegna lui e l’amico Pierantoni nelle mani delle SS.

«A fine guerra Albertini fu processato – racconta il nipote Massimo – ma uscì indenne dal processo».

Portato a via Tasso, il carcere diretto da Herbert Kappler, Lino viene picchiato e rinchiuso in cella d’isolamento, al buio e senz’aria, ma non rivela i nomi dei compagni.

Il 24 febbraio, dopo diciassette terribili giorni di prigionia e di torture in via Tasso («mi hanno ormai collaudato come incassatore di primo ordine anzi fuori classe», ironizza lui stesso), è trasferito a Regina Coeli, dove il trattamento e il vitto sono di gran lunga  migliori.

 

«Io sto bene e mi vado rimettendo – manda a dire ai suoi -. Questa mattina il mio amico mi ha dato un poco di zucchero, e mi sono fatto due uova frullate. Mi sembrava un sogno , dopo tutte le sofferenze ed i patimenti inenarrabili nel vero senso della parola, che ho dovuto sopportare nella triste tomba di lassù. Qui ho aria, luce, compagnia di veri amici che mi hanno sempre sorretto, e che godono nel vedere che le mie sembianze umane tornano a rifiorire sul mio volto. Qui sì tutti per uno ed uno per tutti. Mi hanno dato da mangiare, da fumare, e mi hanno assistito sul piccolo disturbo che mi affligge, ricordo questo di lassù». E in un altro biglietto clandestino aggiunge:  «Dalle porte si chiacchiera con le altre celle. Io sto di fronte a Gigi, e siamo in continuo contatto. Nella cella ci stiamo creando tante piccole comodità, e si va avanti discretamente».

 

Lino ha trovato la strada per corrispondere clandestinamente con casa senza il vaglio della censura e di poter ricevere pacchi e cibo, attraverso le figlie di un altro detenuto politico («la nostra vera colonna di sostenimento e sostentamento»), probabilmente in contatto con qualcuno dell’amministrazione carceraria.

 

«Percorrete sempre quella [strada] – ammonisce la famiglia -, perché così anche quando uscirà il padre, se io sarò ancora qui, mi porteranno tutti i giorni tutto ciò che volete. Sono loro che pensano già ad una quindicina di persone, e sono ben felici di esservi utili. Ester pensi come poter fare per farle una gentilezza che dimostri la nostra riconoscenza. Se voi consegnate il pacco invece direttamente qui, mi arriva anche con due giorni di ritardo ed in questo caso non azzardatevi a mettere biglietti, se vi preme la mia incolumità, e di farmi ricevere il pacco».

 

A Regina Coeli le condizioni di salute di Zicconi migliorano, anche grazie all’affetto dei compagni («qui si è tutti per uno e il cameratismo è veramente bello. Sia per il fatto del fumo che per il fatto del mangiare»), ma la lontananza dalla famiglia gli pesa. Molto.

 

«Vorrei notizie un poco più estese di tutti – scrive -, e di Ester, che ho un vago timore che non stia troppo bene (la moglie avverte forti fitte allo stomaco, ancora non lo sa, è incinta ndr). Vi penso tutti ardentemente , ma come potete immaginare , ho lo spasimo di poter riabbracciare pupetto».

 

E in un’altra missiva esprime tutto il suo desiderio di essere ancora con loro:

 

«Mia piccola cara, troppe cose ci sono da indovinare nel tuo letterone che ho tanto gradito. Mi dici di aver ripreso l’ufficio, sei stata dunque male? Cosa ti è successo? Mi devi parlare esplicitamente. Scrivi come se parlassimo. Ho ancora bisogno di vivere in casa. Come hai ricevuto il colpo? Cosa hai fatto quando non sono rientrato? In casa come ti sei sistemata? Con chi stavi? Cosa ha fatto Renzuccio? E ora come fai? Ti prego non mi lasciare all’oscuro, isolato. Se tu mi parli di tutto ciò io ti risponderò, parleremo, e io non sarò più lontano da casa».

 

Le sue parole d’amore per la moglie commuovono:

 

«Piccola stellina mia, bé cosa vuoi? Oggi penso troppo alle stelle e mi sono ricordato che nel firmamento tu brilli sempre più fulgida. La tua lettera di ieri mi ha tolto dall’ansia e dall’incubo della mia solitudine.»

 

Così come l’affetto per il figlio:

 

«Ho solo qui il conforto(veramente immenso) delle vostre fotografie. Mi riguardo continuamente Renzuccio nostro, e mi convinco sempre di più che fra tutte le nostre disgrazie, i nostri dolori, le nostre sofferenze, Iddio ci ha voluto dare la prova lampante che non si è dimenticato di noi, facendoci avere quanto di meglio potevamo aspettarci nei riguardi di pupetto.

Cerca di non farlo guastare, insegnali ad essere sempre buono e docile com’è. Fagli leggere le mie lettere, convincilo insomma che paparino suo è sempre vicino. Distrailo molto, perché è tanto sensibile, e sono sicuro che anche lui soffre della mia lontananza. È l’unico tesoro veramente di valore che abbiamo. Conserviamolo senza farlo rovinare. Ricordati che non deve essere allevato con le botte. Non voglio assolutamente. Che nessuno me lo tocchi».

 

Il suo animo nobile e generoso emerge anche da altri particolari. Come quando, nonostante il vitto del carcere sia scarso, non vuole che la famiglia (e l’amatissima zia, suo «angelo custode») si privi di qualcosa per lui:

 

«Quando mi mandate da mangiare – avverte la cugina Mimmina - attenetevi esclusivamente alla mia tessera. Non fate sacrifici finanziari, dillo anche a zia. (…) Non era il caso di privarti di tutta la marmellata. Non voglio affatto che facciate sacrifici».

 

Nei momenti di sconforto, Zicconi si aggrappa agli ideali politici:

 

«In certo qual modo – confessa alla cugina Mimmina - mi sento anche orgoglioso di questa avventura dato che non sono un volgare delinquente ma un novello Cesare Battisti, per quanto lui sia andato oltre il punto al quale mi fermerò io. E a proposito di Cesare gli sto facendo concorrenza anche per il pizzetto che cresce rigoglioso e mi da’ campo alla gioia immensa di passeggiare per le celle, fronte corrugata, sguardo linceo e terribile».

 

Oppure lo aiuta la sua tenace fede religiosa:

 

«Questo per Ester – si legge in un biglietto -. Importantissimo e delicatissimo. Mi stacchi dal muro dove l’avevo attaccato dietro il seggiolone della mia scrivania, il quadro della Madonna al quale tengo moltissimo. Lo spolveri bene dietro e davanti, e me lo riponga bene dopo averci tolta la cornice della quale non mi interessa nulla. Mi raccomando… Madonna che voi pregherete per me e per la mia liberazione. Datemi conferma per la mia tranquillità».

 

In un’altra lettera chiede invece di fargli recapitare il libro che ha nello studio: La vita di Cristo.

Fuori la guerra continua. E a Roma si susseguono le fucilazioni di partigiani da parte dei fascisti e delle SS. Lino teme il peggio:

 

«La causa ci sarà, e molto probabilmente, anzi sicuramente, ci dovrebbe essere la condanna. Il mio fervido augurio è che questa sia magari di 30 anni. E spero fermamente che sia così soltanto. Ad ogni modo abbiate fiducia e sappiatemi attendere con pazienza e rassegnazione, pregando per la mia salvezza».

 

Tuttavia sa che da un momento all’altro la sua vita potrebbe finire. E allora invia alla moglie Ester una lettera-testamento, nella quale le chiede perdono per aver osato troppo:

 

«Mia piccola Madonna,

è con la stessa disperazione del moribondo che si attacca alla vita , che io mi stringo a te. Come un naufrago si aggrappa rabbiosamente all’unico relitto di nave che potrà salvarlo da morte, io così disperatamente mi aggrappo a te per salvarmi. A te così cara, a te così buona, che con il tuo amore, con la tua passione sai ancora darmi la gioia e lo scopo di vivere.

Sono anche io quasi un naufrago della vita, di questa insulsa, di questa stupida, di questa miserabile vita, che dopo aver maledetto, benedico. Amore mio non puoi ancora capire il mio stato d’animo, e i tremendi periodi di burrasca che sono costretto ad attraversare. Non hai ancora idea delle lotte tremende che da solo, completamente da solo, devo combattere.

Tutta la mia bella filosofia è caduta stupidamente di fronte alla dura realtà. Tutta la mia spensieratezza s’è infranta nell’urto contro la vera vita. La vita di tutti, la vita che non ho mai voluto immaginare, che non ho mai conosciuta. Quest’ira repressa che è in me, questo spirito di ribellione impotente,non è se non il frutto di chi ha tutto perduto.

Chi è abituato a vincere, credo non potrà mai assoggettarsi alla vita del vinto. Il mio orgoglio sconfinato, il mio spirito indipendente, il mio isolamento completo su tutto ciò che mi riguarda, la mia frenesia di agire solo per assaporare la soddisfazione unicamente mia dello scopo raggiunto, mi ha portato al punto di essere mal giudicato, di non essere compreso, di apparire forse anche pazzo. Imbevuto di teorie individualistiche assolute, mi sono buttato a corpo morto in un esperimento che mi affascinava. Raggiungere il superuomo creato da me, in me stesso.

Ed in questo mi sono talmente immedesimato da condurre la mia lotta sorda inebriandomi di ogni mia piccola conquista.

Ciò mi ha completamente astratto dalla realtà, nella quale sono caduto così bruscamente, dopo anni di studio,da infrangere ogni più piccola illusione senza più poter distruggere la mia maniera di vivere, inadatta alla nuova posizione che dovevo occupare nella vita. Icaro, lo stesso che aveva aspirato ad altezze troppo elevate, ha trovato la morte sul suo insulso tentativo. E io nel mio sogno dorato ho dimenticato di valutare in giusta misura quelle che avevo considerato inezie trascurabili; e ho trovato la morte dello spirito. (…)

Ho voluto raggiungere cose più grandi di me, ma sotto il loro peso sono rimasto schiacciato. Per non confessare la mia sconfitta, ho fatto cose assurde, che mi hanno fatto perdere anche l’ultimo sogno di grandezza e di supremazia, finché mi sono trovato in terra, nelle stesse condizioni di una belva chiusa in trappola, che nella sua irrequietezza ruggendo si lancia impotente contro le sbarre della gabbia. (…)».

 

E infatti l’«incognito domani», come lo definisce lo stesso Lino in un’altra lettera alla sorella Anna, gli riserva sorprese amare.

Il 24 marzo 1944, il giorno dopo l’attacco dei Gap comunisti a Via Rasella, per rappresaglia le SS assassinano barbaramente 335 detenuti politici ed ebrei alle Fosse Ardeatine, prelevandoli da via Tasso e da Regina Coeli. Tra questi, c’è anche Raffaele Zicconi, l’elegante partigiano siciliano che amava la libertà come Cesare Battisti e inseguiva il sogno di Icaro.

 

 

Mario Avagliano

 

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