Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

La nozione di “capo carismatico” nelle scienze sociali

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«La democrazia senza veri capi agevola il mercato delle vacche da parte dei notabili per l’assegnazione degli incarichi. Include nelle liste i funzionari e costituisce così un parlamento non politico, nel quale non alberga una vera tempra di capo.»

Qualche lettore potrebbe anche pensare che le frasi appena citate si debbano alla penna di un reazionario nostalgico dei regimi autoritari. E invece sono di Max Weber, che reazionario e nostalgico dell’autoritarismo certo non era. Come spesso accade quando si torna – nel mio caso per l’ennesima volta – alle analisi weberiane della politica, la loro grande attualità s’impone con prepotenza, soprattutto pensando che si tratta di un autore vissuto a cavallo tra ’800 e ’900.

Sullo sfondo troviamo naturalmente la celebre nozione di “capo carismatico”, molto controversa e spesso fraintesa, che ha fatto versare fiumi d’inchiostro a interpreti delle più svariate tendenze. Ma perché il sociologo e filosofo tedesco insisteva tanto sulla necessità che un capo (o leader) politico possieda il “carisma”? Non sembra, dopo tutto, un’idea tanto balzana come alcuni credono. E, inoltre, cosa significa con precisione tale termine?

 

Il nodo si scioglie soltanto rammentando che, per Weber, la politica implica una particolare vocazione che non tutti possiedono. Quando prendono il sopravvento coloro che ne sono, per l’appunto, privi, si ha quale risultato il dominio di politici di professione ma senza vocazione, il che conduce a espandere a dismisura il numero degli individui che vivono “di” politica e non “per” la politica.

Un quadro che in Italia conosciamo bene da parecchi decenni a questa parte, e che spiega molti dei problemi che bloccano il funzionamento fisiologico del sistema e il distacco ormai endemico tra eletti in parlamento e comuni cittadini.

Va subito chiarito, però, che vivere “di” politica non è di per sé una cosa del tutto negativa. Occorrono competenza, doti comunicative e capacità di decidere. Lo diventa quando quello politico si trasforma in un mondo a parte e lontano dal comune sentire, quando tende soltanto ad autoalimentarsi – anche e soprattutto finanziariamente – e a occupare spazi sempre crescenti sul piano dell’informazione. Non è un caso che nel nostro Paese quotidiani e TV dedichino un’attenzione quasi patologica alle beghe interne dei partiti e a volte a quelle che si svolgono addirittura nelle loro correnti, con l’immancabile sfilata di personaggi intenti a raccontare vicende poco interessanti per il pubblico. Il tutto a scapito di altre notizie importanti relative, per esempio, agli eventi che accadono all’estero.

Qual è l’elemento che preoccupa quando Weber parla di “carisma” e di “capo carismatico”? Probabilmente il cambiamento di tono. Tiene molto, infatti, al ragionamento freddo e spassionato, alla famosa “avalutatività” del giudizio. La quale, del resto, è il perno del metodo che elaborò per le discipline storico-sociali, a suo avviso completamente diverse dalle scienze empirico-naturali. Diverse perché le une trattano del mondo sociale e linguistico creato dagli esseri umani, le altre della realtà naturale in cui l’uomo si trova inserito senza aver in alcun modo contribuito alla sua nascita. Differenti, dunque, anche le rispettive ontologie, giacché nel mondo umano i valori e i conflitti cui danno origine giocano il ruolo fondamentale, mentre risultano assenti nell’ambito naturale. Che si sia d’accordo o meno sulla sua validità, tale dicotomia è tuttora al centro del dibattito metodologico nella filosofia della scienze storico-sociali con l’alternativa tra “spiegazione” e “comprensione”.

Eppure, quando si arriva al tema del capo carismatico, Weber abbandona il linguaggio dello scienziato sociale oggettivo e si lascia per così dire trascinare dalla passione. Sempre presente del resto, come un fiume carsico ben dissimulato, in tutte le sue opere. Quando si giunge al carisma, in lui il filosofo prevale sul sociologo e sull’economista. E’ ben presente la consapevolezza che, da un lato, il carisma nella sfera politica è necessario mentre, dall’altro, sono evidenti le conseguenze tragiche e funeste che esso “può” generare. Scrivo “può” perché dette conseguenze non hanno carattere di necessità e inevitabilità.

La democrazia “massifica” la politica con una moltiplicazione prima sconosciuta dei numeri, amplifica il ruolo dei mediatori, ragion per cui «tutte le lotte tra i partiti non avvengono soltanto per fini obbiettivi, ma soprattutto per il patronato degli impieghi: i capipartito distribuiscono cariche di ogni specie.»

Ha luogo insomma una iperspecializzazione burocratica che inaridisce la politica intesa come vocazione. Paradossalmente, la democratizzazione diventa più formale che reale poiché a dominare sono gli apparati di partito in mano a veri professionisti, e può assumere la leadership solo chi di questi apparati ha il controllo. Pure il meccanismo della rappresentanza parlamentare, nata con fini diversi, finisce sotto lo stesso giogo.

Quando i partiti entrano in crisi si manifesta un vuoto ancora più pericoloso poiché, in quel momento, è possibile l’avvento di figure in grado di sfruttare in pieno “la potenza della parola demagogica: per eccitare le masse si mettono in opera mezzi puramente sentimentali”. E lo sfruttamento sentimentale delle masse è appunto uno degli esiti possibili se qualcuno esercita il carisma che possiede senza trovare costrizioni esterne.

Che il carisma esista, che esso svolga un ruolo fondamentale nella lotta politica in ogni epoca, è tuttavia un dato di fatto non smentibile. In alcune - poche – nazioni (caso tipico quello inglese) viene incanalato grazie alla presenza di una tradizione parlamentare secolare che garantisce gli equilibri. In altre, dove una simile tradizione non esiste o è assai più debole e recente, i caratteri irrazionali del carisma prendono il sopravvento, soprattutto in momenti di crisi profonda che evocano la nota metafora dello “stato di eccezione” proposta da Carl Schmitt.

 

 

 

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