Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Filosofia, scienza e creatività

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Poco tempo fa ho letto una breve nota scritta da un collega universitario riguardante l’attuale stato degli studi filosofici. Le considerazioni erano parecchie, ma il nocciolo del ragionamento si può ridurre ad alcune sintetiche parole.

Se la filosofia continua così – afferma l’autore – è destinata a diventare in breve una metanarrazione che si occupa esclusivamente di “archeologia culturale”.

Espressione non facile da decifrare, tant’è vero che sul momento non le ho attribuito eccessiva importanza. Ma è noto che la mente archivia spesso informazioni trascurate in un primo momento, e destinate poi a riemergere con prepotenza quando la nostra attenzione viene catturata da nuovi elementi che riportano a qualcosa di letto in precedenza.

Che può significare l’archeologia culturale quando è accostata alla filosofia?

Semplicemente questo. Se nessuno produce idee nuove, gli studiosi – anche i più giovani – lavorano unicamente su ciò che hanno scritto i grandi pensatori del passato, sia esso recente o remoto. Accade quindi che ci si specializzi in modo eccessivo su un autore, una corrente o un periodo storico senza nemmeno pensare che il filosofo dovrebbe almeno tentare di elaborare tesi originali.

 

E’ facile rispondere che, nell’intero percorso della filosofia occidentale, gli autori “autonomi” sono in fondo pochi. Basta scorrere le pagine di un qualsiasi manuale per accorgersi che in ogni epoca vi sono state delle figure di riferimento che hanno inaugurato un nuovo modo di pensare. Gli altri si sono accodati riuscendo al massimo a fornire interpretazioni di quanto era già stato detto.

Tuttavia in passato tali figure si succedevano con un ritmo abbastanza regolare. Oggi invece abbiamo molti studiosi di media caratura, ma certamente nessuno destinato o occupare un posto di rilevo nei manuali che useranno i nostri figli. Siamo quindi in una fase che privilegia la ripetizione rispetto alla creatività, il che significa che la filosofia si sta pericolosamente avvicinando alla filologia.

Facile verificare che le cose stanno proprio così. Lasciamo stare gli storici della filosofia – in Italia più importanti che altrove – i quali fanno com’è ovvio il loro mestiere, che è quello di ricostruire in modo organico le tesi di coloro che ci hanno preceduto nel tempo. Il problema è che pure i cultori di filosofia morale, politica e teoretica, gli epistemologi e i filosofi del linguaggio si comportano nello stesso modo.

Guardiamo al lavoro prodotto nelle due correnti dominanti (ovviamente si parla sempre del mondo occidentale). Gli analitici sono sempre più impegnati nell’esame di minuzie tecniche che li rendono – come del resto notava Richard Rorty – incomprensibili a chi non fa parte della loro ristretta cerchia di “iniziati”. In ambito ermeneutico il discorso è spesso così fumoso da rasentare anche in questo caso i confini dell’incomunicabilità.

Dopo le due grandi “fiammate” di Wittgenstein e Heidegger, insomma, nessuno appare più disposto ad avventurarsi su strade nuove.

Tale situazione di sofferenza, che nei circoli accademici viene raramente percepita, è aggravata dalla concorrenza che le scienze, naturali e sociali, fanno alla filosofia riducendone mano a mano gli ambiti di competenza. La sensazione diffusa è che il “sapere” coincida ormai con quello scientifico, con spazi sempre più rarefatti concessi alla filosofia stessa. Pare così avverarsi l’ipotesi del Circolo di Vienna e dei neopositivisti logici del secolo scorso: il destino della filosofia è ridursi a mera analisi del linguaggio scientifico.

Un aiuto per comprendere l’attuale situazione può venirci dalla nozione di “paradigma” elaborata da Thomas Kuhn, il quale scrisse che la storia della scienza è caratterizzata da periodi “normali” in cui gli studiosi si limitano a lavorare all’interno di un paradigma dominante, e da periodi “straordinari” che sono caratterizzati dal sorgere di idee nuove in grado di condurre a un paradigma diverso.

Esempio classico è il passaggio dalla teoria tolemaica a quella copernicana.

E’ possibile trasferire tale modello interpretativo anche in ambito filosofico? A mio avviso sì, con le opportune distinzioni dovute al fatto che nel primo caso prevale la dimensione sperimentale, pressoché assente nel secondo.

A patto però di rammentare che la creatività dell’individuo gioca in ogni caso il ruolo fondamentale. Uno studioso – scienziato o filosofo, non importa – può conseguire il dottorato un una delle migliori università del mondo e non avere mai idee originali.

Al contrario, può produrle uno che vanta un’educazione di livello inferiore se possiede doti naturali che non si “insegnano”. Non esiste un metodo, filosofico o scientifico, che rimedi alla mancanza di creatività.

 

 

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