Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Nascita e declino della Società di Promozione TESS

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(Seconda parte). Saranno necessarie nuove proteste, manifestazioni e finanche un altro, ennesimo sciopero generale a Torre Annunziata, il 14 gennaio 1994, per chiedere, ancora una volta, il rispetto degli accordi sottoscritti, per recuperare i ritardi, ma finalmente il 4 febbraio, con la denominazione di TESS (Torre e Stabia Sviluppo), i comuni di Castellammare di Stabia e Torre Annunziata e con la partecipazione della Provincia, dell’Unione Industriale di Napoli, della Gepi, acronimo di Società per le Gestioni e Partecipazioni Industriali, nata nel 1971 e della Spi, Società di Promozione Industriale nelle aree svantaggiate daranno vita alla Tess, con sede presso le Nuove Terme Stabiane.

Successivamente si allargherà agli altri comuni limitrofi, tra cui Torre del Greco, fino a quando quest’ultima sceglierà un'altra strada sottoscrivendo un nuovo e diverso Patto Territoriale con altri tre comuni, dando vita al Patto del Miglio d’Oro insieme a Portici, Ercolano e San Giorgio a Cremano.

Complessivamente, senza i quattro comuni del costituente Patto dell’area vesuviana, saranno 12 i comuni aderenti alla Tess e primo Presidente della neonata Società sarà il sindaco di Castellammare, il professore universitario di scienze biologiche presso la Federico II, Catello Polito, mentre la Gepi esprimerà l’Amministratore Delegato con l’ingegner Riccardo Salvato.

Trascorreranno soltanto pochi giorni, quando cominceranno a lanciarsi accuse nei confronti della nuova Società: scatola vuota, sarà il monotono, ripetitivo refrain degli anni a venire maggiormente utilizzato da quanti avranno come hobby principale quello di attaccare la Tess e da chi vedrà nella società di promozione l’ennesimo carrozzone clientelare.

 

Quasi a dare ragione a quanti vedevano come il fumo negli occhi Torre e Stabia Sviluppo, ci saranno continui cambi dell’Amministratore delegato, ognuno dei quali, giusto per rinfocolare le polemiche, scaricherà sul predecessore le cause dei ritardi, se non dell’immobilismo nella quale la Tess precipiterà per lunghi periodi.

Neanche le organizzazioni sindacali sfuggirono all’inevitabile tiro a segno contro la Società di Promozione Industriale, facile bersaglio delle colpe di tutti, man mano che ci si rendeva conto di come il sogno della svolta era destinato a rimanere tale.

Mentre non rallentavano le fibrillazioni operaie, le stesse organizzazioni sindacali comprensoriali mantenevano alta la tensione, quando, saputo di una convocazione per il 17 marzo da parte della Task Force governativa con i rappresentanti istituzionali e sindacali del capoluogo campano per discutere contemporaneamente delle tre aree di crisi della provincia, chiedevano, come area torrese stabiese, una riunione preventiva per «(…) uno specifico confronto sui punti di crisi di questo territorio (…)».

Vi era, tra i gruppi dirigenti di Cgil Cisl Uil comprensoriali, ma in particolare da parte della Camera del Lavoro stabiese la preoccupazione di rimanere schiacciati da Napoli e dai suoi problemi, quella centralità conquistata in quei due anni di coraggiosa lotta dal movimento operaio di Castellammare e Torre Annunziata.

A sostegno della posizione assunta, Cgil Cisl Uil proclamò per il 15 marzo lo sciopero dei lavoratori dell’industria, chiedendo per quella data un incontro al sindaco di Castellammare, al Commissario Prefettizio di Torre Annunziata e all’Amministratore delegato della Tess.

Inoltre per il 17, nelle stesse ore in cui si teneva la riunione romana, era proclamata una manifestazione di protesta a Castellammare, in Piazza Principe Umberto, con una catena umana intorno al monumento dei caduti in guerra.

In quella primavera del 1994 la segreteria confederale comprensoriale della Cgil si orientò verso un rafforzamento delle strutture sindacali presenti sul comprensorio affidando ad Alfonso Natale la responsabilità confederale della Zona di Sorrento e ad Antonio Aprea, Segretario Generale della Filcams, il compito di operare con particolare assiduità in penisola sorrentina per potenziare il gruppo dirigente aziendale della categoria, ad Alfonso Selleri, un impiegato del comune di Castellammare, ma da vent’anni attivissimo quadro intermedio della Cgil con numerosi incarichi già ricoperti in passato, fin da quando fu costituita la prima Zona unitaria nel 1976, il compito di dare slancio politico al lavoro di ricostruzione sindacale a Gragnano, la Città della pasta dove la sua antica Camera del Lavoro viveva da troppi anni un’esistenza asfittica, mentre su Torre Annunziata si decideva il rientro a tempo pieno nella Funzione Pubblica di Giuseppe Acanfora, sostituendolo con Raffaele Scala, Segretario Generale della Fillea, la cui categoria aveva dato un determinante contributo alle lotte di quegli anni difficili.

In aprile era stato eletto il nuovo Segretario Generale della Camera del Lavoro di Napoli, Michele Gravano, in sostituzione di Gianfranco Federico (1950 – 1998), candidato nelle elezioni amministrative del capoluogo campano tenutesi nel dicembre 1993.

Queste elezioni avevano visto la vittoria di Antonio Bassolino a capo di una coalizione progressista, realizzando una nuova spettacolare stagione politica, tanto da far gridare da più parti, troppo frettolosamente, a un nuovo Rinascimento dell’antica capitale dell’ex Regno di Napoli.

In realtà quel presunto rinascimento rimase solo una crisalide che non volle o non ebbe possibilità di trasformarsi in qualcosa di serio e duraturo.

Nonostante fosse stato rieletto nel 1997 con oltre il 72% di preferenze Bassolino lasciò la carica di sindaco, preferendo quella di Ministro del Lavoro nel governo D’Alema nell’ottobre del 1998.

Un’esperienza negativa, resa tragica dall’uccisione del suo consulente giuridico, Massimo D’Antona, assassinato dalle brigate Rosse il 20 maggio 1999 e provocando le sue stesse dimissioni dalla carica.

Eletto nel 2000 Presidente della Regione Campania, Bassolino s’impantanò e rimase travolto dall’emergenza rifiuti, chiudendo miseramente, sotto i colpi delle inchieste giudiziarie, la sua carriera politica così brillantemente iniziata trent’anni prima.

Della sua avventura politica napoletana rimarrà soltanto il ricordo delle montagne d’immondizia che invasero le strade di Napoli e della sua provincia, il ricordo dei roghi accesi per disperazione, delle rivolte popolari contro le discariche, degli attentati camorristici contro i camion della spazzatura, della politicume che aveva speculato ignobilmente, delle lobby che si erano arricchite.

E rimarrà, indelebile, il ricordo dell’incapacità amministrativa del suo successore a sindaco, Rosa Russo Iervolino, due nomi, due volti che hanno definitivamente affondato la classe dirigente politica della sinistra napoletana.

Lungo i sei mesi di vacatio alla guida della Camera del Lavoro di Napoli, vi era stata una girandola di nomi sul successore di Gianfranco Federico e tra i più accreditati era dato quello di Giovanni Zeno, al punto da essere lui stesso a dare ormai per scontata la sua nomina, assicurato in tal senso da Sergio Cofferati, il carismatico Segretario Generale della Cgil succeduto al dimissionario Bruno Trentin nel 1994.

La doccia fredda dell’elezione di Michele Gravano sarà la prima di una serie di sconfitte destinate a costellare gli ultimi anni di vita del segretario del comprensorio vesuviano. Giovanni Zeno – così com’era già accaduto a Salerno, nella categoria dei Trasporti e nella stessa confederazione regionale - fortemente consapevole delle sue capacità ma privo dell’umiltà necessaria, per certi versi indispensabile in questi ambienti, pagava ancora una volta per la sua incapacità di costruire il consenso intorno al suo nome, di produrre alleanze durature con i dirigenti delle diverse categorie e con quelli della stessa confederazione.

 

«Giovanni era più di un dirigente sindacale, era un capo, aveva le doti del leader perché sapeva creare entusiasmo tra i lavoratori e tra i dirigenti dell’organizzazione (…) Però ha dato fastidio a molti per come è oggi l’organizzazione. Aveva un difetto questo compagno che non gli ha consentito di vedersi riconosciuto quanto meritava: non frequentava i gruppi organizzati, soprattutto negli ultimi anni. Giovanni non ha mai raggiunto gradi elevati ai quali poteva tranquillamente aspirare nella nostra organizzazione perché non si è mai adeguato ai codici che ti consentono di raggiungere livelli di responsabilità di direzione. Non voglio qui usare linguaggi mascherati o criptici: Giovanni non ha mai fatto parte dei gruppi che decidono la selezione dei quadri, soprattutto in questi ultimi dieci anni. Io non so quello che succede nelle altre province ma qui a Napoli, in Campania, questo è molto forte…»1

 

Nella testimonianza di Massimo Montelpari, un vecchio compagno con 40 anni di militanza politica e sindacale alle spalle, dirigente autorevole della Cgil napoletana e campana vi è uno spicchio di verità che aiuta a capire e a riflettere su come sia difficile e complesso muoversi e agire in un’organizzazione di massa e di come i meccanismi di formazione e selezione dei gruppi dirigenti seguano regole non sempre chiare e uguali per tutti, non dissimile da quanto accade nel sistema che pure quell’organizzazione critica, avversa e combatte.

 

La firma del Protocollo d’Intesa con Silvio Berlusconi

 

La situazione dell’area torrese stabiese rimaneva drammatica, mentre la Tess andava delineando primi progetti come la sistemazione del Museo Archeologico di Castellammare, da trasferire in una ristrutturata Villa Gabola; il recupero della Reggia di Quisisana da trasformare in una scuola di restauro, centro di congressi, foresteria per studiosi e antiquarium; l’istituzione del Parco Archeologico di Varano e la realizzazione di un porto turistico. Per Torre Annunziata si prevedeva di realizzare un Centro industriale integrato sulla dismessa area della Tecnotubi e il porto commerciale. Complessivamente 1500 nuovi posti di lavoro da realizzare entro quattro anni.

Sotto accusa era in quei mesi anche la Regione Campania, accusata di venir meno al suo compito di programmazione del territorio, per la mancata realizzazione di alcune importanti infrastrutture e il mancato avvio dei piani di formazione e riqualificazione professionale.

Così, come avevano già fatto i tre segretari Cgil Cisl Uil di Napoli, che nell’ultima decade di settembre avevano scritto al Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, per sollecitare un incontro rispetto agli impegni assunti e disattesi del Protocollo d’Intesa sottoscritto il 5 novembre 1993, anche le segreterie comprensoriali dell’area torrese stabiese, lanciavano in ottobre un appello al governo affinché predisponesse le scelte e le risorse finanziarie per gli interventi da tempo configurati nel programma di sviluppo del territorio.

La convocazione arrivò per il 26 ottobre, presieduta dal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Gianni Letta e da qui l’impegno a sottoscrivere entro breve tempo un Protocollo d’Intesa per definire i piani di reindustrializzazione, la valorizzazione delle risorse ambientali e culturali, con un occhio particolare alle Terme stabiane, alla Reggia di Quisisana, al Museo di Villa Gabola, al porto turistico e al potenziamento delle infrastrutture necessarie al riassetto più complessivo del territorio.

Saranno necessarie nuove manifestazioni di protesta a Castellammare, come a Torre Annunziata, di lavoratori e studenti, prima di approdare al Protocollo d’Intesa del 19 dicembre, ultimo atto del primo Governo presieduto dal leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi. I giornali diedero ampio spazio all’evento e un periodico locale, uscito in edizione straordinaria, intitolò a caratteri cubitali, Tess: il sogno diventa realtà.2

Furono in molti a crederci perché gli impegni erano chiari e calendarizzati. Entro 45 giorni, si diceva, dovrà essere presentato al Cipe il programma articolato d’interventi per l’avvio della fase operativa del progetto d’area.

L’euforia non durò a lungo, trasformando ben presto quel sogno in un lungo interminabile incubo. Già nei primi giorni di febbraio, prima la Scac e poi la Deriver riaccesero i focolai della protesta operaia bloccando i binari della Ferrovia a Torre Annunziata, mentre a Castellammare i lavoratori delle Raccorderie Meridionali protestavano davanti a Palazzo Farnese per richiamare l’attenzione delle istituzioni sulla grave situazione industriale dell’area.

Sulla stampa le organizzazioni sindacali minacciarono lo sciopero generale comprensoriale e non mancava chi parlava apertamente di un bluff ai danni dei lavoratori dell’area torrese stabiese.

Il 28 febbraio, 300 lavoratori protestavano a Napoli sotto il Palazzo della Giunta regionale della Campania, presieduta dal Popolare Giovanni Grasso (1940 – 1999).

Il vecchio democristiano, da politico navigato si difese mostrando come, fin dal 23 di quello stesso mese, fosse stato approvato il Progetto Integrato d’Area e dichiarandosi disponibile a una serie d’incontri ravvicinati per completare le diverse proposte. 

Nonostante i buoni propositi e i proclami di ottimismo da parte di istituzioni, politici e sindacalisti, avanzava la consapevolezza di trovarsi di fronte ad una strada ancora lunga e accidentata da percorrere.

In particolare all’interno della Cgil si ragionava sulla necessità di imprimere una diversa forza alle lotte operaie, di modificare alcuni obiettivi, di uscire dall'impasse istituzionale in cui, in qualche modo erano cadute le stesse organizzazioni sindacali, imbrigliate in riunioni fiume e ripetitive senza nessuno sbocco operativo, ma soprattutto sembrava, ad alcuni, necessario prendere le distanze dalla Tess, il cui nuovo amministratore delegato, Vinicio Bottacchiari, uomo dall’eccentrica intelligenza, somigliava sempre più a un venditore di fumo.

Giovanni Zeno inseguiva sempre più una sua idea, un suo ambizioso progetto, in contrasto con quanto accadeva in realtà sul territorio e, inevitabilmente, andava dissolvendosi, lentamente, ma inesorabilmente, quel clima di unità, di compattezza che aveva contraddistinto il gruppo dirigente della Cgil comprensoriale.

Anche nella Cisl e nella Uil si andavano assumendo posizioni politiche tese a prendere le distanze dal Segretario Generale della Cgil comprensoriale, cominciando a liberarsi da una sudditanza psicologica, indubbiamente esercitata da Zeno per le sue maggiori e riconosciute capacità intellettuali e culturali.

Polemiche feroci e contrasti sempre più insanabili emergevano rispetto alle posizioni da assumere nei confronti delle diverse istituzioni: Catello di Maio e Raffaele Scala evidenziavano nelle riunioni e sulla stampa sempre più una linea critica, mentre Giovanni Zeno rimaneva fermo nel suo proposito di mantenere il timone della non belligeranza con il commissario prefettizio di Torre Annunziata, Ennio Blasco, con l’amministratore delegato della Tess, Vinicio Bottacchiari e nei confronti della Regione, retta, ma ancora per poco, da Giovanni Grasso.

Da li a poco, il 23 aprile, si sarebbero tenute le elezioni regionali, provinciali e comunali, queste ultime riguardanti alcuni comuni del comprensorio come Pompei e Boscoreale.

Si cominciò a vociferare di un’eventuale candidatura di Zeno in Consiglio regionale e di nuovo si aprirono polemiche, conflitti, lotte sotterranee, veti, invidie di cui non molto è dato sapere, ma facili da immaginare.

Di certo vi era la disponibilità del sindacalista, la cui candidatura era da lui stesso favorita e sollecitata, seppure a certe condizioni. La più importante tra queste sottolineava come la sua dovesse essere una candidatura unica sull’area torrese stabiese per avere, se non la certezza, buone probabilità di vittoria nelle elezioni.

Garanzie ricevute in un primo momento da esponenti provinciali del Pds, ma successivamente ritirate in quanto il partito impose, oltre Zeno, le altre candidature territoriali di Vincenzo Barbato e Antonio Di Martino.

Il primo, originario di Torre Annunziata, operaio dell’Alfa Sud di Pomigliano D’Arco, era un noto dirigente locale del Pci prima e del Pds poi, già altre volte candidato, senza molta fortuna, nelle diverse tornate elettorali, il secondo, stabiese, da oltre un ventennio dirigente di primo piano del Pci, consigliere comunale, segretario del Partito e figura politica molto nota nella zona.

Naturalmente a queste condizioni Zeno non si candidò, facendo tirare un lungo sospiro di sollievo a più di uno nei diversi palazzi del potere politico. Probabilmente Giovanni agì come ci si aspettava facesse e per questo furono avanzate le altre due candidature. Di Martino (8.349 preferenze) e Barbato (7.602) saranno rispettivamente primo e secondo tra i non eletti.

Il nuovo sistema maggioritario e le incomprensioni all’interno dello schieramento di centro sinistra, portarono alla vittoria del Polo di centro destra e a Presidente della Giunta regionale, Antonio Rastrelli, esponente di Alleanza Nazionale.

Nato a Portici nel 1927, Rastrelli proveniva dal Movimento Sociale Italiano, partito nel quale aveva militato dal 1948 e fino al passaggio nella nuova formazione politica sorta nel gennaio 1994, fortemente voluta dal suo leader Gianfranco Fini.

Per la seconda volta in meno di un anno Giovanni Zeno vide infrangersi le sue personali ambizioni contro le ostilità degli altri, contro un muro che si ergeva ogni qualvolta tentava di andare oltre il ruolo assegnatogli. Così era accaduto, nell’aprile del 1994, nella sua corsa verso la carica più prestigiosa della Cgil, così accadeva ora, chiuso dal suo partito, il Pds.

Ma non vi era tempo per soffermarsi sulle sconfitte personali e comunque Zeno non socializzava questi temi, non dava la possibilità né a sé né agli altri di superare la sua dura scorza di uomo in apparenza cinico e indifferente ai sentimenti propri e altrui.

Nel Paese le aree di crisi riconosciute come tali si moltiplicavano, almeno 36 nel giugno ’95, ma non per questo diventava più incisiva la politica del governo, anzi, tutto rimaneva terribilmente immobile tranne la cassa integrazione straordinaria.

Per continuare a usufruire di questo particolare sostegno al reddito, in alcune aree, come quella torrese stabiese, per prorogarla, fu necessario andare in deroga alle leggi ordinarie, avendo esaurito i limiti imposti dalla legge.

La cassa integrazione straordinaria in deroga era da considerarsi uno strumento eccezionale, una proroga limitata nel tempo applicata per particolari casi di emergenza occupazionale per aziende di una certa dimensione e come tale andava soggetta a un apposito deliberato del Cipe, il Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica, con tutte le difficoltà che si andavano originando a ogni scadenza, provocando sempre nuove e più forti tensioni operaie.

Di concreto si avviavano primi progetti di Lavori Socialmente Utili (Lsu) per cassintegrati senza possibilità di rientro nella fabbrica d’origine. Questo nuovo bacino si allargava sempre di più, senza riuscire a creare nuovi veri, posti di lavoro e nel tempo assumerà proporzioni sempre più vaste fino a diventare incontrollabile.3

 

Il Parco Virtuale sulla Tecnotubi

 

Le riunioni, i confronti, gli scontri, anche duri, si susseguivano ormai senza soluzione di continuità ma non per questo approdavano a qualche risultato concreto.

A sbloccare parzialmente la situazione fu una delibera del Cipe dell’8 agosto, stanziando 54 miliardi per il restauro delle Antiche Terme Stabiane, della Reggia di Quisisana e della Villa Gabola, mentre sembrava concretizzarsi il polo industriale da realizzare sull’area della Tecnotubi, con circa 19 aziende disponibili a collocarvisi, alcune provenienti dal nord del Paese.

In settembre si dava per certo l’avvio della terza corsia sulla Napoli Salerno con 386 miliardi già disponibili.

Ancora delusioni ed entusiasmi accesi e brutalmente spenti, un’altalena di sentimenti contrapposti le cui conseguenze si rovesciavano sul territorio, con gli operai di nuovo sulle strade a occupare, come sempre, lo sfortunato casello autostradale di Torre Annunziata, vittima predestinata con il suo ingorgo d’auto, camion, autobus, autoambulanze e quanto di altro attraversava quell’intasatissimo nastro d’asfalto, sicuramente il più maledetto d’Italia.

A scompaginare i delicati equilibri della Tess sopravvenne il nuovo assessore regionale all’Industria di Alleanza Nazionale, Francesco D’Ercole, un personaggio destinato ad avere un ruolo sempre più importante nelle problematiche dell’area torrese stabiese, fino a essere nominato nel marzo 1998 Responsabile unico del Contratto d’area di quel territorio e con ciò suscitando nuove e sempre più velenose polemiche tra le diverse forze politiche e sociali.

D’Ercole in un convegno tenuto sulle prospettive della Tess, il 16 ottobre 1995, poco dopo essere stato eletto assessore regionale, aveva esordito precisando d’essere contrario all’allargamento ad altri comuni della cosiddetta area Tess perché (…)

«Così si rischia solo di dare vita a un’altra questione meridionale con il consecutivo sfaldamento dei finanziamenti (…).»

La posizione del dirigente regionale era, e lo sarà ancor più negli anni a venire, largamente ed equamente condivisa da esponenti di destra e di sinistra, ma nessuno mai agirà concretamente per far cambiare rotta a quanti esponevano idee diverse pur avendone i poteri decisionali, a dimostrazione delle tante chiacchiere da comizio elettorale spese a discapito dei loro rappresentati.

Probabilmente era chiara la necessità di un processo irreversibile, teso a superare gli spazi angusti di una Società di Promozione nata sull’onda dell’emergenza occupazionale della sempre più ex isola industriale della Campania.

Bisognava allargare gli orizzonti, avere un maggiore respiro, guardare ad altri spazi, ad altri settori e questo poteva avvenire soltanto creando nuove prospettive, significava guadagnare maggiori poteri decisionali, aumentare la propria importanza nei confronti delle altre istituzioni, essere pronti, insomma, a trasformarsi in un’Agenzia regionale, come poi sarà, fino ad avvitarsi su se stessa ed essere abbandonata dalle diverse istituzioni, in particolare dall’Ente regionale, diventato il suo principale azionista, che ne decreterà la messa in liquidazione nel gennaio 2012, dopo una lunga agonia durante la quale i 29 dipendenti rimasero senza stipendi per molti mesi. 

Ma ora ci si arricchiva soltanto di inutili e sterili polemiche e intanto la situazione rimaneva drammatica, come testimoniava il continuo calo occupazionale nelle 13 maggiori aziende industriali di Castellammare e Torre Annunziata, così come risulta da un’analisi effettuata dall’autore all’epoca della sua segreteria confederale comprensoriale.

Complessivamente, nelle 13 maggiori aziende dell’area, tra il 1985 e il 1998 si perderanno 4.241 posti di lavoro. Una leggera ripresa dell’occupazione si registrerà nel 1999 con i primi insediamenti sull’area Dalmine, toccando i 2357 occupati, registrando per la prima volta un segno positivo, ma sarà un fuoco effimero destinato a scomparire con le prime crisi, come meglio vedremo in seguito.

Intanto sul finire di quel 1995 si proclamava un nuovo sciopero generale e ancora una volta a Torre Annunziata, l’11 dicembre, quando il lungo corteo concluse la sua manifestazione davanti al Municipio dove li attendeva il neo eletto sindaco, l’avvocato Francesco Maria Cucolo.

Alla guida di una coalizione di centro sinistra, Cucolo aveva sconfitto il candidato del Polo, Vincenzo Sica, nel secondo turno di ballottaggio tenutosi il 3 dicembre e subito lanciato nella mischia di una città da troppo tempo ormai senza pace sociale.

Da subito il già anziano avvocato, un lontano passato da socialdemocratico negli anni Settanta e un’esperienza da consigliere comunale, si ritrovò la sede municipale occupata dai lavoratori, per sollecitare una risposta del governo da troppo tempo latitante rispetto alle attese e alle speranze mai trasformate in realtà.

E poi di nuovo, due giorni dopo, l’immancabile appuntamento con la travagliata corsia dell’ormai famigerata autostrada: a centinaia i lavoratori della Deriver, della Dalmine, della Tecnotubi, della Scac e dell’Imec, protestavano per ricordare a tutti la loro condizione in quel giorno di Santa Lucia, per chiedere il rispetto degli accordi strappati a suon di scioperi, di denunce, d’avvisi di garanzia e processi penali, ma non per questo mantenuti da chi chiedeva agli altri il rispetto delle regole, l’applicazione delle leggi.

L’ennesimo incontro si tenne il 20 di quello stesso mese, una riunione fortemente voluta e per la quale si erano mobilitati i lavoratori e la città di Torre Annunziata, su cui pendeva la situazione industriale più drammatica. «(…) la tensione rimane alta e forti sono le aspettative rispetto agli esiti concreti che il confronto deve produrre (…)», scrivevano nei loro comunicati le organizzazioni sindacali.

Dal vuoto di quell’incontro, Cgil Cisl Uil, riproponevano con maniacale ossessione gli stessi temi, gli stessi concetti, scritti, come sempre, da Giovanni Zeno con la sua scrittura asciutta ed efficace, un martello che batteva sullo stesso chiodo, per conficcare nella mente di chi doveva leggere, percorsi e obiettivi, per convincere gli scettici, esterni e interni al proprio schieramento, qual era la via da battere.

«Si può originare una pericolosa emergenza sociale, carica di contraddizioni internamente al mondo del lavoro e tra quest’ultimo e le amministrazioni comunali, se non si velocizzano i tempi di cantierizzazione delle prime opere e non si realizza un salto di qualità nell’azione delle sedi di governo degli enti locali, nelle iniziative delle forze politiche e sociali, per superare impostazioni municipalistiche (…).»

Quanto la situazione fosse caotica, senza programmi e senza strategie, lo dimostrò, se ancora ve n’era bisogno, una riunione tenuta l’11 gennaio 1996, presso l’assessorato regionale all’industria, alla presenza del Presidente dell’amministrazione provinciale, Amato Lamberti, dell’amministratore delegato della Tess, Vinicio Bottacchiari, il rappresentante dell’Unione Industriali di Napoli, Carlo Porcaro e della Società di Promozione Industriale (SPI), Falzarano, lo stesso D’Ercole, i diversi sindaci dell’area torrese stabiese e, naturalmente, le organizzazioni sindacali territoriali.

A Cgil Cisl Uil, l’assessore regionale D’Ercole confermava che «(…) per quanto attiene ai programmi di reindustrializzazione, Gepi, Tess, SPI, hanno comunicato l’esistenza di numerose richieste d’allocazioni d’imprese sull’area Tecnotubi (…)», garanti se ne facevano Bottacchiari e Falzarano nelle loro funzioni di dirigenti delle rispettive Società.

In realtà pochi giorni dopo era presentato sulla stampa un mega progetto da 160 miliardi e 400 posti di lavoro, «(…) Il più grande Parco europeo della realtà virtuale, la Disneyland del mondo classico (…).»

A rendere credibile il progetto erano i soggetti imprenditoriali interessati alla realizzazione del Parco virtuale, quali l’Olivetti, la Gemina e la Sony.

Come in un copione già scritto e sperimentato, il bellissimo progetto si trasformerà in un tormentone senza fine, con alti e bassi, polemiche infinite, cambiamenti continui di scena, di soggetti imprenditoriali simili alle ombre cinesi perché apparivano e svanivano secondo le circostanze, come una fantomatica multinazionale svizzera che per mesi tenne banco nelle discussioni sul progetto, già allora sempre più somigliante a un miraggio di mezza estate.

A un tratto si cominciò a sussurrare il nome della Warner Bros ma la bolla d’aria sparì subito per fare posto, nella torrida estate del 1998, ad Alessandro Abate, un chiacchierato imprenditore campano, già fortemente impegnato nel settore siderurgico, con aziende nell’avellinese.

Abate non sarà da meno degli altri, avviando una telenovela le cui puntate si concluderanno come nei peggiori b-movie, con una banale scomparsa dalla circolazione dopo aver acquistato e rivenduto l’area interessata nel corso del 2006.

Furono otto anni di passione durante i quali le organizzazioni sindacali si erano sorbiti le sue continue lamentele contro la Task Force e la Tess, colpevoli di rallentare il suo progetto in cui stava spendendo inutilmente tempo e denaro senza ricavarne niente, solo problemi.

La Tess e la Task Force, a loro volta, lo inseguivano senza riuscire a obbligarlo a mantenere fede agli impegni, in una pantomima dove non era chiaro chi giocava con chi.

O forse era tutto fin troppo chiaro. Inutilmente vi era chi proponeva di cambiare soggetto imprenditoriale, visto la sua inaffidabilità, ma era tacciato d’incompetenza. Fino alla sua sparizione definitiva, dopo sei anni di ballon d’essai. Naturalmente di questo famoso Parco virtuale nemmeno l’ombra.

Ancora negli anni successivi vi sarà chi tenterà di resuscitarlo con stratagemmi di varia natura, in molti continueranno a fingere di crederci ma nessuno, realmente, farà nulla affinché il progetto si concretizzi.

Il suo fantasma apparirà a più riprese fino al 2011, quando ormai la stessa Tess entrerà in agonia, cessando a sua volta di esistere con la messa in liquidazione del 30 gennaio 2012.

Impegni solenni si ascoltarono il 29 di quello stesso mese in Task Force a Roma e ancora una volta ci fu chi gridò alla svolta, «Finalmente TESS può navigare in mare aperto», arrivò a sbilanciarsi il pur cauto sindaco di Castellammare, Catello Polito.

E si ricominciò a parlare di progetti, di posti di lavoro, della rinascita del territorio. In una successiva riunione del 23 febbraio, sempre nella Task Force di Gianfranco Borghini, l’entusiasmo sembrò non contenersi nel magnificare quel Parco virtuale capace di far rivivere, attraverso sofisticate tecnologie cibernetiche, le suggestioni dell’antica Pompei prima dell’eruzione del Vesuvio.

Si aggiunse a questo, un nuovo grandioso progetto per realizzare un polo agro alimentare con produzione da destinare al mercato estero, in particolare quello medio orientale, da collocare sull’area dismessa dei Cmc.

Questo nuovo piano industriale, presentato dai fratelli Rosanova di Sant’Antonio Abate, notissimi imprenditori già operanti nel campo delle trasformazioni alimentari, fu accompagnato, come sempre, da lunghe e astiose polemiche e nel tempo trasferito, nelle diverse ipotesi dei dirigenti della Tess, prima sull’area Scac, poi su quella Deriver, fino a scomparire nel nulla nel 1998.

 

Le elezioni politiche del 21 aprile 1996

 

Quanto più si magnificavano i progetti, tanto più esplodevano le polemiche e l’ultima di quel febbraio ’96 fu ancora una volta tra la Fiom e il Segretario della Camera del Lavoro.

Catello Di Maio continuava a denunciare la carenza di piani industriali e Giovanni Zeno accusava a sua volta il segretario dei metalmeccanici comprensoriali di porsi

«(…) fuori della linea di ricerca che i diversi soggetti sociali e di governo stanno compiendo in questa fase (…).»

Le sue dichiarazioni, secondo Zeno alimentavano soltanto pericolose contrapposizioni.

In realtà nulla di quanto si andava sottoscrivendo corrispondeva a fatti concreti ravvicinati e, al di fuori dei proclami, ci si dibatteva quotidianamente con disoccupati organizzati sempre pronti a occupare ora le sedi sindacali, come la Camera del Lavoro oplontina, ora i municipi delle due più importanti città industriali dell’area, Castellammare e Torre Annunziata.

Si alzavano tende e si facevano digiuni per protestare contro tutto e tutti, mentre i lavoratori in cassa integrazione vivevano in un disagio sempre maggiore, sconcertati dai mille progetti reclamizzati e nessuno dei quali realizzati. Cominciavano così ad affiorare primi pesanti attacchi contro le organizzazioni sindacali, ritenute corresponsabili del mancato decollo industriale.

L’11 marzo i lavoratori dei Cmc occuparono la sala consiliare del comune di Castellammare per protestare contro i ritardi istituzionali, mentre riprendeva il duello sulle diverse visioni, rispetto agli obiettivi da raggiungere, fra Zeno e la Fiom.

Le polemiche apparvero sulla stampa, dove si scriveva di scontro nel sindacato, di spaccature nella Cgil stabiese, di scintille tra la Fiom e la Cgil sui progetti produttivi.

La Fiom continuava a chiedere garanzie per le industrie metalmeccaniche e questo trovava il sostegno del suo Segretario Generale nazionale, Claudio Sabbatini (1938 – 2003), venuto il 18 marzo a Castellammare per partecipare a un convegno appositamente indetto dai metalmeccanici comprensoriali. Nella polemica s’inseriva Catello Agretti, Responsabile zonale della Uil e un ventennio di storia metalmeccanica alle spalle, sostenendo le stesse posizioni della Fiom.

Dalla sua trincea, irremovibile, Zeno accusava gli altri dirigenti sindacali di avere una visione miope della strategia sindacale, di accontentarsi di governare l’ordinario, senza guardare lontano, al disegno più ampio di ricostruzione e rilancio del territorio.

In lui era forte la convinzione di poter andare oltre gli insediamenti industriali annunciati, convinto della possibilità di allargare gli orizzonti economici, valorizzando le varie potenzialità offerte dall’area, da quelle archeologiche, turistiche alberghiere, al terziario.

Intanto si tenevano in aprile le elezioni politiche e per la coalizione di Centro sinistra, raggruppata sotto il simbolo dell’Ulivo guidata da Romano Prodi, il profumo della vittoria era nell’aria.

Di questo erano consapevoli tutti i maggiori dirigenti e la stessa base ne era convinta e sosteneva con nuovo entusiasmo le parole d’ordine lanciate dai loro leader sul labour day, l’appuntamento nazionale dell’Ulivo lanciato in 400 piazze e Castellammare scelta come simbolo del riscatto del Sud in lotta contro la disoccupazione e la camorra.4

La sera del 14 aprile, in diecimila riempirono i viali alberati della villa comunale per applaudire i comizi di Romano Prodi, Walter Veltroni e Antonio Bassolino. «Porteremo al Governo il mondo del lavoro, diceva Bassolino.

Vi garantisco che quello dell’Ulivo sarà il governo del lavoro e del riscatto del Mezzogiorno», replicava Prodi tra gli applausi frenetici dei suoi elettori.5

In quelle settimane che precedettero le elezioni politiche il nome del Segretario Generale comprensoriale della Cgil entrò ancora una volta nel vortice delle candidature possibili e c’era chi ipotizzava un seggio al senato in sostituzione dell’uscente Enrico Pelella, (1942 – 2010) eletto nel collegio di Torre del Greco nelle precedenti elezioni tenute il 5 aprile 1992.

Non a caso nelle ultime settimane i rapporti tra i due erano diventati improvvisamente tesi, al limite della rottura, ma questa volta le probabilità di successo delle ambizioni del sindacalista si rivelarono ancora più deboli, completamente prive di consistenza perché non sostenute in nessuna autorevole sede, se non da qualche dirigente politico provinciale incapace di dirgli di no.

Mentre il 21 aprile Romano Prodi vinceva le elezioni portando con sé, per la prima volta nella storia d’Italia, gli eredi del Pci al governo con il piccolo contributo della vecchia Stalingrado del Sud, generosa di voti a favore della coalizione di Centro sinistra, i 127 lavoratori dei Cmc, guidati dal loro leader di fabbrica, Ciro Macera, uno scaltro rappresentante sindacale della Fiom, cui non mancavano arguzia e furbizia, da anni alla testa di tutte le lotte metalmeccaniche della sua fabbrica, occuparono il municipio, alla vigilia della festa del primo maggio, con l’intenzione di restarvi fino a quando il ministro del lavoro, Tiziano Treu, non avesse sbloccato i fondi previsti dalla legge 236/93, per consentire l’acquisizione degli ultra centenari Cantieri Meridionali Castellammare (CMC), da parte della Tess e fare avviare i progetti previsti sull’area.

Da mesi gli operai della fabbrica specializzata nella costruzione di carri ferroviari e di proprietà della Fervet di Bergamo, non percepivano il sussidio della cassa integrazione e gli animi erano esacerbati. Il sindaco, Catello Polito, comunicò ai lavoratori tutta la propria solidarietà e sottolineando come la responsabilità dei ritardi non era da imputare alla sua amministrazione.

Soltanto nella tarda serata del 3 maggio, dopo quattro giorni d’occupazione dell’aula consiliare, di blocco degli uffici e delle attività municipali, gli scioperanti lasciarono l’antichissimo Palazzo Farnese, con la garanzia avuta dai parlamentari del collegio della prossima firma del decreto di stanziamento dei 19 miliardi della legge 236/93.

 

Il IV Congresso comprensoriale della Camera del Lavoro nel 1996

 

Il 23 e 24 maggio si tenne all’Hotel Oriente di Vico Equense il IV e ultimo congresso comprensoriale della Cgil, dovendosi sancire lo scioglimento delle strutture comprensoriali e l’unificazione con Napoli, ripristinando la Camera Confederale del Lavoro provinciale entro i successivi sei mesi.

Il clima nel sindacato comprensoriale era incandescente, tra incomprensioni, divisioni e rotture violente tra Zeno e gli altri componenti della segreteria.  Consapevole della definitiva chiusura di una lunga fase, quella dell’unità dei gruppi dirigenti sindacali locali, Zeno cercò nuove alleanze nei gruppi legati all’area d’Alternativa Sindacale, la componente di sinistra nata dalle ceneri di Essere Sindacato, politicamente legata, nelle idee e nella strategia al partito di Rifondazione Comunista, ma contemporaneamente cercò di legarsi anche all’eterogeneo raggruppamento sindacale coalizzatosi, nella fase precongressuale, contro la forte maggioranza detenuta da Michele Gravano e Antonio Crispi, Segretari generali di Napoli e della Campania.

Purtroppo per Zeno entrambi i gruppi di cui cercò l’alleanza, probabilmente senza crederci molto, erano molto deboli a Castellammare, potendo contare quasi esclusivamente sulla Filcams guidata dal fedelissimo Antonio Aprea, su una parte dello Spi, il potente sindacato dei pensionati, sulle simpatie sparse fra alcuni delegati di fabbrica e d’enti pubblici, compresi fra questi quelli facenti capo ad Alternativa Sindacale. 

A queste condizioni la sconfitta congressuale fu inevitabile e vide la personale umiliazione di Giovanni Zeno sotto il profilo dei consensi ottenuti nei voti scaturiti dal segreto dell’urna nella elezione finale per eleggere i delegati ai congressi provinciale e regionale.

A rendere ancora più insopportabile la sconfitta fu lo scandire continuo della lettura dei voti sui nomi di Alfonso Natale e Raffaele Scala, sui quali si concentrò la maggioranza assoluta dei voti, anche grazie al voto compatto dei delegati di Torre Annunziata sul Segretario della loro Camera del Lavoro, provocando nuove tensioni e la rottura insanabile con Zeno.

Giovanni assisteva, pallido, silenzioso e impassibile, alla sua sconfitta, constatando che alla fine non arrivò neanche terzo, superato da Giovanni Di Lauro, un impiegato comunale di Boscotrecase, attivo militante e dirigente della potente categoria della Funzione Pubblica Cgil, che per qualche tempo aveva diretto, con Acanfora, la stessa Camera del Lavoro di Torre Annunziata e da Catello Di Maio, che si era mostrato il più feroce antagonista di Zeno in quegli ultimi mesi, con violenti scontri verbali, al calor bianco.

Il voto negativo impedì quindi la riconferma di Giovanni a Segretario Generale, congelando la stessa segreteria trasformata in Coordinamento nell’attesa dei successivi sviluppi.

A Napoli erano invece rieletti senza problemi Michele Gravano e Antonio Crispi nelle rispettive cariche di Segretari Generali di Napoli e della Campania.

Quello stesso pomeriggio Giovanni dimostro tutto il suo sangue freddo quando, finito il congresso e andati via tutti i delegati, rimase a godersi l’ultimo sole sul terrazzo dell’Hotel con il ristretto gruppo dirigente del comprensorio, gli stessi che gli avevano voltato le spalle e votato contro.

Lo scenario che si presentava a un eventuale spettatore esterno era quello di un gruppo di amici che si godeva un pomeriggio di sole, senza sapere come tutto era invece quasi irreale.

Una decina di dirigenti sindacali, tra cui gli stessi Alfonso Natale, Raffaele Scala, Giovanni Di Lauro e Catello Di Maio, seduti a cerchio sulle rispettive sedie su quel terrazzo assolato, a mangiarsi un gelato offerto dallo stesso Zeno.

Con lo stesso sconfitto segretario a tenere come sempre banco, parlando del più e del meno, senza nessuno accenno a quanto era accaduto.

Neanche il suo leale compagno di sempre, Antonio Aprea, seduto al suo fianco, proferì parola che non fosse di scherzo, reprimendo il probabile fuoco che gli covava dentro, la voglia, forse, di gridare il suo sdegno, probabilmente suggerito dallo stesso Zeno.

Completavano quella singolare compagnia, in quello strano pomeriggio di maggio, Pasquale Nigro della segreteria della Fillea, Pasquale Petrazzuolo, Alfonso Selleri e Antonio Santomassimo.

I gentlemen della più raffinata scuola inglese non avrebbero saputo sfoggiare un miglior savoir faire, mostrando, rimanendo sul francese, da parte di più d’uno, un inaspettato e insospettabile, savoir vivre, a riprova di come cinismo e ipocrisia siano i pilastri sui quali si reggono le umane convivenze e i rapporti sociali, individuali e di gruppo. 

Le vicende interne della Cgil non potevano naturalmente portare al blocco delle iniziative e il 1° e il 4 luglio, dopo una lunga serie di riunioni tecniche, alle quali non partecipava il sindacato, era sottoscritto a Napoli, nella sede della Regione Campania, l’Accordo di Programma per la reindustrializzazione dell’area Dalmine di Torre Annunziata, prevedendo un investimento di almeno 100 miliardi di lire e 631 nuovi posti di lavoro da ridistribuire nelle nuove 12 aziende da collocare sull’area dell’ex Tubi Dalmine Ilva, una delle due aziende in cui si era suddivisa la Dalmine nell’ambito della riorganizzazione dell’Ilva fin dal 1991.

Il 30 luglio se ne prendeva atto e si informavano ufficialmente le organizzazioni sindacali in una riunione tenuta in Task Force a Roma.

Il suo Presidente, Gianfranco Borghini, si ritrovò, forse per la prima volta, a tenere un incontro sereno tra le mille infuocate riunioni che da sempre caratterizzavano quelle tenute per l’area torrese stabiese.

Lo stesso Verbale sottoscritto azzardava la possibilità di avviare finalmente a soluzione i problemi dell’emergenza occupazionale fin dal successivo ottobre, con i primi insediamenti derivanti dai piani di reindustrializzazione scaturiti dall’Accordo di Programma.

Naturalmente, ancora una volta, niente era più lontano dalla realtà, di quell’incauta affermazione, se ancora nel marzo 1999 erano soltanto due le aziende effettivamente collocate sulle dodici previste e con poche assunzioni effettuate.

L’accordo, salutato così entusiasticamente dai suoi firmatari, non vedrà mai la sua piena realizzazione perché anche quando le aziende, alcune delle quali diverse da quelle in principio progettate, riusciranno effettivamente a insediarsi, andranno poi in crisi subito dopo, provocando un nuovo terremoto fin dall’inizio del nuovo secolo.

Un terzo millennio iniziato, come meglio vedremo, all’insegna di nuove, solitarie lotte operaie, per difendere il proprio posto di lavoro, senza il respiro largo di un progetto ormai scomparso, come il sogno svanito di una stagione irripetibile e pertanto destinato a una inevitabile, dura sconfitta.

Qualche giorno dopo, l’8 agosto, una delibera del Cipe, il Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica, apriva la strada verso la realizzazione di nuove iniziative produttive con la stessa partecipazione di minoranza della Gepi.

Ancora una volta l’euforia si sparse e Catello Polito, ancora una volta, non seppe frenare la propria enfasi dichiarando che presto gli operai sarebbero tornati in fabbrica, dando finanche risposte alla disoccupazione intellettuale.

Altri, presi dall’ingordigia dei 200 miliardi di lire piovute sulla Tess, furono presi da parossismo campanilistico: «Chiediamo che siano messi alcuni fondamentali paletti»gridava Catello Dello Ioio, un consigliere comunale stabiese, assurto a Presidente delle Terme Stabiane nel novembre 2010, ex democristiano, passato col Centro cristiano democratici (Ccd), uno dei tanti partiti nati dall’implosione della Democrazia Cristiana e fondato da Pier Ferdinando Casini, Clemente Mastella e Francesco D’Onofrio, rifiutando di aderire al neonato Partito Popolare entrambi sorti il 18 gennaio 1994.

A gran voce il consigliere comunale chiedeva, ancor prima dell’effettivo stanziamento, che Castellammare assorbisse la maggior parte delle risorse disponibili.

Già vaccinati contro le docce fredde delle passate esperienze, le rappresentanze operaie invitavano invece alla cautela. Non avevano torto gli operai.

Nel 1993 si era parlato di dare soluzione ai problemi del territorio inventandosi l’Area di crisi Torrese stabiese, con una pioggia di miliardi prossimi a venire, di cui nessuno aveva mai visto l’ombra, poi nel 1994 si era pubblicizzato il Protocollo d’Intesa, sottoscritto il 19 dicembre con Silvio Berlusconi, 19 progetti e un altro mare di miliardi rimasti sulla carta, infine ci si era inventati il Contratto di Programma aperto, istituito con la programmazione negoziata nel 1995, facendo gridare al miracolo dei 200 miliardi e dei mille posti di lavoro in quel bollente agosto 1996.

Ma non si era ancora spenta l’eco di questa nuova magica formula, quando nei primi giorni di settembre si cominciò a vociferare di una nuova intesa tra Governo e Cgil Cisl Uil nazionali, di un Patto in grado di favorire investimenti e lavoro, inventando un nuovo strumento di sviluppo dell’area al fine di creare occupazione.

Era il Contratto d’Area, da sperimentare in tre delle aree più disastrate del sud, sulle 62 già censite a livello nazionale dalla Task Force: Crotone, Manfredonia e area torrese stabiese. Il 24 settembre, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, Sergio Cofferati, Sergio D’Antoni e Pietro Larizza, sottoscrivevano il Patto per il Lavoro, impiantato sulla flessibilità del lavoro e la deregulation, con Romano Prodi, aprendo la strada a nuove e più feroci liberalizzazioni del mercato del lavoro perseguite dalla destra e non osteggiate da una sinistra sempre più dimentica delle sue origini.

Seguivano le firme di altre 18 sigle di organizzazioni sindacali di lavoratori e imprenditori. Il Patto sarebbe stato accompagnato dall’impegno di tenere una Conferenza nazionale sul lavoro da tenersi a Napoli, ma dopo numerosi rinvii non se ne sarebbe fatto più niente, nonostante i reiterati impegni formali assunti dallo stesso Prodi.

L’accordo non era stato ancora firmato e già Ersilia Salvato, la stabiese fondatrice di Rifondazione Comunista, Vice presidente del senato, parlava di colonialismo, di ritorno alle gabbie salariali, d’offesa alla dignità dei lavoratori.6

Anni dopo il Patto per il lavoro sarebbe stato messo in soffitta da un altro più micidiale strumento di riforma del mercato del lavoro, trasformato in legge nel 2003 dal secondo governo Berlusconi, la cosiddetta Legge Biagi, costata la vita al suo autore, consulente del Ministro del lavoro, assassinato il 19 marzo 2002 dalle Brigate Rosse.

La legge 30, di fatto, regolarizzò e istituzionalizzò la precarietà del lavoro giovanile, in particolare nel Mezzogiorno, dove, per molti, troppi imprenditori, le Leggi, spesso, più che rispettate sono interpretate a proprio uso e consumo.

Nata per far emergere il lavoro nero, liberando il mercato del lavoro da eccessive rigidità, la legge 30 del 2003 di fatto restringerà di parecchio le porte per accedere al lavoro a tempo indeterminato, facendo dilagare, in particolare nel Mezzogiorno, il lavoro grigio con centinaia di migliaia di nuovi precari, in particolare giovani, per i quali sarà vietato programmare il futuro.

Infatti le aziende troveranno molto più comodo assumere giovani utilizzando le numerose tipologie contrattuali offerte dalla nuova legge, tutte rigorosamente precarie: dal lavoro a termine, prorogabile oltre misura, al contratto d’inserimento in sostituzione del vecchio contratto di formazione, al lavoro intermittente, «realizzando il sogno di ogni datore di lavoro, quello di avere i lavoratori solo quando servono e per il resto a casa», collaborazioni a progetto dietro i quali si nasconde lo sfruttamento più vergognoso come potrebbero dimostrare le migliaia di ragazze assunte presso i call center e non solo, somministrazione a tempo determinato in sostituzione del lavoro interinale e, infine, nuove forme di part time consentite perfino nel settore edile per la gioia di tutti quegli imprenditori truffaldini che stanno assumendo operai edili pagandoli part time, ma facendoli lavorare, naturalmente, otto o più ore giornaliere.

Contro questa nuova forma di sfruttamento legale, la Cgil, in disaccordo con Cisl e Uil, proclamerà inutilmente lo sciopero generale e numerose proteste, ma il nuovo gelido vento di destra e il declino economico e civile attraversato dall’Italia saranno formidabili deterrenti capaci di frenare le pur appassionanti lotte della sinistra sociale e politica.

Un freno tanto più micidiale quanto la profonda, irreversibile crisi politica della sinistra, in particolare quella comunista, sempre più litigiosa e frammentata al suo interno, priva di idee, di programmi e di leader capaci di indirizzare il movimento operaio verso una nuova e più moderna prospettiva di lotta e di governo.

La contraddizione più grande si avrà nel luglio 2007 quando al governo del Paese ci sarà nuovamente il centro sinistra di Romano Prodi.

In 32 pagine scritte dal ministro del lavoro, Cesare Damiano, ex sindacalista della Cgil, sono riformate le pensioni volute dal precedente ministro leghista, Roberto Maroni, gli ammortizzatori sociali e confermato sostanzialmente l’impianto complessivo della legge Biagi con palese soddisfazione di Cisl e Uil, mentre un’imbarazzata Cgil guidata da Guglielmo Epifani si accontenterà di una ripulita delle questioni più controverse legate alle forme flessibili del mercato del lavoro disegnate dalla  legge 30, in precedenza tanto ferocemente combattuta.

In ottobre si avviarono nella Cgil napoletana le prime riunioni per consentire la costituzione della Camera del Lavoro Metropolitana, con il completamento della segreteria provinciale e regionale.

Quasi contemporaneamente avvenne una sorta di scissione nell’area di Alternativa Sindacale campana. Da un lato si costituiva l’area Programmatica dei comunisti della Cgil, composta dai ‘duri e puri’ iscritti a Rifondazione Comunista guidata da Giuseppe Di Iorio, dall’altra, e in contrapposizione alla prima, nasceva l’Area di Alternativa Sindacale, ala dei comunisti moderati facente capo a Luigi Servo.

Sulla stampa locale iniziava, intanto, il balletto sulle candidature nelle due segreterie, quella napoletana e quella regionale.

Il direttivo campano pose fine a ogni polemica il 16 di quello stesso mese eleggendo nella segreteria regionale Massimo Angrisano, Vito Barile, Maria Giuliano e Paolo Giuliano, aggiungendosi ad Antonio Crispi, Gianni De Luca e Claudio Refuto, originario quest’ultimo di Torre Annunziata, già segretario provinciale e regionale della Filziat, il sindacato degli alimentaristi, eletti direttamente dai delegati del congresso tenutosi a giugno.

Più complesse le vicende della Camera del Lavoro di Napoli, perché fu necessario attendere maggio 1997 per arrivare a definire la nuova segreteria provinciale con l’ingresso di Alfonso Natale dell’area torrese stabiese.

Negli oltre cinquant’anni di storia repubblicana della Cgil napoletana, soltanto altri due stabiesi avevano avuto la possibilità di essere eletti in una segreteria provinciale della Camera del Lavoro, ed erano stati Gennaro Ricolo, tra la fine degli anni ’40 e gli inizi degli anni ’50 e Luigi Alfano tra il 1968 e il 1972.

Intanto il nuovo strumento individuato per risollevare le sorti delle aree di crisi, il Contratto d’Area, rimaneva ancora una vuota formula e inutilmente in un seminario proposto dall’Istituto Nazionale di Urbanistica e dalla Cgil campana il 17 gennaio 1997, all’Hotel Stabia di Castellammare, Angelo Airoldi si sforzava di dimostrare come su quest’area vi fosse la massima attenzione nazionale sia da parte del sindacato sia dello stesso governo.

Non la pensavano allo stesso modo gli operai delle fabbriche in crisi e non a caso, appena cinque giorni dopo, organizzarono una manifestazione conclusasi con un’assemblea aperta nella Tecnotubi con la partecipazione dello stesso sindaco di Torre Annunziata, Francesco Maria Cucolo e i tre responsabili confederali dell’area, Scala, Vitagliano e Agretti.

Partivano da qui nuove richieste d’incontro verso la Presidenza del Consiglio, nuovi appelli a fare presto, a non lasciare nella disperazione centinaia di lavoratori sempre più senza speranza.

Seguiva una nuova riunione in Task Force con l’ennesimo verbale di riunione farcito d’impegni riguardanti lo stato d’attuazione dei progetti di reindustrializzazione, di reimpiego e ridefinizione della necessità di misure di sostegno al reddito in scadenza, ma senza nessuna effettiva garanzia di ottenere nuove proroghe.

L’incertezza degli eventi provocò una nuova violenta reazione dei lavoratori con l’occupazione dell’aula consiliare del comune di Torre Annunziata.

Nella stessa giornata il sindaco Cucolo scrisse al sottosegretario al Bilancio, Isaia Sales, al presidente della Task force, Gianfranco Borghini, al Ministro del Lavoro, Tiziano Treu e al Prefetto di Napoli, Achille Catalani, facendo presente quanto accadeva nella sua città e chiedendo di rimuovere le difficoltà.

Dello stesso tenore la richiesta d’incontro urgente da parte delle tre organizzazioni sindacali confederali territoriali, Cgil Cisl Uil.

Gli operai delle diverse fabbriche metalmeccaniche e delle costruzioni ebbero appena il tempo di abbandonare l’aula consiliare, quando questa fu occupata da un gruppo di disoccupati organizzati in segno di protesta contro la Giunta comunale perché, a loro dire, si consentiva di spendere alcune decine di milioni di lire per manifestazioni in concomitanza con il carnevale, lasciando senza sussidio le famiglie povere della città, non a caso considerata la capitale dei disoccupati e dei cassaintegrati.

La protesta si allargò contro le organizzazioni sindacali accusate di tutelare soltanto chi aveva già un lavoro.

Triste destino quello del Palazzo Comunale di Torre Annunziata, diventato terra di nessuno, alla merce di chiunque, gruppo, corporazione o altro avesse rivendicazioni da fare, a qualunque titolo, giustificato o meno.

Davvero divenne, l’antico Palazzo Criscuolo, il municipio più assaltato d’Italia, conquistando un primato paradossale perché frutto dell’idea di poter chiedere a un’istituzione come quella comunale, risposte che non poteva dare se non molto parzialmente. 

Sui giornali si sprecavano intanto i titoli: L’area torrese stabiese ad un passo dalla rivolta, scriveva il Globo nella sua pagina napoletana il 12 febbraio.

A nulla serviva un comunicato della Tess annunciante la firma della convenzione con il ministero del lavoro per l’erogazione dei 19 miliardi necessari per acquisire le aree dismesse e l’assegnazione di ulteriori 9 miliardi dai fondi Fesr (Fondi Europei di Sviluppo Regionale) e Ministero del Lavoro per la formazione professionale di cassintegrati e disoccupati di lunga durata.

Il tempo delle parole si era da tempo consumato. Gli operai gridavano, «Roma, Roma», nelle sempre più infuocate assemblee alle quali partecipavano ormai non più soltanto i dirigenti sindacali ma perfino i due sindaci più esposti tra i 12 comuni dell’area Tess, Polito e Cucolo, e spesso gli stessi parlamentari della zona, Salvatore Vozza, Gianfranco Nappi ed Enrico Pelella, trascinati in un vortice dal quale nessuno era più in grado di uscire e sembrava ora inghiottire tutti, senza salvare nessuno, colpevoli e innocenti.

E venne il tempo di Roma, quando, il 20 febbraio, 400 scatenati operai, residui delle otto fabbriche interessate alla reindustrializzazione, attraversarono le strade della capitale d’Italia. Inutilmente le forze dell’ordine provarono a fermarli.

Quando si resero conto di trovarsi di fronte operai decisi a tutto, probabilmente avvertiti dalla stessa Questura di evitare guai maggiori, si rassegnarono ad aprire loro la strada, indirizzandoli prima verso la sede della Task Force e poi verso Palazzo Chigi.

Lì si strappò un nuovo impegno per il 26, guadagnando una settimana di respiro, di pace sociale, cercando una soluzione impossibile a trovarsi. Ma sei giorni sono meno di un respiro per chi deve risolvere impegni mancati, false promesse, bugie inventate fondando su queste la propria carriera.

E ricominciò il nuovo tour de force con i protagonisti di sempre, quattrocento disperati guidati dai loro dirigenti sindacali, delegati di fabbrica e segretari territoriali, raggruppati in una folta delegazione per un faccia a faccia con i sottosegretari al lavoro, Federica Rossi Gasparrini e Antonio Pizzinato, conoscendo momenti di altissima drammaticità difficilmente narrabili.

Catello Monaco, detto Zacchiello, leader degli ultras della squadra di calcio locale, consigliere comunale del Partito Popolare, capopopolo riconosciuto, uno dei delegati sindacali più duri e violenti e per questo temuto negli stessi palazzi del potere romano, mostrò l’intero suo repertorio di chiassosa violenza verbale, controllando a stento la rabbia fisica, scaricata su una sedia schizzata via.

Ma nonostante tutto, com’era nelle cose, non ci fu soluzione ai problemi esposti comunque con grande dignità, pur tra momenti di panico e di dura tensione emotiva.

Fu necessario un nuovo incontro, il giorno dopo, ma soltanto per strappare un impegno sulla proroga della cassa integrazione, ai sensi del comma 21, art. 4, legge 608, numeri diventati familiari alle centinaia d’operai perché a quel comma, a quell’articolo, era ormai legata la speranza per continuare a credere nel loro domani.

Dai comunicati stampa emessi sia dalle organizzazioni sindacali, sia dal ministero del lavoro, non emergeva, se non tra le righe, quanto alta era stata la tensione durante quei due turbolenti giorni romani.

Se la proroga della cassa integrazione straordinaria per altri sei mesi servì a quietare, momentaneamente, gli animi, non un solo passo in avanti facevano tutte le altre questioni. Anzi, in alcuni casi si aggravavano con le dimissioni del terzo amministratore delegato della Tess, Giacinto Giardini.

Subentrava nei primi giorni di maggio un nuovo funzionario targato Gepi, l’ingegnere Francesco Porfilio, sul quale molte polemiche saranno sollevate durante tutto il suo mandato.

Il 13 maggio si tenne una riunione in Task Force per prendere atto della richiesta avanzata dalle rappresentanze dei lavoratori e dei datori di lavoro per l’attivazione del contratto d’Area Torrese Stabiese e per constatare se vi erano i requisiti previsti dalla delibera Cipe del 21 marzo scorso. In questa delibera si dettavano le tre condizioni preliminari per accedere al Contratto d’Area:

1. avere le aree attrezzate per i nuovi insediamenti produttivi;

2. Possedere i progetti d’investimento; 3. Avere il soggetto intermediario

Con l’attivazione del nuovo strumento di programmazione negoziato si riaprirono le danze degli incontri istituzionali con i Comuni, la Provincia, la Regione e la Prefettura.

I lavoratori guardavano con sempre maggiore scetticismo quanto avveniva intorno a loro, incapaci talvolta anche di protestare, di reagire a stanchi rituali ripetuti all’infinito.

Adagiati tra la cassa integrazione e i lavori socialmente utili, con i quali integravano lo scarso reddito, presso i comuni di Castellammare e Torre Annunziata, l’Asl 5, il Parco del Vesuvio e Iacp di Napoli, le ormai ex tute blu attendevano gli eventi tra rassegnazione e pregiudizi.

A tenere desta l’attenzione venne, nei primi giorni di giugno, l’allarme da parte del sindacato unitario dei metalmeccanici, di una possibile chiusura dell’Avis, lo storico stabilimento stabiese specializzato nelle riparazioni delle carrozze ferroviarie per conto delle Ferrovie dello Stato.

Di proprietà della Finmeccanica, l’Avis aveva conosciuto antichi splendori e aveva dato lavoro a oltre mille operai, ma di questi ora rimanevano soltanto 217 dipendenti, dopo la fuga in massa dei lavoratori in possesso de requisiti per ottenere il prepensionamento, approfittando dei benefici della legge sulla dismissione dell’utilizzo dell’amianto, per quanti ne avessero avuto contatto.

Ci fu poi l’allarme della esclusione dall’area di crisi di tutti i comuni circondari di Castellammare e Torre Annunziata, con i quali si era dato vita alla Tess, pur come soci di minoranza.

 Questa notizia provocò in particolare l’ira dei sindaci di Pompei e Gragnano, Sandro Staiano e Sergio Troiano, tra i più attivi nella presentazione di progetti riguardanti il loro territorio.

 

Firma del preliminare del Contratto d’Area

 

Il 2 luglio conobbe invece un nuovo lampo di belligeranza da parte dei 400 lavoratori più esposti delle otto aziende in crisi irreversibile. Chiamati a manifestare contro la Regione Campania da Cgil Cisl Uil, i cipputi dell’area torrese stabiese non si tirarono indietro e portarono i loro mai esausti striscioni sotto il palazzo della Giunta regionale, teatro di mille manifestazioni.

A causare l’ennesima protesta era stata la mancata convocazione, per un incontro richiesto ripetutamente fin dal 19 maggio dalle organizzazioni sindacali, da parte del Presidente della Giunta regionale, Antonio Rastrelli e dell’assessore, Francesco D’Ercole.

Da qui la rumorosa marcia operaia su Santa Lucia, sede presidenziale della Giunta regionale. Da quell’incontro nessuno si aspettava risposte concrete, così come, infatti, accadde, e tutto si risolse con l’impegno di una nuova convocazione allargata ai sindaci, Tess, Provincia, Spi e Gepi.

Di nuovo, pochi giorni dopo, venne la sottoscrizione in prefettura del protocollo sulla legalità, ultimo atto del Prefetto uscente, Achille Catalano, in procinto di essere sostituito da Giuseppe Romano.

In quattro articoli si definivano gli interventi in materia di ordine e sicurezza sui territori dell’area torrese stabiese.

In realtà uno dei tanti inutili documenti sottoscritti e rinnegati, senza nessuna reale applicazione per l’assoluta mancanza di volontà delle parti firmatarie. Nessuna esclusa.

Avevano invece un’improvvisa accelerazione gli incontri istituzionali tesi ad approdare alla firma del Contratto d’Area, accompagnati da una campagna di stampa in cui si magnificava la rivoluzione di un esperimento primo in Italia, capace di modificare l’economia di un territorio attraverso agevolazioni fiscali, forme di flessibilità e incentivi a investimenti pubblici e privati.

Cinquecento miliardi di lire, 15 nuove aziende e 2mila nuovi posti di lavoro, si scriveva a caratteri cubitali sulla stampa non soltanto locale, già dimentichi delle cocenti delusioni di quegli ultimi cinque anni.

Quando il 29 luglio si sottoscrisse l’attivazione del Contratto d’Area, in realtà un preliminare da sottoporre alla firma del Ministero del Tesoro, Bilancio e Programmazione Economica, in cui si prendeva atto delle positive caratteristiche del territorio torrese stabiese non mancarono, come sempre, le polemiche di rito.

La rottura nacque subito, in piena riunione, perché oltre i soliti impegni ripetuti all’infinito, sembravano venir meno atti concreti che dessero il senso della svolta reale. Sotto accusa furono messi la Tess, la Regione e la stessa Task Force ritenuti incapaci di portare avanti quei progetti di cui da anni si parlava senza mai trasformarli in piani operativi.

Nei giorni seguenti furono firmati gli altri due contratti preliminari per Crotone e Manfredonia e l’estate trascorse con Cgil Cisl Uil, locali e nazionali, a polemizzare al loro interno sulla flessibilità da concedere e sulla riduzione dei minimi salariali, salvo poi trovare unità d’intenti su altri fronti come quello sulla mobilitazione contro il secessionismo paventato a più riprese dalla Lega di Umberto Bossi, realizzando il 20 settembre le grandi manifestazioni tenutesi a Milano e Venezia.

Gli scontri sulle diverse vedute ripresero in ottobre, amplificate dai giornali e come sempre fu la Fiom comprensoriale a far sentire ancora una volta tutto il malessere della sua base sulle mille difficoltà in cui navigavano i piani di reindustrializzazione con un convegno tenuto il 14 di quel mese, mentre la Fillea si chiedeva quale fine avessero fatto piani e progetti sulle infrastrutture concordate e riconosciute da tutti come propedeutiche per qualsiasi sviluppo dell’area.

Nelle stesse ore altre polemiche esplodevano sulla Erregi, la prima azienda nata dall’Accordo di Programma sulla Dalmine del 1° luglio 1996. Ancora prima d’insediarsi l’Erregi, azienda del gruppo Metecno, il cui progetto prevedeva la produzione di pannelli metallici per l’edilizia e l’assunzione di 70 dipendenti di cui 26 da reimpiegare dalla ex Tubi Dalmine, aveva provveduto a dieci nuove assunzioni inviandoli poi a Milano per un corso di formazione.

Le proteste scaturivano per alcune assunzioni fatte a favore di persone provenienti da altre province e non, come prevedevano gli accordi sottoscritti, dagli esuberi fuoriusciti dalle fabbriche in crisi e, in subordine, dagli Uffici di collocamento dell’area torrese stabiese.

Le accuse di clientelismo e di infiltrazioni camorristiche infiammarono gli animi di dirigenti sindacali e politici.

Le prime accuse erano state lanciate dal Segretario della Camera del Lavoro di Torre Annunziata, Raffaele Scala, già il 24 settembre sul periodico locale, Metropolis, poi riprese sullo stesso giornale da Matteo Vitagliano, Responsabile locale della Cisl. Nella intervista rilasciata al periodico locale, Vitagliano, in polemica con il sindacalista della Cgil, escludeva a priori ogni ingerenza camorristica, calcando invece la mano su una pesante ipoteca clientelare di natura politica. In realtà le due ipotesi non si escludevano a vicenda.7

Intanto i parlamentari, Salvatore Vozza, Gianfranco Nappi ed Enrico Pelella scrivevano a Prodi chiedendo un suo intervento per superare la fase di stallo in cui era nuovamente precipitato il processo di reindustrializazione dell’area e individuavano nei conflitti di competenze per le diverse autorizzazioni, nelle eccessive rigidità delle norme urbanistiche, nella mancanza di chiarezza sui progetti da realizzare e sugli investimenti da utilizzare i ritardi che, di fatto, impedivano l’effettivo decollo del Contratto d’Area.

A ruota seguiva una denuncia di Cgil Cisl Uil, rivolta allo stesso Presidente del Consiglio, richiamando alle proprie responsabilità tutti i soggetti istituzionali coinvolti, ricordando gli impegni assunti da ciascuno, e non mantenuti, per garantire il rapido avvio del processo di sviluppo nell’area di crisi.

A rinforzare il lamento sui ritardi accumulati, scendeva in campo Mario Rosanova: l’imprenditore di Sant’Antonio Abate aveva presentato un progetto per la realizzazione di un polo agro alimentare, in cui si prevedevano cinque nuove aziende e un investimento di cento miliardi, tali da garantire lavoro a 312 nuovi dipendenti. Cosa importa se il piano era reale o meno, l’importante era partecipare alla grancassa, far sentire la propria voce, far capire di esserci e di voler contare qualcosa.

Vere o presunte le proteste e i piagnistei, la situazione non si spostava di una virgola e a niente servirono, naturalmente, una riunione in Regione Campania il 5 novembre, con tutte le parti interessate e la successiva ricognizione di rito fatta il 10 in Task Force.

L’ultimo incontro, se non altro, servì ad accelerare il provvedimento di proroga della cigs per altri otto mesi, riguardante 2.700 lavoratori delle diverse aree di crisi, tra cui Crotone e Manfredonia, oltre i 400 del torrese stabiese.

 

La morte di Giovanni Zeno

 

L’anno si chiuse con l’improvvisa scomparsa di Giovanni Zeno, colpito da un’ischemia nella tarda serata del 21 dicembre.

Nei primi di febbraio, l’ex segretario comprensoriale era stato chiamato a Roma, nella Cgil nazionale, per ricoprire l’incarico di Responsabile del dipartimento coesione economica per il Mezzogiorno. Si era trasferito controvoglia, senza metterci nessuna passione, vivendo il trasferimento come un esilio forzato, ma aveva continuato a seguire con puntiglio le questioni legate al contratto d’area.

Il 7 maggio era apparso sul settimanale, Metropolis, un suo articolo in cui proponeva un forum per le città interessate al Contratto d’area, poi in luglio il suo nome aveva cominciato a circolare sulla stampa locale quale candidato a Presidente del Miglio d’Oro, il consorzio nato fra quattro comuni della fascia costiera vesuviana, San Giorgio a Cremano, Portici, Ercolano e Torre del Greco, a seguito della costituzione di un Patto territoriale con l’intento di attivare 61 progetti per 1.164 posti di lavoro e un investimento finanziario pari a 267 miliardi.

Le indiscrezioni giornalistiche lo fecero andare su tutte le furie, leggendole come un modo per bruciare la sua ennesima candidatura a un ruolo di primo piano fuori dall’organizzazione sindacale.

Ancora in ottobre era in lizza con Osvaldo Cammarota, già consigliere comunale e assessore comunista a Napoli sul finire degli anni Settanta e nei primi anni Ottanta, Presidente della Lega delle Cooperative Campania e infine assessore al comune di Ercolano, coordinatore del Miglio d’oro, di cui era stato uno dei promotori.

Tra i due presunti avversari, a sorpresa, il 18 ottobre emerse la candidatura di Costantino Formica, ex parlamentare del Pci e imprenditore del terziario avanzato, nominato con inusuale rapidità il 20 di quello stesso mese.

Il 23 novembre, Giovanni Zeno, rilasciava la sua ultima dichiarazione pubblica sul Corriere del Mezzogiorno, denunciando gli inammissibili ritardi in cui versava il Contratto d’Area torrese stabiese e richiamava le istituzioni centrali e locali a far la loro parte accelerando le conferenze di servizi al fine di definire efficaci percorsi di semplificazioni.

 

«Ma se tutto questo non sarà mantenuto, prenderemo iniziative di mobilitazione. Già entro la prima decade di dicembre organizzeremo iniziative pubbliche a Crotone, Manfredonia e a Torre Annunziata, con la partecipazione delle segreterie nazionali.»8

 

Aveva minacciato Zeno senza sapere che il suo destino aveva deciso per lui in altro senso e il conto alla rovescia dei suoi giorni era già inesorabilmente iniziato fermandosi quella tragica domenica, intorno alle 22,30 del 21 dicembre. Aveva soltanto 54 anni.

Quanto egli era conosciuto e, se non amato, sicuramente rispettato, si scoprì nelle due lunghe interminabili giornate di lutto, quando fu preparata la camera ardente nel salone delle riunioni della Cgil di Via Torino, a Napoli.

Centinaia di persone sfilarono per tutta la giornata davanti alla sua bara, sempre scortata da un picchetto d’onore formato da semplici operai, militanti e dirigenti della Cgil pronti a darsi il cambio ogni mezz’ora, tanti erano i volontari desiderosi di rendere l’ultimo omaggio al dirigente così prematuramente scomparso.

Si videro facce importanti della vita politica campana, deputati e senatori, consiglieri comunali, provinciali e regionali, sindaci e assessori, ma soprattutto delegati sindacali, semplici militanti, tanti operai.

Una fiumana di persone, oltre ogni immaginabile previsione, sorprendendo tutti, amici e nemici e forse suscitando qualche rammarico in chi avrebbe potuto offrirgli i riconoscimenti cercati in vita, passò davanti alla bara per consegnare l’ultimo saluto, offrire l’ultimo pensiero al grande dirigente sindacale, all’uomo ambizioso, caparbio e sfortunato.9

Chi scrive ricorda una delle tante serate trascorse fino a tarda ora nella Camera del Lavoro, quando, esaurito il via vai degli operai, le riunioni ufficiali e informali, le ultime telefonate e magari dopo aver subito l’ennesimo assalto di delegati e militanti, sempre più infuriati per l’andamento della situazione, si rimaneva ancora un poco con il ristretto, affiatato gruppo che si era andato formando in quegli anni di fuoco e di fiamme.

Tra alcuni di noi era nato un rapporto che andava oltre la semplice condivisione di responsabilità politica del territorio, di comunanza di interessi sindacali, di scrivanie divise da stanze dello stesso appartamento che andava formando la Camera del Lavoro stabiese al secondo piano del Viale Europa.

Qualcosa di più profondo ci univa, che forse è troppo chiamare amicizia, ma di certo andava oltre i consueti rapporti di lavoro, mai facili, mai semplici, tra dirigenti sindacali, spesso neanche chiari, per le tante divisioni personali, per le ambiguità, le invidie, le ambizioni che formano il normale substrato di tutti gli ambienti lavorativi e che non risparmiano il mondo sindacale, anzi per certi versi accentuati per la particolarità stessa dell’ambiente.

Per una strana alchimia di tempo e di luogo, dovuta al caso, per aver fatto convergere quel gruppo dirigente nella stessa Camera del Lavoro e complice non secondario la direzione di Zeno, era nata una sorta di affinità elettiva che ci faceva stare bene insieme.

Così anche quella sera il Gruppo si attardò riunendosi, come sempre faceva in questi casi, nella stanza del Segretario Generale. Sulle sedie a semicerchio intorno a Giovanni Zeno sedevano i soliti Aprea, Natale, Di Lauro, Scala, Di Maio e qualcun altro che non ricordo. Zeno, come sempre, faceva il mattatore con i suoi ricordi di vita vissuta.

Tra i suoi ricordi politici più di una volta raccontò di quando, appena ventenne, ancora giovane dirigente della Fgci di Ercolano, nel 1964 fu inviato dalla sezione a partecipare agli imponenti funerali romani di Palmiro Togliatti, il leggendario Segretario Generale del PCI, portando una corona d’alloro dietro il carro funebre lungo l’intero percorso.

A un certo punto, come preso da un impeto d’inaspettata sincerità sentì il bisogno improvviso di raccontare uno dei motivi reali che da sempre gli impedivano il riconoscimento dei suoi meriti nella Cgil.

«Ovunque io vada -  disse sintetizzando un pensiero che lo accompagnava chissà da quando e di cui avvertì quella sera il bisogno di liberarsene -  nei primi due anni costruisco e nei successivi distruggo tutto, anche i rapporti umani che sono riuscito a stabilire con gli altri. Così è stato a Napoli, così a Salerno e in tutte le categorie che ho diretto in questi anni.»

Ci fu un momento di silenzio, tutti facemmo lo stesso pensiero: i due anni di permanenza di Giovanni a Castellammare erano già trascorsi, quando Antonio Aprea ruppe l’improvviso velo che era calato tra noi con una delle sue solite battute, di cui purtroppo ho perso il ricordo, ma sento ancora la collettiva risata liberatoria che distolse ognuno di noi dal fastidioso pensiero e si riprese a chiacchierare di altre faccende.

Questo ricordo mi ritornò forte, non saprei dire il motivo, il giorno dei funerali, quando nel Salone delle assemblee della Camera del Lavoro di via Torino, a Napoli, fu allestita la camera ardente, centinaia di persone passavano per rendergli l’ultimo omaggio e i compagni si alternavano nel fare il picchetto d’onore attorno alla sua bara.

 

(Prima parte)

 
Note

1 Testimonianza di Massimo Montelpari all’autore e ad Antonio Aprea nel 1998.

2 Metropolis, edizione speciale Castellammare, del 30 dicembre 1994, titolo cubitale in prima pagina: Tess il sogno diventa realtà.

3 Alla fine del 1997 si conteranno 33.722 Lsu in tutta la Campania di cui 15.962 solo nella provincia di Napoli. Nonostante gli enormi sforzi finanziari attraverso misure di pensionamento anticipato, incentivi di carattere economico, assunzioni presso società miste, enti pubblici ed imprese private, alcune create ad hoc, alla data del 1 febbraio 2010 ci saranno ancora 6.275 Lavoratori Socialmente Utili, di cui 3.849 a Napoli e provincia da reimpiegare.

4 L’Unità del 12 aprile 1996: Il Labur day sbarca in 400 piazze d’Italia.

5 Il Mattino del 14 aprile 2006: Più lavoro al Sud se perde la camorra, art. di Franco Mancusi

6 La Repubblica, 8 settembre 1996: Ersilia Salvato: colonialismo, di Antonio Ragone

7 Metropolis, anno IV, n. 40 del 15 ottobre 1997: Dalmine, l’accusa dei sindacati, art. di Emanuela Cirillo

8 Corriere del Mezzogiorno (inserto del Corriere della Sera) del 23 novembre 1997: Contratto Torre- Stabia, entro il 10 occorrono i pareri di congruità, art. di Simona Brandolini

9 La Repubblica del 24 dicembre 1997: E’ morto il sindacalista Zeno, ma cfr. anche Metropolis del 23 dicembre: Ciao Giovanni e altri periodici locali come Lo Strillone del 3 gennaio 1998 e La Voce della Provincia del 16 gennaio.

 

 

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