Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Ludwig Wittgenstein e la crisi della filosofia

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Ludwig WittgensteinSi dice che ogni epoca dia vita a una particolare forma di filosofia che ne rispecchia i miti e le credenze, la qualità delle relazioni sociali e l’idea che l’uomo si forma circa il suo destino ultimo. Come tutte le asserzioni di portata generale, anche questa risulta difficilmente verificabile.

E’ comunque inquietante constatare come nel XX secolo e nel primo scorcio del nostro, così spesso definito un periodo storico di crisi e di transizione, la filosofia si trovi in uno stato di crescente ambiguità concettuale e metodologica, tanto che sempre più spesso si sentono echeggiare opinioni che ne vorrebbero drasticamente ridurre sia l’autonomia sia la portata conoscitiva.

Ludwig Wittgenstein è la voce che forse più di tutte ha dato corpo alla crisi della filosofia concepita come costruzione di grandi sistemi onnicomprensivi. Personaggio divenuto presto famoso per l’estrema originalità delle sue tesi e del suo modo di vivere, e assurto alla dimensione del mito dopo la sua morte, Wittgenstein, cui è stata attribuita la paternità dell’empirismo logico e della filosofia del linguaggio contemporanea, esercita ormai un’influenza trasversale.

Con lui si confrontano non solo i pensatori analitici, che in teoria sono i suoi eredi più diretti, ma anche i filosofi di scuola ermeneutica, i marxisti, i cultori della fenomenologia e delle scienze umane.

 

Nato a Vienna in una famiglia di industriali di origine ebraica, si dedicò dapprima a studi tecnici seguendo i corsi di ingegneria a Berlino e a Manchester, dove si concentrò soprattutto su esperimenti aeronautici. Ma proprio a Manchester, nei primi anni del secolo scorso, fu colto da un interesse per i fondamenti della matematica che non lo abbandonò più e costituirà la base per le successive speculazioni sulla natura della logica e del linguaggio.

Al 1911 risale il suo incontro a Cambridge con il logico e filosofo della matematica Bertrand Russell, il quale ne intuì immediatamente le doti di assoluta genialità. Parrebbe, questo, l’inizio di una brillante carriera accademica, e infatti a lui Russell pensò come suo naturale successore.

Ma il fascino di Wittgenstein è anche dovuto al percorso non certo monotono della sua biografia; nel 1914, mentre stava elaborando le tesi sulla logica e i fondamenti della matematica, decide di non evitare il coinvolgimento nel primo conflitto mondiale e si arruola nell’esercito austro-ungarico.

Dopo aver combattuto in Polonia, nel 1918 viene fatto prigioniero sul fronte italiano e nel nostro Paese rimane sino all’anno seguente, completando l’opera che gli diede una fama immediata, il “Tractatus logico-philosphicus”.

Wittgenstein, tuttavia, ha una concezione della filosofia che non coincide affatto con la ricerca della gloria accademica.

Carattere tormentato e incline alla solitudine, ritiene di aver esposto nel saggio anzidetto tutto ciò che aveva da dire sulla filosofia, e lavora per anni come maestro elementare in alcuni villaggi sperduti dell’Austria meridionale. Contempla anche l’idea di diventare monaco, ma rinuncia al progetto non sentendo realizzate nel proprio animo le condizioni interiori della vita monastica.

Nel 1929, accogliendo le sollecitazioni di Russell, torna a Cambridge e diventa Fellow del Trinity College nella cui cappella, tra i ritratti dei grandi letterati, filosofi e scienziati che vi hanno insegnato, campeggia ora anche il suo.

Il secondo periodo della riflessione wittgensteiniana è segnato da un altro celebre libro, le “Ricerche filosofiche”, pubblicato postumo nel 1953. A dispetto del suo carattere scontroso e difficile, il filosofo austriaco era ormai divenuto un maestro e la sua fama cresceva nel mondo intero. Un simile genio inquieto non poteva tuttavia essere appagato dalla routine accademica e dalle quotidiane battaglie per il potere che ne formano il tessuto.

Il desiderio di solitudine e di isolamento Wittgenstein riuscì a soddisfarlo solo in Irlanda, dove nel 1948 andò a vivere, completamente solo, in una capanna vicino a Galway. Nel 1949, tuttavia, scoprì di essere affetto dal cancro, e la malattia lo condusse alla morte due anni dopo.

Questi brevi cenni biografici sono forse sufficienti a spiegare perché Wittgenstein sia diventato un mito, ma occorre rammentare che la sua vita non è comprensibile se non in riferimento alla concezione che egli ebbe della filosofia.

Un posto assolutamente preminente all’interno della sua speculazione è occupato dal problema del linguaggio. In questo senso egli è parte di una tradizione che attraversa tutta la storia del pensiero occidentale e si ritrova attorno a un denominatore comune: l’analisi del discorso come mezzo per enucleare ed esplicitare i problemi posti dalla riflessione filosofica.

L’indagine logico-linguistica deve per Wittgenstein svelare l’origine degli errori che, attraverso la costruzione delle teorie, conducono a un “abuso” del nostro linguaggio. I filosofi devono dunque sbarazzarsi di una grande illusione, quella di poter dire qualcosa di più alto di quanto non consentano le limitazioni intrinseche alla mente umana.

Oggi, come ho già rilevato in precedenza, viviamo in un’epoca che non assiste più alla costruzione dei grandi sistemi; in altri termini, è come se la filosofia si fosse ripiegata su se stessa praticando una sorta di auto-analisi.

Centrale risulta nella riflessione del pensatore austriaco la consapevolezza che le teorie costituiscono dei pretesti, utilizzati dai filosofi per sostituire alla realtà schemi ideali e aprioristici che possiedono tutte le caratteristiche dell’illusione.

Wittgenstein visse in modo profondo e sofferto tale situazione. Mentre nel “Tractatus” si assiste al tentativo di costruire un linguaggio ideale, puro e cristallino, privo di ambiguità e in grado di rispecchiare in modo perspicuo la struttura del mondo, nelle “Ricerche filosofiche” si insinua lo scetticismo circa la capacità della logica e dei suoi sistemi formali di analizzare adeguatamente il nostro linguaggio quotidiano.

Ecco allora che lo stesso linguaggio viene concepito come un insieme di “pratiche sociali”. Non più, quindi, una serie concatenata di proposizioni esposte in forma assertoria, ma una successione ininterrotta di domande, attraverso le quali il filosofo cerca di avvicinarsi alla verità pur sapendo di non poterla mai attingere.

Ovviamente sto semplificando un pensiero che di semplice ha ben poco, ma è importante rilevare che le tesi di Wittgenstein sono state spesso stravolte. In particolare, si è voluto adombrare nella sua critica a metafisica e teologia un programma di stampo positivistico, mentre egli intendeva ribadire che la filosofia non è dottrina, ma attività.

Una sua celeberrima frase, «Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere», posta a conclusione del “Tractatus”, significa che il linguaggio umano non è in grado di parlare in modo adeguato di certe realtà (per esempio, di Dio).

Quello di Wittgenstein è quindi un pensiero tipicamente “aperto”, nel quale le domande prevalgono sulle risposte. Ed è per questo che gli interpreti non ne hanno ancora sondato in maniera soddisfacente la profondità.

 

 

 

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